Il fondamentalismo contro l'Islam

Di Renzo Guolo Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Gli attacchi terroristici su New York e Washington, i proclami di Bin Laden e dei Taleban che incitano al jihad, la questione palestinese; persino le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano a proposito della superiorità della civiltà occidentale su quella islamica. Tutto, in queste settimane, sembra dilatare le tensioni tra Occidente e Islam, quasi a confermare le previsioni di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Ma è di questo che si tratta? Oppure i teorici dello scontro di civiltà fanno proprio, specularmente, lo stesso discorso del radicalismo islamico? Confermando, a parti rovesciate, l’esistenza di quella sorta di «bipolarismo religioso» che nelle teorie dei gruppi islamisti radicali divide il mondo in «partito di Dio», ovvero l’Islam e il Bene, e il «partito di Satana», l’Occidente e il Male. Ma la stessa, insolita, natura dell’alleanza che si è formata contro il terrorismo di matrice islamista non mostra invece che la battaglia si svolge anche dentro al mondo musulmano?

 

Gli attacchi terroristici su New York e Washington, i proclami di Bin Laden e dei Taleban che incitano al jihad, la questione palestinese; persino le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano a proposito della superiorità della civiltà occidentale su quella islamica. Tutto, in queste settimane, sembra dilatare le tensioni tra Occidente e Islam, quasi a confermare le previsioni di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Ma è di questo che si tratta? Oppure i teorici dello scontro di civiltà fanno proprio, specularmente, lo stesso discorso del radicalismo islamico? Confermando, a parti rovesciate, l’esistenza di quella sorta di «bipolarismo religioso» che nelle teorie dei gruppi islamisti radicali divide il mondo in «partito di Dio», ovvero l’Islam e il Bene, e il «partito di Satana», l’Occidente e il Male. Ma la stessa, insolita, natura dell’alleanza che si è formata contro il terrorismo di matrice islamista non mostra invece che la battaglia si svolge anche dentro al mondo musulmano?

Il mondo islamico è un mondo plurale, come si addice a un continente religioso che va dalle sponde oceaniche della Mauritania sino quelle dell’Indonesia. Di questo mondo plurale fanno parte anche le correnti islamiste che hanno come obiettivo quello di «reislamizzare l’Islam». Esse accusano l’Islam storico di essersi allontanato dal modello del «mito di fondazione», quello della comunità del Profeta caratterizzato dalla fusione tra politica e religione. Il mondo musulmano si è infatti riconosciuto in maggioranza nella «tradizione lunga» che giustifica la relativa separazione tra sfera politica e religiosa. Separazione che ogni società minimamente complessa ha dovuto sviluppare per riprodursi. La «minoranza intensa» fondamentalista si riconosce invece nella «tradizione breve dell’ortodossia deviante» che da quasi un secolo si batte per la ricomposizione tra le due sfere. Nell’Islam è dunque in corso un’aspra battaglia legata all’interpretazione della tradizione religiosa che costituisce il principale fattore di legittimazione politica anche nei paesi musulmani che si rifanno a esperienze di governo cosiddette «laiche».Il fondamentalismo islamico è un movimento politico che supporta la propria mobilitazione attraverso codici simbolici di matrice religiosa. Il movimento ha due anime; una neotradizionalista e una radicale. Quella neotradizionalista punta alla reislamizzazione «dal basso» della società musulmana. Essa cerca di ricostituire una comunità separata dall’ambiente «empio» circostante, in cui gli individui vivano la quotidianità secondo le prescrizioni dell’antica fede (salaf ), che si ritiene svilita da una religiosità dominante del tutto formale. Nel momento in cui gli individui virtuosi saranno in maggioranza si instaurerà «naturalmente» un potere politico in linea con la nuova, riconquistata, sensibilità religiosa. I movimenti neotradizionalisti non escludono comunque partecipazioni a consultazioni elettorali che possono favorire, almeno teoricamente, la loro ascesa al potere. Forte a livello societario, l’islamismo neotradizionalista difficilmente riesce però a conquistare il controllo del politico. Se non penetra in segmenti di istituzioni militari, come nel caso del Sudan o del Pakistan, che in passato hanno dato vita a regimi militarfondamentalisti, il neotradizionalismo difficilmente può giungere e, soprattutto, restare al potere. Per varie ragioni: perché le competizioni elettorali non sono sempre del tutto libere; perché viene messo fuori gioco dai regimi prima o dopo le elezioni come è accaduto in Algeria o in Turchia in anni recenti. È proprio questa dipendenza da fattori esterni che l’anima radicale del fondamentalismo contesta ai neotradizionalisti. I radicali ritengono che la conquista del potere politico debba avvenire «dall’alto», mediante un’azione, anche violenta ma giustificata religiosamente, che porti la spirale repressione-reazione sino al limite insurrezionale. La presa del potere, in qualunque modo, diviene necessaria per poter procedere a una rifondazione etica dello Stato e della politica che consenta una reislamizzazione autoritaria della società. Il radicalismo islamico assume visibilità mondiale mediante un atto fondativo «esemplare»: l’assassinio di Sadat, «reo» di aver firmato l’accordo di pace con il «nemico sionista». Per Al Jihad, formazione autrice dell’attentato del 1981, l’eliminazione del Rais è appunto una forma di jihad. Il gruppo, tra i cui leader di allora vi è anche Ayman Al Zawahari, oggi braccio destro di Bin Laden, reinventa la tradizione religiosa sino a teorizzare il «combattimento sulla via di Dio» come vero e proprio sesto pilastro dell’Islam. Il jihad, che nella polemologia musulmana ha funzione difensiva, diviene in questa interpretazione attivistica obbligo individuale per ogni credente, medium della relazione antagonista con coloro che non si schierano con il «partito dell’autentica fede». Il concetto di jihad offensivo è mutuato dal pensiero del giurista medievale Ibn Taimiyya. Ma la sua sistemazione teorica in versione contemporanea è opera di Sayyd Qutb, leader egiziano dell’ala radicale dei Fratelli musulmani. L’autore dei testi-icona dei movimenti islamisti contemporanei aveva rifiutato già negli anni Sessanta il tradizionale concetto di jihad difensivo, lecito nel caso di invasione di paesi musulmani, a favore di quello offensivo contro i nemici dell’Islam. Affermando che l’Occidente era ormai penetrato nelle coscienze degli individui e delle classi dirigenti divenendo Occidente interno, Qutb invitava a non distinguere più tra musulmani e non; ma, trasversalmente, tra partito della fede e dell’empietà. Il nemico è tra «noi», indicava Qutb. Questo rovesciamento teorico cancella la distinzione tra il «noi» musulmani e gli «altri», occidentali, cristiani, ebrei che siano. La categoria amico/nemico, applicata al criterio dell’adesione alla «vera fede», diventa l’elemento di distinzione dentro le società musulmane. Da quel momento, accanto all’Occidente portatore della «modernizzazione corrotta», l’Islam radicale ha come obiettivo anche il «nemico interno», il «governante empio» che si discosta dal Corano e dalla shari’a negando in tal modo la «sovranità di Dio».

L’Islam radicale diventa così partito della guerra civile; e la categoria del «nemico interno» si dilata. Nemico, per Siad Makhloufi, leader prima del MEI e poi del GIA, è il «popolo idolatra» che non si schiera con i «militanti per la fede». In quanto complice oggettivo del «potere empio», esso deve essere spinto con il terrore a militare nelle fila del «partito di Dio» oppure essere sterminato. Le stragi di civili operate dal GIA nel «triangolo della morte» algerino mostrano l’applicazione sul campo di questo drammatico concetto teorico. Nemico è l’ulama quietista, il dotto della Legge che giustifica la progressiva separazione tra politica e religione purché i governanti non mettano in discussione la pratica della fede. Nemico è la donna «mal velata» che fa emergere, anche all’interno della tradizione, la soggettività femminile, e viene duramente repressa in nome della «purezza islamica». Contro il corpo delle donne si scatena la polizia religiosa dei regimi islamisti, come nell’Iran degli anni bui, o le «ronde della salvezza» nei territori «liberati » controllati dal FIS algerino prima del colpo di Stato militare del 1991. Il GIA, nel suo fanatismo senza limiti, andrà oltre. Le donne diventeranno vittime sacrificali. Tra i bersagli dei gruppi islamici armati non vi saranno solo emancipate donne «laiche» impegnate a combattere il fondamentalismo, ma anche donne musulmane inermi, sgozzate e decapitate a colpi d’ascia, solo per non aver preso posizione a favore dei «combattenti salatiti». Radunate nelle piazze dei villaggi divenute mattatoi, fatte sdraiare con il volto rivolto alla Mecca, le donne algerine, che si credono e vogliono essere musulmane, subiscono il taglio della gola mentre i loro giudici «sacrificatori» gridano «Dio è grande». Le modalità di queste esecuzioni richiamano alla mente i sacrifici rituali. Queste donne divengono sostituti sacrificali; ridotte ad animali da purificare; ma «meno animali degli animali stessi», dal momento che a loro viene inferto quel terrore che il Corano stesso impone di risparmiare persino all’animale immolato. Nell’Afghanistan dei Taleban la morte femminile non è solo fisica ma anche interiore. Le donne sono murate dietro alla grata del burqa. Private di ogni accesso alla scena pubblica, sono espulse dal lavoro che diventa sinonimo di promiscuità. Il velo, imposto, non è più simbolo di identità rivendicata, ma prigione. Nel diritto penale della religione che ogni venerdì si pratica nello stadio di Kabul, luogo emblematico della «giustizia» islamista per conto di Dio, vengono loro inferte punizionicorporali che vanno dalle frustate per le «mal velate» sino alla flagellazione delle «fornicatici» e alla lapidazione delle adultere. La mania di purezza dei fondamentalisti islamici si traduce dunque in una violenza che si esercita in primo luogo contro i musulmani stessi. È contro la storia del mondo musulmano come si è venuto a configurare nei quindici secoli che seguono l’ideale comunità dell’età dell’oro del Profeta che i radicali islamisti si battono. Negando qualsiasi valore alla concreta, e poco ideologica, civilizzazione musulmana. 

I fondamentalismi contemporanei, oltre che come utopia dello Stato etico, non possono essere letti fuori dalla dinamica di lungo periodo della globalizzazione culturale. I processi globali hanno inciso profondamente sulle culture locali. L’islamismo radicale si presenta come una forma acuta di rifiuto del processo di omologazione suscitato dalla globalizzazione culturale e come reazione identitaria. Ma, contrariamente ad altre realtà del mondo musulmano che hanno tentato di coniugare l’identità locale precedente con quella globale, inserendosi nel grande flusso glocale, l’Islam radicale si erge a baluardo di un modello purista che non tollera contaminazioni. L’Occidente è infatti pensato dai radicali come sistema di corruzione morale prima ancora che economica. Inoltre l’Occidente, attraverso la deizzazione della democrazia, avrebbe preteso che la sovranità del popolo si sostituisse a quella di Dio. In questa duplice dimensione di «corruttore morale» e di «associatore», ovvero di soggetto che osa divinizzare qualcuno che non sia Dio stesso, l’Occidente si pone come simbolo del Male assoluto. E contro il Male ogni mezzo è lecito. La «fine della storia» teorizzata da Francis Fukuyama dopo il crollo del muro di Berlino presupponeva illusoriamente la scomparsa delle grandi ideologie. Sembrava che sotto le macerie del muro fossero rimaste tutte le grandi narrazioni. In realtà, il campo era rimasto libero per l’ultima ideologia universalista: l’islamismo radicale. Soggetto politico marginale durante la dura «età del ferro» del bipolarismo, l’islamismo radicale si presenta oggi come alternativa di sistema, rivendicando la sua assoluta alterità rispetto all’Occidente sul piano globale. Esso ha come obiettivo la riunificazione del mondo musulmano in una sorta di superstato califfale e, in prospettiva, il dominio monopolare dell’Islam.La dimensione ideologica del radicalismo islamico è totalizzante. Se non si riesce a comprenderlo è difficile interpretare la logica delle azioni dei gruppi che vi fanno capo, anche di quelle terroristiche. È infatti quella stessa dimensione che permette ai gruppi radicali di chiedere ai loro membri di sacrificare la propria vita per la «causa di Dio» nei cieli di Manhattan come nelle strade di Tel Aviv. Nella Dichiarazione di guerra contro gli americani che occupano il luoghi santi, Bin Laden ricorda che il problema occidentale è quello di convincere i giovani a combattere, mentre quello dell’Islam militante è trattenere i giovani che aspettano il loro turno per morire nel «martirio». Nel suo diario Mohammed Atta, il capo dei dirottatori di New York, chiede a Dio che gli sia concesso di glorificarlo attraverso il gesto che sta per compiere; gesto che giustifica evocando la battaglia «del Profeta contro gli infedeli quando cominciò a costruire lo Stato islamico». Questo sacrificio di sé per la causa è un elemento che l’Occidente, nella sua ansia di rimozione della morte, non conosce più. E ne è terrorizzato. Infatti, qualsiasi misura di sicurezza perde in efficacia quando l’attentatore non ha come obiettivo anche la salvezza della propria vita. Ma nel radicalismo islamico il terrorismo suicida non è solo uno strumento di lotta politica e militare; viene concepito come appartenenza a un sistema di valori in cui l’individuo cede il passo alle esigenze della «comunità dei puri» e alla sua ideologia.

Negli anni Novanta i gruppi jihadisti hanno subito gravi sconfitte. Per questo la perdente strategia terroristico-insurrezionalista nazionale viene sostituita dal «panislamismo jihadista». Maturato nelle esperienze in Afghanistan, Bosnia, Cecenia, esso si sviluppa prima come una sorta di «soccorso verde» combattente nei paesi islamici «minacciati» dall’Occidente; poi come strategia offensiva. Nasce così il Fronte islamico mondiale per il jihad contro gli ebrei e i crociati di Bin Laden, che dichiara esplicitamente guerra all’Occidente e intende estendere il jihad anche fuori dai territori musulmani. Colpire il nemico «crociato e sionista» ovunque è il nuovo imperativo. La fatwa che sancisce l’atto di nascita del gruppo, afferma che «uccidere gli americani e i loro alleati, civili e militari, è un dovere per ogni musulmano, da eseguire in ogni paese in cui è possibile farlo». L’America è accusata di aver violato sin dalla guerra del Golfo, con la complicità degli «ipocriti» regnanti sauditi, il suolo sacro che custodisce Mecca e Medina, le culle della fede. Di aver compiuto così «la più grande delle aggressioni che i musulmani abbiano subito sin dai tempi della morte del Profeta». Ma, soprattutto, l’America è colpevole di aver distrutto culturalmente un mondo che assegna valore ad altri valori. L’attacco aereo contro la skyline di Manhattan, simbolo della «spada dell’Islam» che taglia le Torri gemelle decapitando l’icona del modello americano trionfante, è il sigillo conseguente di questa profezia della morte contro i «lupi del Kufr», le «belve della miscredenza». Il jihad contro il «grande crociato» Bush, che guida «la nuova crociata giudaica sotto la bandiera cristiana», giunge così al limite estremo.

L’odio islamista verso l’America è totale, come emerge anche dalle parole del mullah Muhammad Omar che spiega la contrapposizione all’Occidente, ricordando che l’America ha «preso in ostaggio l’Islam». Per il leader dei Taleban la grande responsabilità degli USA è quella di sostenere dei governi nei paesi islamici che non godono di alcuna legittimazione e reprimono i seguaci della «fede autentica». Omar afferma che l’America cerca di soggiogare il mondo islamico e di fermarne la spinta religiosa; ma in questo modo produce il «male che  la sta attaccando». Per difendere la causa dell’Islam radicale, Omar giunge a mettere in gioco la stessa esistenza dell’Emirato islamico, minacciato dalla reazione americana. Per il mullah di Kandahar, nella vicenda Bin Laden, prima ancora che la sorte del guerrigliero-miliardario saudita, è in gioco il prestigio dell’Islam. Omar afferma esplicitamente che accettare il diktat occidentale significherebbe porre fine all’alterità del modello islamista. Implicitamente così afferma che è meglio rinunciare allo Stato islamico in Afghanistan che bloccare la radicalizzazione del mondo musulmano che la guerra rende possibile e che costituisce il vero obiettivo dell’azione del Fronte. A conferma dell’irriducibilità di questa teologia politica Omar, di fronte alla possibilità di una dura sconfitta, si rifà al versetto coranico che chiude la fatwa di guerra contro gli americani che dice: «Non perdetevi d’animo, non cadete nella disperazione. Perché se la vostra fede è pura otterrete il dominio».

Alle soglie della «prima guerra del nuovo secolo» l’Occidente ha una grande responsabilità politica. Sconfiggere militarmente il radicalismo islamico alle pendici dell’Hindu Kush può non bastare di fronte al persistere delle cause che lo riproducono nei paesi musulmani. All’uso della forza va dunque affiancata la politica. Non si tratta solo di tenere unita la coalizione antiterorrismo di cui fanno parte i paesi musulmani «moderati». Questa è condizione indispensabile ma non esaustiva. Occorre che il mondo musulmano sviluppi, dal proprio interno, gli anticorpi politici per battere il fondamentalismo. Ma questo non è possibile in assenza di una società civile forte, autonoma dal potere, capace di confutare e rigettare il discorso islamista. Questo processo ha come necessaria conseguenza politica l’espansione della democrazia. Il mondo islamico è infatti plurale, ma non ancora pluralista. Le file fondamentaliste sono state rafforzate dai meccanismi di esclusione dal processo politico messo in atto dai regimi al potere. I regimi moderati sono caduti spesso in quello che potremmo definire il «paradosso di Algeri» secondo cui, come è accaduto negli anni Novanta nel paese nordafricano, una maggiore apertura politica, estesa anche alle formazioni islamiste, amplia la partecipazione e realizza una maggiore integrazione politica. Allo stesso tempo quest’apertura consente ai nemici della democrazia, come gli stessi islamisti, di sopprimerla una volta al potere, generando nuova disintegrazione. I regimi moderati tendono così a favorire un’integrazione parziale, ciclica, che consenta lo sviluppo del processo democratico sino a quando questo non minaccia la natura del potere e la riproduzione del ceto politico dominante. Quando ciò avviene, scatta la repressione. Essa funge da fattore di riduzione della complessità del sistema politico permettendo di riaprire una nuova fase, controllata, di integrazione politica. Questo processo può riprodursi all’infinito se l’equilibrio delle forze in campo non subisce alterazioni rilevanti. Con il vantaggio per l’élite al potere di assumere il ruolo di garante della nuova fase di apertura che prolunga a dismisura la sua stabilità. Ma questa visione «regolativa-autoritaria» del ciclo politico stronca sul nascere la cultura democratica di un paese, riproducendo all’infinito il fondamentalismo. Lo sviluppo dei gruppi fondamentalisti, soprattutto di quelli di matrice neotradizionalista che assumono progressivamente dimensioni di massa trasformandosi poi in partiti politici è anche il prodotto dell’assenza di canali di partecipazione politica. Sotto i colpi della repressione che spazza dalla scena il neotradizionalismo divenuto partito, l’Islam radicale torna così a occupare lo schieramento islamico, in uno spazio che pare segnato ineluttabilmente dal dominio della violenza del sacro. Opporsi al fondamentalismo jihadista non vuol dire però favorire lo status quo, in nome della realpolitik. Quando questa si traduce in immobilismo finisce per alimentare all’infinito fenomeni di radicalizzazione che oggi si riversano nella scena globale. L’Occidente non può dunque accettare passivamente quanto avviene nel mondo islamico. Favorire le forze che all’interno di quel mondo si battono contro il fondamentalismo ma anche per l’ampliamento degli spazi democratici, è il contrario dell’ingerenza. Si tratta di un atto di lungimiranza politica che cerca di spezzare la logica della tragica scelta tra l’islamismo radicale e le autocrazie repressive. E, soprattutto, di evitare che la nuova guerra assuma dimensioni globali.