La guerra come metafora: la costruzione di una strategia internazionale per gli Stati Uniti

Di Federico Romero Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

In questa guerra «di tipo nuovo» materializzatasi l’11 settembre 2001 il primo problema riguarda la sua definizione. Con gradi assai diversi di calma lucidità o di smaniosa ignoranza (quest’ultima particolarmente evidente in molti media italiani, in primo luogo quelli televisivi), intorno alla parola guerra si è cercato di individuare i possibili contorni del futuro prossimo e, al tempo stesso, di esorcizzare gli scenari più apocalittici. Il nodo è quello dello «scontro di civiltà» che (quasi) tutti vorrebbero scongiurare ma che tutti temiamo possa mettersi incontrollabilmente in moto. Perché non è facile frenare e depotenziare le pulsioni xenofobiche che in vario modo attraversano le società occidentali, e perché vi sono segmenti del radicalismo integralista islamico che tale scontro di civiltà lo predicano e lo attuano. In fondo è quest’ultima la verità più scomoda a cui gli attentati dell’11 settembre ci hanno messo inesorabilmente di fronte.

 

In questa guerra «di tipo nuovo» materializzatasi l’11 settembre 2001 il primo problema riguarda la sua definizione. Con gradi assai diversi di calma lucidità o di smaniosa ignoranza (quest’ultima particolarmente evidente in molti media italiani, in primo luogo quelli televisivi), intorno alla parola guerra si è cercato di individuare i possibili contorni del futuro prossimo e, al tempo stesso, di esorcizzare gli scenari più apocalittici. Il nodo è quello dello «scontro di civiltà» che (quasi) tutti vorrebbero scongiurare ma che tutti temiamo possa mettersi incontrollabilmente in moto. Perché non è facile frenare e depotenziare le pulsioni xenofobiche che in vario modo attraversano le società occidentali, e perché vi sono segmenti del radicalismo integralista islamico che tale scontro di civiltà lo predicano e lo attuano. In fondo è quest’ultima la verità più scomoda a cui gli attentati dell’11 settembre ci hanno messo inesorabilmente di fronte. Non si tratta solo di organizzazioni terroristiche vere e proprie che si ritengono in guerra con gli USA e con Israele, e che evidentemente non pongono limiti – se non di tipo operativo – al grado e al tipo di violenza che potrebbero dispiegare. Ma anche del fatto che esse hanno fino ad oggi goduto di appoggi, finanziamenti e strumentali complicità da parte di alcuni regimi (o forse anche solo da taluni dei loro apparati) e da parte di potentati economici privati. E, soprattutto, che esse articolano il loro discorso bellicista in consonanza con la critica delle democrazie materialiste e individualiste dell’Occidente (e del loro potere economico e strategico globale) che emana dal fondamentalismo islamico.

Qui non si può fare confusione ma neppure tapparsi gli occhi di fronte a una spinosa realtà. Se è palese che la gran parte del mondo islamico – e degli stessi regimi politici che lo governano – tutto vuole meno che uno scontro di civiltà, è altrettanto evidente che il diffuso discorso integralista – demonizzando la natura e il potere dell’Occidente in contrapposizione al primato teocratico di una società retta da princìpi fondamentalisti – legittima proprio quel concetto di guerra santa di cui le organizzazioni terroristiche si alimentano. Da qui l’enorme difficoltà di prosciugare il sostegno al terrorismo (a meno di dargli partita vinta e concedere l’impensabile, cioè la rimozione dello Stato d’Israele e della presenza americana nel Golfo) e la grande difficoltà dei principali governi dei paesi arabi a imbarcarsi in una coalizione antiterroristica guidata dagli Stati Uniti. È su questo crinale sottile – sconfiggere il terrorismo senza ulteriormente attizzare il fondamentalismo, anzi mirando a isolarlo e ridimensionarlo – che si dipana il tentativo statunitense di articolare una nuova strategia. Torniamo alla parola guerra, e in particolare al suo uso in ambito americano. Essa è sorta spontaneamente, nel giro di poche ore, in reazione all’enormità dell’attacco dell’11 settembre e allo shock che esso suscitava. Ed è subito divenuta termine ufficiale e onnipresente quando è stata fatta propria dal presidente Bush e da tutti gli esponenti della sua amministrazione. Nell’arco di 24 ore gli Stati Uniti si sentivano e si dichiaravano in guerra, e quindi lo erano.

Ma quale guerra? Una guerra di tipo nuovo e inedito, si è subito sentito dire, e i motivi sono evidenti; ma ogni giorno che passa essa sembra sempre più essere disegnata anche lungo i contorni di una matrice ben nota. È una guerra di tipo nuovo innanzitutto sotto il profilo operativo: perché si svolgerà in spazi diversi (virtuali oltre che fisici) del globo, compreso il territorio americano; per il fuggevole carattere non convenzionale del nemico, e quindi per le diverse priorità che avranno gli strumenti usati per colpirlo (l’indagine, la sicurezza interna, l’intelligence, le azioni clandestine e l’offensiva informatica contro i flussi di denaro oltre che la guerra convenzionale condotta in questo momento contro i talebani; e per l’indeterminatezza spazio-temporale con cui può essere definita la vittoria: eliminare i terroristi? Impedire loro di colpire? Disarticolare o punire i regimi che li appoggiano? Attrezzare le nostre società a sopportarne l’urto senza esserne stravolte?

Ma si tratta anche di una guerra che, per diversi aspetti, rimanda al modo in cui in passato gli Stati Uniti hanno concettualizzato il proprio essere in guerra e i metodi di tale conflitto. Non tanto per il ricorso al linguaggio di una battaglia per la libertà e alla dicotomia etica tra bene e male, ormai sistematico nelle guerre contemporanee, o per il paragone tra i terroristi e i nemici sconfitti dalle precedenti mobilitazioni generali della nazione americana («il fascismo, il nazismo e il totalitarismo», come ha affermato George W. Bush nel suo discorso al Congresso il 20 settembre). Ma proprio per l’incontestata insistenza con cui si immagina – e quindi si definisce – questa guerra come mobilitazione di lungo periodo della nazione; come riordinamento profondo delle sue priorità e risorse (a cominciare dalle scelte di bilancio) in nome della vittoria; come nuova stagione che riplasmerà la cultura pubblica del paese; come asse lungo il quale verranno riorientati gli scopi e gli strumenti della politica internazionale; come spartiacque primario tra amici e nemici («Ad ogni nazione, in ogni regione, spetta ora una decisione. Sarete al nostro fianco o sarete con i terroristi»).

Proprio per questo le analogie ricorrenti – e assai rivelatrici – non sono con la Corea, il Vietnam o il Kossovo (tutti casi sideralmente lontani sotto ogni profilo, e quindi non pertinenti), e neppure con il già più congruo precedente della guerra del Golfo, bensì con quelle imprese globali di lungo periodo che furono la seconda guerra mondiale e il contenimento. Nei primi giorni il richiamo a Pearl Harbor – e ancor più alle battaglie storiche in nome delle libertà americane e della american way of life che gli succedettero – è stato assai frequente sia nei media sia nei pronunciamenti degli esponenti dell’amministrazione Bush. Ma tanto in chiave concettuale che, soprattutto, sotto il profilo operativo, le analogie con la seconda guerra mondiale risultavano forzate e troppo suscettibili di evocare paure e attese sproporzionatamente pericolose. Nella comprensibile ricerca di paragoni – con cui dare forma riconoscibile a ciò che ci si può plausibilmente attendere – l’accento si è dunque progressivamente spostato verso l’epoca del contenimento che, per la sua lunga durata, il suo carattere globale e onnicompresivo e, in particolare, per la sua deenfatizzazione dell’aspetto bellico, sembra attagliarsi maggiormente all’orizzonte del futuro prossimo (oltre che all’immediata necessità dell’Amministrazione di mettere la sordina alle pulsioni pubbliche per un attacco risolutore, che non può essere tale). Il primo a esplicitare l’analogia è stato l’«Economist», che il 22 settembre ha paragonato sintomaticamente il brutale apprendistato presidenziale di Bush a quello percorso da Harry S. Truman con il sorgere della guerra fredda e la definizione del contenimento. Poi è stata la volta della CNN, e infine dello stesso segretario alla difesa Rumsfeld che ricorreva alle immagini della guerra fredda per illustrare i caratteri essenziali del conflitto che va prendendo forma: lunga durata, paziente determinazione, costruzione di alleanze ben più che massicce e visibili attività militari, vasta gamma di strumenti da coordinare e gerarchizzare. E, in fondo, questa matrice faceva capolino – pur non essendo esplicitata – anche in una delle migliori riflessioni dei primi giorni, quella in cui Michael Walzer chiedeva innanzitutto di «definire il campo di battaglia», ovvero di chiarire concettualmente quale tipo di guerra si stesse avviando. Walzer infatti ha usato una classica immagine della guerra fredda, sul «New York Times» del 21 settembre, quella della «guerra come metafora», per puntualizzare che di guerra si tratta ma anche, e soprattutto, che è una guerra che non si risolverà tanto, o solo, sui campi di battaglia.

Insomma: si tratta di una guerra? Il termine è incontestabile a patto che coloro che lo usano capiscano cos’è una metafora. Non c’è, al momento, uno Stato nemico né un ovvio campo di battaglia. «Guerra», tuttavia, serve bene come metafora per significare lotta, determinazione, tenacia. L’azione militare, che pure potrà esserci, non è la prima cosa a cui dobbiamo pensare. In questa «guerra» al terrorismo le cose prioritarie sono invece altre tre: un intenso lavoro di polizia che trascenda i confini nazionali; una campagna ideologica per rigettare tutti gli argomenti e i pretesti per il terrorismo; un serio e prolungato sforzo diplomatico.

Passato il comprensibile sconcerto iniziale, gli esponenti dell’amministrazione Bush si sono chiaramente orientati in tal senso. Ci si muove in tutto il mondo per colpire le reti terroristiche con il lavoro di polizia, la sicurezza preventiva, l’espansione dell’intelligence. Mentre l’aspetto propriamente bellico di questa guerra – quello che vediamo in queste settimane in Afghanistan – ha tanto uno scopo operativo, quello di eliminare l’unico spazio geografico e politico che il terrorismo islamista ha potuto usare apertamente, quanto uno emblematico e politico: quello di segnalare il costo che ogni Stato può ritrovarsi a pagare se non taglia i ponti con quel terrorismo. Si è definita una dottrina per orientare e coordinare le varie facce di questa nuova guerra, ma anche per aprire una via d’uscita diplomatica per quei paesi che volessero riposizionarsi in senso non ostile agli USA: «d’ora in avanti, ogni nazione che continui a ospitare o appoggiare il terrorismo sarà ritenuta un regime ostile agli Stati Uniti», ha annunciato Bush dinanzi al Congresso. Si mettono in campo tanto forme di pressione quanto robusti incentivi per sospingere i governi dei paesi musulmani, e in particolare taluni paesi cruciali come il Pakistan, a collaborare con una nascente coalizione internazionale. Si cementano i rapporti di cooperazione con i più tradizionali alleati e se ne aprono di inediti con la Russia e le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Si fa cumulativamente ed ecletticamente ricorso a diverse forme di coalizione multilaterale e collaborazione internazionale: dalle risoluzioni dell’ONU alla solidarietà della NATO, dal tradizionale (ma problematico) rapporto con i regimi del Golfo alle possibili aperture con il Sudan, la Libia, forse persino l’Iran. Si iniziano a dispiegare strumenti economici sia di sostegno ai paesi e alle popolazioni più esposti ai contraccolpi delle prevedibili tensioni sia di intervento antirecessivo nell’economia americana e globale. Sembra dunque che ci si orienti verso una guerra definita prima ancora dalla mobilitazione diplomatica, economica e politico-culturale per fare il vuoto intorno alle organizzazioni terroristiche e ai loro sostenitori più che dall’offensiva militare contro di essi: quest’ultima c’è, ma è soppesata in ragione degli scopi strategici del conflitto, ne è l’aspetto ora più visibile ma non quello preminente o risolutore sul lungo periodo.

Tutto ciò è in gran parte dettato da un’elementare analisi delle risorse a disposizione, dei problemi da sormontare e del rischio di effetti controproducenti. Ma in parte rimanda anche agli schemi concettuali di cui sopra. L’attacco dell’11 settembre, del resto, ha anche reso inservibile il paradigma di politica estera a cui la nuova amministrazione s’era inizialmente ispirata: l’affermazione tendenzialmente unilaterale dell’interesse nazionale dell’unica potenza globale. È quindi abbastanza naturale che nell’architettare la risposta si faccia affidamento, magari anche solo implicitamente e inconsapevolmente, a esperienze e modelli introiettati dal passato. Se i paragoni con il contenimento hanno dunque un senso questo è però limitato, perché le diversità (rispetto alla mobilitazione della guerra fredda) sono moltissime: siamo quindi di fronte a problemi che quell’abito mentale non può comprendere e risolvere, e che anzi potrebbe persino esacerbare. La più ovvia, macroscopica differenza concerne l’avversario e lo scopo che ci si prefigge nei suoi confronti. A dispetto dell’interpretazione trionfalistica che si è affermata retrospettivamente, il contenimento non era una strategia mirata alla distruzione del comunismo sovietico (anche se ne ha indubbiamente favorito la caduta), e dopo i primi anni era esplicitamente divenuta una politica di modus vivendi, per quanto antagonistico. Eliminare le reti del terrorismo internazionale può essere operativamente possibile – mentre la sconfitta militare dell’URSS era inconcepibile – ma siccome non si tratta di un’impresa breve né priva di effetti collaterali, la guerra al terrorismo si troverà spesso a dover soppesare mezzi e fini e a valutare se – poniamo – vale la pena rompere i rapporti con il paese x per giungere alla distruzione militare della cellula y. Più ampiamente, si dovrà a ogni passo considerare se lo scopo ultimo è l’eliminazione militare del terrorismo o la vittoria politico-culturale sul fondamentalismo che lo alimenta, perché le due cose possono benissimo risultare in contraddizione. Per ora la dottrina Bush semplifica all’estremo tra due polarità inconciliabili, ma la stessa esperienza del contenimento insegna che gli errori maggiori scaturirono proprio da una sua applicazione rigida e manichea. Con la (formidabile) complicazione aggiuntiva derivante dal fatto che nel frattempo i terroristi non se ne staranno con le mani in mano, cercheranno di colpire ancora e spingere vieppiù sulla strada bellicista dello «scontro di civiltà». Una seconda area di problemi investe la questione delle alleanze e del multilateralismo. Per ora gli Stati Uniti hanno ottenuto ampie solidarietà e si sono mossi verso la costruzione di coalizioni vaste ed efficaci. Ma non è affatto detto che questi due termini continuino a essere complementari. Insieme a un interesse generale comune, i vari partecipanti porteranno nella coalizione anche analisi e priorità diverse, talora apertamente contrastanti. La capacità di leadership americana si misurerà dunque proprio sull’abilità (e flessibilità) nel conciliare tali diversi apporti, ma gli ostacoli possono rivelarsi assai ardui. In primo luogo per la natura stessa del conflitto, che richiederà azione più che deterrenza, ed esporrà quindi i diversi attori a ripercussioni drasticamente diverse, talune delle quali apertamente contraddittorie con le ragioni della coalizione. In secondo luogo perché la lettura unilateralista del ruolo della potenza americana – pur temporaneamente sopita – non è certo scomparsa dalla cultura dell’amministrazione Bush, e può facilmente entrare in corto circuito con le altrui esigenze di consultazione, coordinamento e, al limite, di codeterminazione delle vie da seguire. Ed è chiaro che tanto più gli Stati Uniti si sentiranno vincolati dalle differenziazioni e i distinguo che altri proporranno, quanto più saranno sospinti verso la strada dell’unilateralismo e del ricorso alla forza. In terzo luogo per gli inevitabili trade-off che la focalizzazione sul terrorismo imporrà anche nei rapporti bilaterali. Qui non è solo questione di fornire aiuti e sostegni agli alleati più vacillanti o bisognosi, bensì di operare di volta in volta scelte tra obbiettivi che possono essere incompatibili. Il caso del conflitto israelo-palestinese è fin troppo evidente per richiedere commenti. L’utile, forse indispensabile sostegno della Russia sta già portando a tacitare ogni protesta occidentale sulla politica del Cremlino in Cecenia. Il problema si porrà in dimensione ancor più ampia e cruciale nei confronti dei regimi aristocratici e autoritari del Golfo.

Qui veniamo all’aspetto probabilmente decisivo, e più imperscrutabile, di questo conflitto. Il fattore preminente di vittoria nella guerra fredda è consistito – pur sotto l’ombrello di una solida deterrenza politicomilitare – nella capacità statunitense di promuovere un processo di espansione e consolidamento di regimi democratici in un contesto di prolungata crescita economica. Anche se è insulso ricondurre le azioni dei terroristi all’assenza di democrazia (non è certo quella la loro rivendicazione, anzi) è evidente che tra le democrazie occidentali e i regimi mediorientali con cui gli USA dialogano corre una faglia profonda, in aperta contraddizione con l’universalismo democratico che mobilita l’Occidente. Ma non è difficile rendersi conto che questa concezione apre ben più interrogastivi di quanti ne risolva. In primo luogo quello ormai storico, che ci trasciniamo irrisolto fin dalla rivoluzione iraniana del 1979: la via dell’integrazione democratica e della mdernizzazione economica può essere praticabile, e risultare efficace, anche nei confronti di un progetto intrinsecamente opposto com’è quello fondamentalista, che si nutre proprio del rigetto della modernità liberal-democratica? Collegato a questo c’è un problema assai spinoso: quand’anche avessimo fiducia nel fatto che un’eventuale democratizzazione alla lunga prosciughi i ranghi del fondamentalismo, possiamo ritenere che essa possa essere legittimamente ed efficacemente promossa dall’esterno, riproducendo così quel rapporto tra potere dell’Occidente e dipendenza di quei paesi che è una delle fonti dell’islamismo radicale? Infine, è immaginabile uno sforzo di democratizzazione, per sua natura destabilizzante almeno sul medio periodo, proprio mentre la solidità di taluni regimi appare un prerequisito per la conduzione della guerra al terrorismo? Finora la reazione statunitense si è dispiegata in base ad una matrice culturale che presume – alla luce dell’esperienza novecentesca – di poter offrire risposte alla lunga positive a questi dilemmi. Ma l’esperienza del contenimento, o delle precedenti battaglie che hanno plasmato la concezione internazionale americana, non contiene di per sé tutte le risposte a una sfida per molti aspetti inedita. La posta in gioco nel conflitto che si è aperto l’11 settembre coinvolge anche le radici, non solo americane ma ampiamente condivise, dell’idea di sistema internazionale che ci portiamo addosso.