Come riformare la RAI

Di Claudio Petruccioli Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

La «questione televisiva» è in Italia acutissima. Non c’è altro paese al mondo – fra quelli ai quali l’Italia possa essere assimilata per ordinamenti democratici e livello di sviluppo – che presenti qualcosa di anche lontanamente paragonabile. La tensione e l’animosità che circondano la televisione in Italia hanno fin qui impedito – almeno presso un’opinione pubblica non specializzata – la descrizione e la percezione dello stato effettivo di un settore molto importante da ogni punto di vista. Il criterio cui si ricorre con maggiore facilità e frequenza per indicarne le caratteristiche è riassunto nella coppia concettuale «pubblico/privato» riferita più alla proprietà che alla tipologia dell’offerta televisiva; per la quale è più esatto parlare di «servizio pubblico» e di «TV commerciale». Il secondo concetto al quale si ricorre è «duopolio», per indicare una situazione di bassissima o nulla concorrenza, con due soli soggetti che occupano pressoché tutto il mercato. E, anche, per segnalare il salto rispetto al periodo del «monopolio»; quando, cioè, la TV coincideva con la RAI, di esclusiva proprietà statale e controllata dal potere politico, prima strettamente governativo, poi più ampiamente «parlamentare».

La «questione televisiva» è in Italia acutissima. Non c’è altro paese al mondo – fra quelli ai quali l’Italia possa essere assimilata per ordinamenti democratici e livello di sviluppo – che presenti qualcosa di anche lontanamente paragonabile. La tensione e l’animosità che circondano la televisione in Italia hanno fin qui impedito – almeno presso un’opinione pubblica non specializzata – la descrizione e la percezione dello stato effettivo di un settore molto importante da ogni punto di vista. Il criterio cui si ricorre con maggiore facilità e frequenza per indicarne le caratteristiche è riassunto nella coppia concettuale «pubblico/privato» riferita più alla proprietà che alla tipologia dell’offerta televisiva; per la quale è più esatto parlare di «servizio pubblico» e di «TV commerciale». Il secondo concetto al quale si ricorre è «duopolio», per indicare una situazione di bassissima o nulla concorrenza, con due soli soggetti che occupano pressoché tutto il mercato. E, anche, per segnalare il salto rispetto al periodo del «monopolio»; quando, cioè, la TV coincideva con la RAI, di esclusiva proprietà statale e controllata dal potere politico, prima strettamente governativo, poi più ampiamente «parlamentare».

Il monopolio è durato un trentennio, fino all’inizio degli anni Ottanta. Coincide con la fase aurea della prima repubblica: sistema di partiti (fortissimi per consenso, prestigio, appartenenza e identificazione), democrazia senza ricambio di governo, presenza preponderante della politica nella vita civile e del parlamento nella vita istituzionale e nel funzionamento dei poteri. Il duopolio è stigmatizzato, ma non da tutti con le stesse motivazioni. Una parte lo deplora in nome dei valori della liberalizzazione, considerata necessaria anche in questo campo per impedire posizioni dominanti, le quali – data la particolarità del prodotto – incidono in modo negativo non solo sulla qualità del servizio e sullo sviluppo del settore, ma su fondamentali libertà civili. Un’altra parte lo rifiuta invece in nome del precedente monopolio. L’argomento, più o meno esplicito, è che l’informazione e – comunque – la comunicazione televisiva hanno un’influenza tale sulle persone, sui loro orientamenti, che è giusto mantenerla sotto il controllo della mano pubblica. Non sorprende: in Italia ancor più che in altri paesi dell’Europa continentale, per tutto il secolo scorso, la grande maggioranza dei cittadini ha considerato la proprietà e il monopolio statale coincidenti con l’utilità sociale. È accaduto sulla base della esperienza e anche dei vantaggi che molti ne ricevevano. Questa convinzione, tanto forte da divenire «luogo comune», si è trasferita dal regime dittatoriale a quello democratico e ha attraversato culture e ideologie le più diverse, di destra e di sinistra, cattoliche e laiche.

Su questo sfondo storico si è collocata la «grande crisi» del sistema politico, all’inizio degli anni Novanta. In tempi brevissimi saltarono tutti i pilastri e i meccanismi che avevano retto per quasi mezzo secolo la politica e le sue funzioni. Le conseguenze sono state molte, e molte attendono ancora risposte stabili e convincenti. La più clamorosa e paradossale è stata la dissoluzione di tutti i partiti che avevano ininterrottamente espresso le maggioranze e i governi dell’Italia repubblicana. Dall’oggi al domani si trovarono privi di ogni riferimento milioni di cittadini, che, ancora nel 1992, avevano attribuito a DC, PSI e alleati, sia pure di poco, la maggioranza assoluta dei voti. Si aprì un vuoto enorme, sottolineato drammaticamente dal contemporaneo passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario che – per la prima volta nella storia italiana – trasferiva la possibilità di alternativa dal novero delle eventualità teoriche alla concretezza politica. Quel vuoto, come tutti sanno, è stato coperto da Silvio Berlusconi, il quale ha potuto accingersi all’impresa grazie alle risorse di cui disponeva, in primis quelle televisive.

Molti (ultimo Ralf Darhendorf nel libro-intervista «Dopo la democrazia »)1 hanno rivolto l’attenzione al declino dei tradizionali soggetti, a cominciare dai partiti, che nell’ultimo secolo hanno assicurato il collegamento fra demos e kratos; e hanno segnalato la crescita della funzione di altri intermediari, a cominciare da quelli della comunicazione. Un problema presente in tutte le democrazie mature ha assunto in Italia una dimensione dirompente a causa della tradizionale sovrapposizione fra politica e TV. Da sempre, in Italia, la politica «si impadroniva» della televisione. Con Berlusconi il cerchio si chiude: la televisione si vendica e «si impadronisce» lei della politica. Ne nascono molteplici e difficili problemi, per la politica, le istituzioni, le regole. Non è possibile considerarli qui; ma non se ne deve dimenticare l’esistenza anche quando si volge l’attenzione agli specifici problemi televisivi. Se lo si facesse si finirebbe per sottovalutarne la difficoltà e la complessità, dovute esattamente a quell’intreccio con la politica; intreccio del quale possiamo e dobbiamo rammaricarci ma che caratterizza e condiziona l’odierna situazione italiana. Voglio dire che negli ultimi dieci anni la «questione televisiva», già difficile, si è terribilmente complicata; fino al culmine della legislatura in corso, nella quale il proprietario della metà privata della TV è capo del governo e della maggioranza che controlla la metà pubblica della TV. È questione serissima per il presente e il futuro del nostro paese, per il profilo liberale dei nostri ordinamenti.

All’interno del settore, peraltro, la presenza di Berlusconi a Palazzo Chigi non provoca solo l’esasperazione del conflitto di interessi; dà impulso a processi già esistenti da tempo. La rappresentazione della TV italiana come un campo nel quale due giganti sono in lotta perpetua, al cospetto di una tifoseria equamente divisa, è molto lontana dal vero. Non ci sono soltanto le accortezze soggettive degli amministratori di una parte e dell’altra per evitare di danneggiarsi reciprocamente: insomma quelli che si chiamano accordi di monopolio. Ci sono molti dati che definirei strutturali. Innanzi tutto la pubblicità. Da sempre, da quando cioè è stato superato di fatto il monopolio pubblico e ha preso corpo una TV commerciale, mentre le leggi di «ordinamento» negavano l’esistenza di quest’ultima, la pubblicità, vale a dire il concretissimo ambito nel quale si raccolgono le risorse finanziarie, è stato accuratamente, direi scientificamente spartita, garantendo all’operatore privato spazi amplissimi. Lo strumento è stato – ed è – quello dei tetti pubblicitari che il governo e il parlamento fissano alla raccolta della azienda concessionaria; e che, come è ovvio, stabiliscono di conseguenza la «riserva» per il privato. La definizione dei tetti, e la nomina del CDA RAI, sono le briglie con le quali la politica comanda la TV: e non solo quella pubblica.

C’è poi il mercato: della produzione e delle star. Se si guarda bene, ne risulta un quadro molto lontano dallo scontro e dalla incomunicabilità fra due nemici «mortali». Da tempo, e sempre più, hanno preso corpo e si sono rafforzati soggetti commerciali e produttivi che coprono funzioni molto importanti per l’intero settore e che vendono le loro prestazioni indifferentemente alla RAI e a Mediaset. Già qualche anno fa si parlò di «pax televisiva». Oggi, quella «pax» non ha neppure bisogno di essere stipulata: è garantita dalla «forza delle cose». Non c’è produttore, fornitore o agente che si illuda, andando da B, di spuntare un prezzo più alto di quello offertogli da A. Il «conflitto di interessi» ha aggravato (o «perfezionato») ma non determinato questa situazione. Anzi, l’espressione «conflitto di interessi» è – in questo caso – deviante: nasconde anziché mettere in chiaro quel che succede. Più esatto sarebbe parlare di convergenza di interessi. Senza bisogno di pressioni, coloro che operano sul mercato si comportano nel modo più gradito al presidente del Consiglio; in particolare, quando si ha a che fare con la televisione. Lo fanno da soli, considerando le proprie convenienze. Lo dimostrano, nel modo più chiaro, le scelte sugli investimenti pubblicitari. C’è una contrazione di questi investimenti che si prevede continuerà per qualche tempo. Tutte o quasi le grandi aziende, pubbliche e private, hanno ridimensionato il loro budget pubblicitario. Molte lo hanno fatto in proporzioni che hanno penalizzato la RAI assai più che Mediaset.

Si è formato una sorta di kombinat. Ci si illude se si pensa di superarlo, di contenerne gli effetti negativi aumentando controlli e normative, divieti e obblighi. Così – come dimostra l’esperienza del passato – anziché alleggerirlo, si appesantisce ulteriormente il kombinat, si stringono i nodi, i condizionamenti, le complicità che lo rendono compatto. La sola ricetta utile è la liberalizzazione, perseguita con il dovuto realismo ma con assoluta determinazione; e con la consapevolezza delle particolarità del settore che rende impraticabili o inefficaci ricette che pure in altri campi sono state applicate e hanno funzionato. La televisione è diversa dalle altre telecomunicazioni. Non ci sono consumatori a pagamento, che hanno l’evidente interesse a pagare chi fornisce loro i servizi migliori ai prezzi più convenienti. Gli utenti della TV non pagano; tranne, evidentemente, quelli delle pay che sono in crescita. Il processo di liberalizzazione deve volgere l’attenzione e radicarsi innanzi tutto nel mercato della pubblicità. Questo è il quadro effettivo con il quale fare i conti; è questo che si deve modificare, riformare.

Se oggi la situazione è quella sotto gli occhi di tutti, è anche per mancanza di fantasia e volontà riformista della sinistra. La sinistra (la sua maggioranza) non è ancora uscita dall’arrocco che la identifica con la difesa della TV come monopolio pubblico; non ha formulato una normativa antitrust che valga per l’intero settore, sia per soggetti pubblici sia per soggetti privati; ha cercato la scorciatoia referendaria e ha perduto, mentre aveva successo il referendum per eliminare l’impedimento all’ingresso dei privati nella RAI, impedimento che però ancora vige per legge; non ha mai affrontato la dipendenza dalla politica della azienda di servizio pubblico con il proposito di allentarla e di accrescere l’autonomia aziendale. Il quadro complessivo del settore cambiò a metà degli anni Settanta, con il passaggio dal bianco e nero al colore. Il mercato si allargò in modo eccezionale; per la nuova offerta di prodotto, per la crescita della domanda, per l’esplosione della pubblicità. La struttura della RAI subì una modifica profonda con il passaggio da due a tre reti, e con l’articolazione regionale della informazione sulla terza rete. Presero avvio le televisioni commerciali, inizialmente su scala locale poi in forma di network. Il 14 aprile 1975 fu approvata la legge 103 che definiva una nuova cornice normativa per il servizio pubblico. La nuova legge accentuava il carattere aziendale della RAI. Non si parlava più di ente ma di società di interesse nazionale ai sensi dell’art. 2461 del codice civile. Il rapporto fra l’azienda di servizio pubblico e la politica si spostava dal governo al parlamento ma rimaneva assolutamente vincolante. Non si definì, invece, la regolamentazione di un mercato misto pubblico-privato. L’orientamento prevalente nella classe politica del tempo rimase fermo alla difesa del monopolio pubblico.

La sfasatura fra situazione di fatto e orizzonte normativo è andata crescendo nel corso di tutti gli anni Ottanta. All’inizio degli anni Novanta si aggiunge la crisi del sistema politico che – a causa dell’intreccio strettissimo fra politica e TV – ha ripercussioni molto forti anche nel settore televisivo. Il discredito dei partiti, protagonisti della lottizzazione, induce al varo della legge 206 del 23 giugno del 1993. Nella sostanza, la nomina del consiglio di amministrazione dell’azienda concessionaria resta attribuita al parlamento, ma il potere è spostato dalla commissione di vigilanza (in sostanza i partiti) ai presidenti delle Camere; il numero dei componenti è ridotto da sedici a cinque. Quella legge avrebbe dovuto valere una tantum; comunque per un tempo molto breve. Invece è ancora in vigore, a dieci anni di distanza. Nel 1993 i presidenti delle Camere appartenevano a schieramenti diversi. Ma quando sono ambedue emanazione della maggioranza, si vanifica l’elemento di garanzia.

Oggi ci troviamo in una congiuntura paragonabile a quella di venticinque anni fa. Il passaggio al digitale, base della convergenza nelle telecomunicazioni, segnerà un salto tecnologico, un allargamento del mercato, una crescita qualitativa e quantitativa di prodotti e servizi. La riorganizzazione delle aziende dovrà far fronte a queste nuove frontiere tecnologiche e – contemporaneamente – agli obblighi della liberalizzazione. Le direttive europee non potranno, infatti, essere a lungo eluse. Sarà chiamato in causa anche il servizio pubblico, il modo di intenderlo e di giustificarlo. L’esperienza ultima, quella del DDL 1138, fallito in dirittura d’arrivo alla fine della passata legislatura, conferma tutte le difficoltà fin qui ricordate, compresi i ritardi della sinistra. L’allora opposizione, in particolare FI, si tirò indietro manifestando contrarietà a qualunque progetto di riforma. Non è difficile capirne la ragione. Quale situazione migliore della attuale potrebbe sperare Mediaset? Ha il monopolio pieno della TV commerciale privata, e della relativa raccolta pubblicitaria. Il quadro normativo non le impone alcun vincolo – tranne la cosiddetta par condicio – ma la garantisce nel modo più sostanzioso regolando fino ai dettagli la spartizione del mercato pubblicitario. Meno facile è spiegare la freddezza registrata nella maggioranza dell’Ulivo, che ha portato all’archiviazione anche di quell’ultimo tentativo. Era chiarissimo che la riforma era vista dalla Casa delle Libertà come fumo negli occhi; era chiarissimo che, nel caso di vittoria elettorale di quella coalizione si sarebbe aperto un conflitto con elementari principi liberali e democratici. Sta di fatto che la maggioranza sul finire della passata legislatura non ha trovato la compattezza né la determinazione per approvare un nuovo assetto normativo per il servizio pubblico.

Tuttavia un lavoro fu fatto. Con l’articolo otto del 1138 – approvato in commissione – la RAI assumeva i caratteri di holding alla quale facevano capo diverse società. Si stabiliva la separazione societaria fra attività televisive finanziate dal canone o da risorse pubbliche e quelle finanziate da risorse raccolte sul mercato. Questa separazione veniva solo «consentita», non «imposta» come nella proposta originaria, da me avanzata in qualità di relatore su quel provvedimento; proposta che apparve a molti troppo perentoria e fu quindi ridimensionata. Su questa base si regolava l’ingresso dei privati, escluso per la prima società, previsto per la seconda, sebbene entro limiti che, in una riforma incisiva, dovrebbero essere eliminati. Per il consiglio di amministrazione erano allentati anche se non del tutto cancellati i rapporti con le istituzioni politiche rappresentative. Su nove membri quattro erano eletti dai due rami del parlamento, due dalle Regioni, tre da organismi non politici (conferenza dei rettori, CNEL, consiglio dei consumatori e degli utenti). Il mandato dei diversi consiglieri veniva differenziato per durata cosicché non ci fosse mai un rinnovo completo del consiglio. In tal modo si riduceva di molto fino a scomparire la possibilità di costituire maggioranze «politiche» all’interno del consiglio stesso.

Il servizio pubblico non è solo pluralismo o par condicio. È produzione che deve garantire al meglio la qualità; è impegno per lo sviluppo dell’intero settore, in un periodo cruciale che prevede e impone uno straordinario salto tecnologico, con il passaggio al digitale e la convergenza multimediale che ne deriva: quindi investimenti, strategie, innovazione di prodotti e di servizi. L’enorme complessità, l’intrico delle questioni, la fase delicata del settore chiamano comunque a profondi mutamenti e ristrutturazioni e ai relativi forti investimenti, suggeriscono di non lasciarsi andare a formule semplificate che finiscono per avere significati esclusivamente propagandistici e lasciano il tempo che trovano. Penso alle ricette oggi correnti sulla privatizzazione della RAI, su vendite di una o due reti e simili. Bisogna tenere i piedi per terra e formulare ipotesi che siano effettivamente perseguibili. Intanto il legislatore agisce con i suoi strumenti: che sono le leggi.

Si può, si deve ripartire dal lavoro fatto con il 1138; lì ci sono i punti essenziali della riforma legislativa oggi necessaria. Si dovrebbe assumere e sollecitare l’impegno ad approvare una nuova legge entro la scadenza del CDA appena insediato, vale a dire entro il 31 dicembre 2003. I precedenti, più lontani e più vicini, ci dicono che si tratta di un tempo strettissimo, che molti considereranno addirittura velleitario. La scadenza indicata dice quale dovrebbe essere la prima novità da introdurre: esattamente nuovi criteri di formazione e di nomina del CDA stesso, che sanciscano la separazione fra azienda di servizio pubblico e politica. Se non si compie questo passo, qualunque altra decisione diviene impossibile o velleitaria. È il primo capitolo della riforma: non sufficiente – come si dice – ma assolutamente necessario. Una volta definito un assetto del vertice che ponga le basi di un’effettiva e piena autonomia dell’azienda RAI, la legge dovrebbe recepire le direttive europee e imporre una netta separazione societaria fra attività finanziate da risorse pubbliche e attività finanziate da risorse di mercato. Queste distinte società farebbero entrambe capo alla RAI, adeguatamente riorganizzata e ridefinita anche in termini giuridici, e avrebbero fra loro scambi e collaborazioni, ma sarebbero a tutti gli effetti due società distinte. La società con finanziamento pubblico non raccoglierebbe risorse pubblicitarie in nessuna misura e resterebbe di proprietà interamente pubblica. L’altra società agirebbe sul mercato alla pari degli altri soggetti, con gli stessi tetti pubblicitari (che dovrebbero uniformarsi pure tutti a quelli europei), con la possibilità di aprire a privati, stringere accordi con loro, fino alla facoltà di vendere, secondo le valutazioni di convenienza degli organi di amministrazione. Così si avvia davvero un processo di liberalizzazione che comprende le possibilità della privatizzazione; così si creano davvero le condizioni per stipulare accordi con privati e anche per vendere. Nelle condizioni odierne chi intendesse vendere non saprebbe cosa vendere, e chi desiderasse comprare non saprebbe cosa comprare.

Se, a queste misure, si aggiungesse una norma antitrust per il settore televisivo, accompagnata dalla eliminazione dell’attuale divieto di incrocio fra editoria a stampa e TV, e da agevolazioni e/o obblighi in vista del passaggio al digitale terrestre e della relativa sperimentazione, si configurerebbe un intervento legislativo riformisticamente efficace e coerente. E, come si vede, non particolarmente complicato. Per concludere, qualcosa sui controlli e le garanzie che incidono sulla TV e in particolare sul servizio pubblico, che risentono anch’esse delle pesantezze che hanno condizionato l’approccio teorico alla questione televisiva e la relativa produzione legislativa. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha assorbito le competenze attribuite in passato al garante per l’informazione; in particolare per quanto riguarda la rilevazione e la pubblicazione ei dati sugli indici di ascolto e il rispetto delle disposizioni di legge sulla pubblicità, decidendo sulle relative sanzioni. Alla stessa Autorità sono state successivamente attribuite competenze per garantire il rispetto della par condicio. Si tratta di poteri che riguardano l’universo delle trasmissioni radiotelevisive e si esercitano dunque anche su quelle del servizio pubblico. I poteri dell’Autorità tendono poi ad estendersi sulla base dei regolamenti interni che la legge affida alla stessa commissione. Ciò accade soprattutto in materia di pubblicità, come dimostrano gli interventi o gli appelli sempre più frequenti sui tetti, sulle telepromozioni ecc.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, come il garante per la protezione dei dati personali, non hanno competenze che riguardino direttamente il settore televisivo e la RAI. Ma non c’è dubbio che antitrust e privacy non possono fermarsi ai confini della TV, soprattutto nella prospettiva delle convergenze multimediali rese possibili dalla introduzione del digitale terrestre. In sostanza, anche guardando la questione dal lato della TV e della RAI risulta l’opportunità, anzi la necessità, di riconsiderare e riordinare il sistema delle autorità di garanzia e di vigilanza. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è sicuramente la sede nella quale vanno ricondotte tutte le funzioni inerenti agli aspetti strutturali e alla vigilanza sul funzionamento del mercato, dalla pubblicità ai nuovi accessi, al contrasto delle posizioni dominanti. Se la riforma della RAI come concessionaria del servizio pubblico assumesse i caratteri sopra indicati, in particolare con l’emancipazione degli organi societari dalla nomina politica e con la divisione societaria fra attività finanziate da risorse erariali e attività finanziate da risorse raccolte sul mercato, la funzione stessa di un organo di alta vigilanza emanazione del parlamento dovrebbe essere rimotivata e precisata.

La commissione parlamentare di vigilanza, nella forma attuale, è stata definita un quarto di secolo fa. Fino a quando è restato in piedi il vecchio sistema politico, la commissione è stata una sorta di istanza di secondo grado alla quale si ricorreva quando il consiglio di amministrazione non riusciva a comporre le esigenze e le richieste delle diverse forze politiche. Del resto sia il consiglio (sedici membri) sia la commissione (quaranta membri) erano composti in modo rigorosamente proporzionale. All’inizio degli anni Novanta il vecchio sistema dei partiti entrò in crisi; si aggiunse il passaggio dal proporzionale al maggioritario. Non c’è stato alcun adeguamento del sistema delle garanzie alla nuova situazione. Per due legislature consecutive, da parte di maggioranze diverse, è stata attribuita la presidenza della commissione a un esponente della minoranza. Si è riconosciuto, così, che l’attuale assetto di dipendenza del servizio pubblico dalle maggioranze parlamentari richiede una tutela rafforzata dei diritti delle minoranze. Ma anche questa è rimasta una misura pragmatica, senza alcuna sanzione formale.

La tutela del servizio pubblico resta un’esigenza attualissima; se possibile, in un sistema bipolare dell’alternanza ancora più importante. Ma l’obiettivo potrà essere raggiunto non con un appesantimento dei controlli, bensì attraverso un’effettiva indipendenza e autonomia della concessionaria del servizio pubblico dal potere politico e dalle maggioranze pro tempore. A regime, entro un nuovo assetto legislativo, razionalizzati e potenziati i poteri delle autorità indipendenti, il parlamento potrebbe dotarsi di una sorta di giurì preposto alla tutela del pluralismo e della correttezza nell’informazione, in primo luogo nel servizio pubblico; ma non solo. Senza scendere in dettagli, per dare un’idea di cosa potrebbe trattarsi, indicherei un organismo molto ristretto e molto autorevole, con competenze più limitate rispetto all’attuale commissione, ma anche più pregnanti. L’organismo potrebbe essere di otto persone, fra le quali si deve eleggere un presidente, che potrebbe anche ruotare durante un mandato. A nominare sarebbe il parlamento, ma l’elettorato passivo potrebbe richiedere requisiti molto impegnativi: ad esempio essere stati presidenti di commissioni parlamentari o membri della presidenza delle assemblee. Un organismo del genere potrebbe disporre di due livelli di intervento: il primo, più tenue, che si limita all’ammonimento, il secondo che potrebbe comportare anche una sospensione temporanea dei responsabili di scorrettezze.

 

Bibliografia

1 R. Dahrendorf, Dopo la Democrazia (intervista a cura di A. Polito), Laterza, Roma 2001.