Per un nuovo europeismo italiano

Di Umberto Ranieri Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

I dieci mesi del governo Berlusconi ci mostrano, ormai con una certa precisione, un’idea di Europa e un’idea di politica estera. Idee nient’affatto rassicuranti, verrebbe da dire subito. E tuttavia su di esse è necessario riflettere con attenzione. Per comprenderne il senso, le motivazioni, per mettere in chiaro la direzione verso la quale tali idee rischiano di condurre il nostro paese. Nel 1994, durante la prima esperienza del governo di centrodestra, in politica estera prevalsero improvvisate rivendicazioni del passato (come la polemica revanscista contro la Slovenia) insieme a manifestazioni di insofferenza per l’agenda dell’integrazione europea. Oggi siamo di fronte a qualcosa di diverso.

 

I dieci mesi del governo Berlusconi ci mostrano, ormai con una certa precisione, un’idea di Europa e un’idea di politica estera. Idee nient’affatto rassicuranti, verrebbe da dire subito. E tuttavia su di esse è necessario riflettere con attenzione. Per comprenderne il senso, le motivazioni, per mettere in chiaro la direzione verso la quale tali idee rischiano di condurre il nostro paese. Nel 1994, durante la prima esperienza del governo di centrodestra, in politica estera prevalsero improvvisate rivendicazioni del passato (come la polemica revanscista contro la Slovenia) insieme a manifestazioni di insofferenza per l’agenda dell’integrazione europea. Oggi siamo di fronte a qualcosa di diverso. Tutti i comportamenti del governo ci dicono che sull’Europa siamo ad uno spostamento di asse della politica italiana. Il secondo ministero Berlusconi sta tentando, a modo suo, di reinterpretare la funzione dell’Italia in Europa. Il suo proposito è, del resto, abbastanza chiaro: collocare l’Italia nel campo delle forze e dei governi che frenano uno sviluppo coerente della dimensione sovranazionale nel processo di integrazione. Questo mi sembra, in estrema sintesi, il giudizio che oggi è possibile dare. A spingere in questa direzione è, in particolare, l’anima leghista del centrodestra, quella che descrive l’Unione come un’inquietante costruzione burocratica e illiberale, che insiste sulla tendenza, che sarebbe insita nel processo di integrazione, al sorgere di un super Stato europeo centralizzato e destinato a sommergere le identità nazionali. Da questo punto di vista sono note le traballanti arrampicate teoriche dei ministri leghisti. Penso al duro monito lanciato da Castelli contro «la concezione hegeliana dello Stato» che si celerebbe dietro il disegno europeo. In verità, al di là delle sguaiate esternazioni di Bossi c’è qualcosa nelle posizioni del centrodestra che appare in sintonia con quanto sta avvenendo in una parte della destra europea ma anche in settori del Partito popolare europeo: un partito in cui al liberismo di Aznar può affiancarsi oggi l’ambigua difesa dell’identità tedesca propugnata da Stoiber. Appartiene a questa nuova anima della destra europea una peculiare visione del percorso comunitario: un percorso da contenere dentro i rigidi confini del metodo intergovernativo, da stemperare, che considera l’allargamento dell’Unione come un’occasione meramente economico-commerciale.

In Italia è il ministro dell’Economia Tremonti l’interprete più lucido di una tale linea. L’argomentazione di Tremonti merita attenzione per due motivi: il primo è che essa tende a togliere legittimità democratica all’intera esperienza comunitaria, quando descrive l’avanzamento dell’integrazione come il prodotto di un’oscura burocrazia bruxellese. La seconda ragione è che la sua idea del futuro dell’integrazione si traduce nella conservazione, all’interno degli attuali confini nazionali, di quella sovranità di cui invece sarebbe oggi possibile il trasferimento,  almeno parziale, ad un vero soggetto politico europeo. L’impressione che si ricava dalle posizioni espresse dal ministro Tremonti è che il governo di centrodestra consideri l’Europa quasi un obbligo a cui non è possibile sottrarsi; che a prevalere sia in altri termini una concezione minima dell’Unione, una visione residuale dell’Europa comunitaria, nel senso che ad essa viene sottratto l’intimo valore politico per conservare solo quegli elementi che di volta in volta si considerino funzionali al proprio tornaconto. Tali posizioni dovrebbero comportare un’energica risposta politica e culturale da parte della sinistra. Andrebbe ricordato che la costruzione europea ha seguito in questi decenni un percorso di assoluta originalità storica: l’unico percorso che l’Europa, culla dello Statonazione, avrebbe potuto seguire, cioè né classicamente federalista né puramente intergovernativo, ma un percorso di cui non può essere smarrito il senso politico e democratico. Altro che integrazione europea opera di un pugno di tecnocrati senza volto!

Certo la sinistra italiana deve essere pienamente consapevole che per riguadagnare il sostegno dei cittadini europei alla causa dell’integrazione e dell’unità è vitale fornire risposte soddisfacenti a tutti gli aspetti oggi carenti e irrisolti della legittimazione e della partecipazione democratica. E tuttavia l’idea di democrazia che Tremonti brandisce contro quella di tecnocrazia deve essere respinta. Forse nella diffidenza verso «questa Europa» si annida un sentimento più preoccupante. Ovvero la tentazione di contrapporre alle istituzioni della sovranazionalità europea (limitate e da riformare ma certamente espressione del grado più avanzato di consenso a cui sono giunte oggi le democrazie continentali) una fumosa e indistinta sovranità plebiscitaria. Dentro la quale – questo è il punto – non viene in realtà compiuto alcun passo avanti nella ulteriore costruzione di un soggetto politico europeo effettivamente capace di assumere su di sé le responsabilità che la situazione richiede. La continuità con cui tali argomenti hanno trovato spazio nell’azione di politica europea di questo governo ha condotto Renato Ruggiero alle dimissioni. Non si è trattato affatto di incompatibilità caratteriali. Ruggiero era ministro degli Esteri di un governo di centrodestra contro cui la sinistra votò in parlamento nel giugno del 2001, e tuttavia le sue dimissioni hanno segnato un punto di svolta nel profilo internazionale dell’Italia, determinando tra l’altro – con un interim interminabile del presidente del Consiglio alla Farnesina – una situazione imbarazzante per il nostro paese sul piano internazionale. Se così stanno le cose credo sia giusto interrogarsi sulle conseguenze per l’Italia di una tale politica del centrodestra.

Non si tratta solo del rifiuto di una tradizione europeistica: le tradizioni sono importanti ma possono anche essere legittimamente accantonate. Il vero rischio è che questo nuovo scenario si traduca in un declassamento del nostro paese sulla scena internazionale, in un suo precipitare ai margini del processo di integrazione. È il caso di ricordare che il valore dell’europeismo italiano, di cui il centrosinistra è stato il migliore interprete, è stato quello di portare l’Italia sulla frontiera più alta dell’integrazione, permettendo al nostro paese di partecipare in modo non subalterno ai flussi di modernizzazione che hanno attraversato il nostro continente. Ma quale destino, c’è da chiedersi, si delineerebbe per un’Italia che restasse prigioniera di prudenze nazionalistiche, per un’Italia euroscettica e critica verso l’integrazione? Un destino di marginalità. Non è una conferma di tale rischio, tra l’altro, la povertà dell’incontro bilaterale con la Germania svoltosi nelle scorse settimane a Trieste? È imperdonabile dissipare la trama della collaborazione politica dell’Italia con la Germania. Una collaborazione che è stata in più occasioni essenziale negli ultimi anni: il documento sul futuro dell’Europa che ha aperto alla Convenzione e lo strumento prezioso delle cooperazioni rafforzate sono stati risultati tra i più rilevanti della recente iniziativa italo-tedesca.

La verità è che questa situazione accresce le responsabilità della sinistra italiana nel riprendere un’incisiva iniziativa affinché l’Italia resti protagonista convinta della costruzione europea. Ma per condurla la sinistra deve avere consapevolezza dei nuovi problemi che oggi si pongono. Non andrebbe lontana una sinistra che coltivasse un europeismo di maniera e puramente declamatorio; una sinistra inconsapevole delle oggettive difficoltà che incontra la costruzione europea, compreso un pericolo effettivo di burocratizzazione e centralizzazione. E tuttavia occorre essere molto chiari: se il centrodestra utilizza tali problemi come occasione per offrire una lettura riduttiva dell’integrazione e per ritornare alla difesa della sovranità nazionale in campi in cui è necessario passare ad una condivisa sovranità europea, la sinistra italiana è persuasa, viceversa, che la riposta a tali problemi consista nell’offrire più Europa alle nostre comunità civili. Ecco l’animo con cui la sinistra guarda ai lavori della Convenzione europea. Non sarà un lavoro facile: quello che ci attendiamo non sono adattamenti funzionali delle istituzioni dell’Unione ma una sua rifondazione simbolica, una sua rinnovata finalizzazione, una sua forte riconoscibilità democratica, strumenti e procedure per consentire un governo dell’economia. Ma l’Europa a cui pensa la sinistra italiana è soprattutto un soggetto politico in grado di partecipare al governo della comunità internazionale. Un governo necessario come non mai se si guarda alle incognite che la globalizzazione porta con sé, alle ansie e alle sofferenze di tanta parte della popolazione mondiale esclusa, alle nuove minacce alla pace. Di fronte a problemi di tale portata ed asprezza occorre sottolineare che l’Unione europea costituisce uno straordinario strumento per la promozione di maggiore giustizia nel mondo. Essa rappresenta una potenza civile: di segno diverso da quelle classicamente nazionali in cui la forza economica e militare si traduce direttamente in maggiore o minore influenza. È una potenza civile che presenta tratti e potenzialità di assoluta originalità, che ne fanno uno strumento del tutto nuovo nella storia del mondo.

E tuttavia questa Europa ricca di tali potenzialità è giunta ad un bivio: in un mondo investito da mutamenti straordinari nei propri assetti ed equilibri, se essa non riuscirà a muoversi in fretta e in modo più coesivo nel settore della politica estera e della sicurezza, rischierà di essere tagliata fuori dai processi in atto, di condannarsi ad un ruolo marginale. Del resto, la crisi aperta l’11 settembre ha messo allo scoperto incertezze e punti di debolezza nell’identità e nel profilo politico dell’Unione. C’è bisogno quindi di un impulso forte – che vorremmo si esprimesse anche nella Convenzione – a fare dell’Unione un soggetto capace di un’efficace azione internazionale. Un’Unione europea che evolvesse in questa direzione potrebbe giocare un ruolo essenziale nel governo della globalizzazione e nella prevenzione e soluzione dei conflitti. Nessuno può ignorare che la globalizzazione si è realizzata fino ad oggi senza regole e senza sufficienti meccanismi di controllo; né tantomeno ignorare che l’inerzia, insieme alla incapacità di dar vita ad una governance più efficace, potrebbe tradursi in problemi sempre più ardui e difficili da risolvere. In questa situazione l’Unione europea può essere un concreto strumento per contribuire ad orientare i processi globali. Può esserlo facilitando gli scambi con i paesi oggi chiusi in un isolamento drammatico; superando protezionismi e corporativismi e ripensando decisamente l’assistenzialismo che ha ispirato le politiche agricole della CEE dapprima e ora dell’Unione europea. Certo raggiungere questi risultati non sarà facile e comporterà una battaglia politica e culturale da parte della sinistra, in un’Europa in cui forze di destra esplicitamente ostili a sviluppi del ruolo politico dell’Unione riprendono ruolo e funzione. Un’Europa che coraggiosamente imboccasse questa strada costituirebbe nei fatti quel pilastro insostituibile per la costruzione di un ordine multipolare che appare sempre di più la risposta realistica e necessaria alle sfide poste oggi alla comunità internazionale.

È in questo quadro che andrebbe affrontato il nodo dei rapporti tra Unione europea e USA. La «super-potenza riluttante», secondo un termine frequentemente usato nella discussione statunitense di politica estera, si trova nella condizione di disporre di una forza economica e militare mai prima d’oggi così evidentemente priva di qualsiasi antagonista effettivo. È un dato di fatto, come sappiamo bene, risultato dalla vicenda storica dell’ultimo quindicennio. Si tratta di un elemento che dobbiamo leggere per cosa effettivamente è, senza alcun paraocchi ideologico. E allora la lettura più credibile della questione statunitense non può più essere quella di un impero in cerca di un nuovo dominio mondiale. Il vero dilemma della politica estera americana è tra impegno multilaterale e tendenze unilateralistiche, tra obbligazione internazionale e diffidenza verso i vincoli. Il pericolo non è dunque in una volontà di dominio globale, ma nell’utilizzo della smisurata potenza statunitense in modi e direzioni svincolati dal confronto e dal coinvolgimento con i diversi soggetti internazionali. E quanto sia grave questo pericolo lo stiamo vedendo proprio in questi giorni. Oggi sembra di assistere al ritorno di Washington su posizioni di segno unilateralistico, dopo che il successo dell’azione militare contro il regime dei talebani era avvenuto all’insegna del positivo coinvolgimento di un ampio arco di soggetti e istituzioni mondiali. A sette mesi dall’11 settembre è legittimo interrogarsi sull’attualità di quelle speranze che, nei giorni immediatamente successivi alla tragedia, si erano affacciate in larga parte della comunità internazionale: speranze legate al definirsi di un’ampia e inedita alleanza tra istituzioni internazionali e potenze nazionali non sempre tra loro in sintonia. Allora era sembrato possibile – ce lo ricordiamo bene – che l’urgenza di fornire risposte condivise alla strategia terroristica potesse porre all’ordine del giorno questioni lungamente disattese come la costruzione di autentici strumenti mondiali per il governo della sicurezza o la riforma di istituzioni internazionali in direzione della rappresentanza delle società civili e delle organizzazioni non governative. Oggi su molte di quelle speranze è indispensabile nutrire più di un dubbio. In questo quadro forti sono le preoccupazioni suscitate dai due nuovi obiettivi indicati nelle ultime settimane dal presidente Bush: l’esistenza di un asse del male – quasi un triangolo della morte comprendente Iran, Iraq e Corea del Nord – e la dottrina dell’attacco preventivo secondo il quale gli USA si dovrebbero preparare a colpire indiscriminatamente Stati diversi dall’Afghanistan. Tutto ciò conferma che all’interno della leadership statunitense continuano ad essere ben vive le tentazioni di una condotta mondiale di segno unilateralistico e svincolata dall’obbligazione internazionale. Un’offensiva militare USA contro l’Iraq sarebbe un errore gravido di conseguenze negative. Si tratterebbe di una decisione capace di aprire un fronte di straordinaria difficoltà non solo per l’area mediorientale, ma anche e soprattutto per i rapporti tra Stati Uniti ed Europa.

Sarebbe certamente una grave regressione, soprattutto mentre la tragedia in Palestina sembra ormai sfuggire ad ogni controllo. Una tragedia che richiede tutto il contrario di atti unilaterali, ovvero l’impegno congiunto dei principali attori della comunità internazionale per ricondurre alla ragione quello che rimane delle classi dirigenti delle due parti in conflitto, fermando innanzitutto il massacro e garantendo quindi un vero Stato alla popolazione palestinese nella piena garanzia di sicurezza per Israele. Si tratta di un’urgenza non più rimandabile, anche perché da quella tragedia si alimentano (in modi distorti e criminali, ma purtroppo reali) buona parte dei fondamentalismi che sorreggono le minacce terroristiche. Anche per questo c’è bisogno di più Europa. Perché l’Europa, molto più di altre istituzioni sovranazionali, si trova nelle condizioni di vicinanza politica e civile ideale per condizionare l’azione degli Stati Uniti in direzione del dialogo e del governo multipolare del mondo. Ed è anche per questo che il fervore atlantista di Berlusconi ci appare inutile. La vera necessità è oggi non quella di mostrarsi fedeli agli Stati Uniti, ma piuttosto quella di lavorare affinché la potenza statunitense sia diretta a cooperare con la comunità internazionale nella soluzione delle emergenze e dei rischi per la sicurezza. Questo è il punto.

Ma ciò è possibile a condizione che l’Unione europea assuma i caratteri di un vero e proprio soggetto politico, con un proprio progetto strategico, con una propria visione dell’azione internazionale e della diplomazia distinta da quella degli USA. Occorre affermare in sostanza un approccio europeo ai problemi della sicurezza, del sottosviluppo, della governance. La differenza sostanziale dagli USA – hanno scritto su questa rivista Marta Dassù e Antonio Missiroli – è nella convinzione europea secondo cui il sistema internazionale per essere governato ha bisogno di regole comuni e di istituzioni forti. Queste sono le basi di una riflessione esplicita sul ruolo dell’Europa nel sistema internazionale che si va ridisegnando. E torniamo per questa via al nodo da cui siamo partiti. Nodo di cui la sinistra non può non essere consapevole: occorre stringere i tempi della costruzione politica dell’Europa. Per questo guardiamo con speranza ai lavori della Convenzione. Perché è da lì che dovranno venire gli impulsi indispensabili a fare dell’Europa un soggetto capace di svolgere una efficace azione internazionale. Necessitano strumenti di sicurezza di cui non possiamo più fare a meno se non vogliamo condannarci a delegare sempre ad altri la responsabilità di prevenire e sanare i conflitti. Occorrono strumenti istituzionali, perché l’efficacia dell’azione europea dipende anche da una strumentazione istituzionale finora inadeguata – ed in prospettiva sempre meno adeguata – alle nuove dimensioni dell’Europa dell’allargamento. Strumenti politici, infine, perché la legittimità democratica dell’Unione europea è anche nella sua vocazione a consolidare ed allargare il riconoscimento in essa dei suoi cittadini e delle sue diverse opinioni pubbliche. Questi sono i traguardi con cui dovrà misurarsi il difficile lavoro della Convenzione. Sta anche a noi, alla sinistra riformista, fare in modo che l’Italia partecipi in modi non subalterni a questo fondamentale passaggio della costruzione europea. Non bastano in questo senso i retorici omaggi di fede europeista di Silvio Berlusconi, soprattutto se essi vengono quotidianamente smentiti dalla concreta azione internazionale del suo governo. È necessario che una opposizione riformista che si prepara a tornare ad essere forza di governo assuma direttamente la responsabilità del migliore europeismo italiano: non una vuota retorica né una religione consolatoria, ma una concreta visione del ruolo del nostro paese nella comunità internazionale. Quella visione che ha elevato il ruolo dell’Italia a livelli di credibilità e influenza mai conosciuti prima. E che è nostro compito rendere vitale e visibile.