Europa e Stati Uniti: l'alleanza inevitabile

Di Timothy Garton Ash Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

In Europa si sta diffondendo una pericolosa tentazione: definire il vecchio continente in contrapposizione agli Stati Uniti. È una tentazione alimentata da intellettuali, politici e leader europei. È indispensabile porvi un argine. Il recente libro dello scrittore e giornalista britannico Will Hutton ne dà un ottimo esempio. In The world we’re in sostiene che l’Europa e gli Stati Uniti siano due civiltà caratterizzate da valori distinti e diversi. Secondo Hutton «si tratta di due enormi blocchi di potere con visioni diverse di come l’economia di mercato e la società dovrebbero essere gestite» e fra i due «la versione europea del capitalismo democratico è semplicemente quella migliore».

 

In Europa si sta diffondendo una pericolosa tentazione: definire il vecchio continente in contrapposizione agli Stati Uniti. È una tentazione alimentata da intellettuali, politici e leader europei. È indispensabile porvi un argine.

Il recente libro dello scrittore e giornalista britannico Will Hutton ne dà un ottimo esempio. In The world we’re in sostiene che l’Europa e gli Stati Uniti siano due civiltà caratterizzate da valori distinti e diversi. Secondo Hutton «si tratta di due enormi blocchi di potere con visioni diverse di come l’economia di mercato e la società dovrebbero essere gestite» e fra i due «la versione europea del capitalismo democratico è semplicemente quella migliore». È questo che dovrebbe indurre la Gran Bretagna ad adottarla integralmente invece di indugiare sulla special relationship con gli Stati Uniti. Qualche tempo fa anche Romano Prodi, in visita ad Oxford, ha invitato la Gran Bretagna a privilegiare la relazione con l’Europa piuttosto che quella con gli Stati Uniti. Si tratta di una questione particolarmente spinosa per la Gran Bretagna, ma che in realtà riguarda tutta l’Europa. Definire l’Europa in contrasto con gli Stati Uniti è una tentazione tanto più forte perché le identità tendono a trovare la loro definizione nel confronto con un Altro. L’Europa che prendeva forma dalla precedente nozione di «Cristianità» si definì nel Medio Evo prima contro l’Altro rappresentato dall’espansione aggressiva del mondo arabo-islamico e poi contro l’impero ottomano. Durante la guerra fredda per l’Europa alleata degli Stati Uniti l’Altro era il blocco sovietico, ma esisteva anche un diverso tipo di definizione nei confronti di un Altro virtuale simboleggiato da una storia continentale segnata da guerre e violenze. Dalla fine della guerra fredda l’Europa non ha fatto che cercare un nuovo Altro. Ma l’Altro virtuale, quello dei conflitti nazionalistici e sanguinosi, sta scomparendo dalla memoria delle nuove generazioni. L’Europa diventa paradossalmente vittima dei suoi successi. Come ha dimostrato Silvio Berlusconi, ed è un episodio ormai noto, gli attentati terroristici dell’11 settembre scorso hanno fatto rivivere la tentazione a vedere l’Altro nel mondo arabo-islamico: il che avrebbe conseguenze disastrose e assurde perché in Europa vivono ormai 20 milioni di musulmani.

Vi è quindi un’unica alternativa che appare intellettualmente e politicamente rispettabile: dipingere gli Stati Uniti come l’Altro. Tentazione certamente non nuova a molti ambienti della sinistra europea continentale e della destra gollista, ma molto più forte oggi poiché l’Europa non ha più bisogno di protezione contro l’Armata rossa. Ma questo non è l’unico motivo. Un problema che riguarda gli Stati Uniti di fatto esiste ed è la ragione per cui una tale tentazione acquista credibilità politica e intellettuale. Si tratta di un problema che ha almeno tre sfaccettature. In primo luogo la questione già nota del modo in cui il nuovo presidente si muove sulla scena internazionale: un contesto complesso, che egli deve imparare a conoscere e sul quale è stato di fatto proiettato con una forte spinta neoisolazionistica. Ma non è una novità e non dovremmo esserne sorpresi: è quanto è successo più o meno ogni otto anni nell’ultimo secolo. In secondo luogo si pone il problema del nuovo unilateralismo assertivo, sensibilmente diverso rispetto alle tradizionali oscillazioni fra isolazionismo e internazionalismo liberale. La denuncia dell’amministrazione Bush del Protocollo di Kyoto, il rifiuto ad aderire alla Corte internazionale di giustizia, l’imposizione unilaterale e ingiustificata di dazi sull’acciaio, la condotta della guerra in Afghanistan con la scelta di formare una coalizione internazionale selezionata da Washington piuttosto che gestire il conflitto attraverso la NATO e le Nazioni Unite. Tutte conferme, queste, di un atteggiamento unilateralista ben descritto dalla domanda americana «perché dovremmo rivolgerci a qualcun altro?». Un atteggiamento che per certi versi l’11 settembre sembrava avere attenuato («in un mondo complicato e pieno di minacce come questo non possiamo fare a meno di alleati»), ma che per altri risulta accentuato («dovendo far fronte ad una minaccia diretta alla sicurezza vitale della nostra patria abbiamo il dovere e il diritto di difenderci. Che diritto avete voi europei di dirci come dovremmo difendere la nostra gente?»).

La tentazione unilateralista dell’America è a sua volta acuita da un elemento fondamentale: la schiacciante dimensione della potenza americana. Oggi gli Stati Uniti detengono un potere relativo superiore a quello che qualsiasi altro paese abbia mai avuto. L’America è la «nuova Roma» ma su un piano globale. La sua spesa militare è pari almeno a quella dei dieci Stati che seguono in classifica. E non solo: l’America gode anche del dono straordinario che Joseph Nye ha definito come soft power, ovvero un magnetismo che si estende alla sfera culturale, linguistica e allo stile di vita. L’appellativo «iperpotenza» usato da Hubert Vedrine, al di là di una eccessiva sfumatura anti-americana, rende bene l’idea. Per quanto benevolo, ben intenzionato e controllato democraticamente è sempre pericoloso che un solo paese abbia così tanto potere. I padri della Costituzione americana stabilirono che in nessun ramo del governo si dovesse concentrare troppo potere e istituirono un sistema di checks and balances per prevenire effetti come questi. Lo stesso criterio dovrebbe essere applicato agli Stati nel sistema internazionale, poiché per tutti, anche per un arcangelo, è pericoloso disporre di troppo potere. È quindi giusto affermare che gli Stati Uniti devono essere affiancati da partner forti che impediscano loro di cadere in tentazioni e in errori. Ed è assurdo che la risoluzione di ogni conflitto in qualsiasi parte del mondo debba dipendere esclusivamente dall’iniziativa degli Stati Uniti.

L’Europa è il candidato diretto e naturale a diventare il partner forte degli Stati Uniti. Poiché è nell’interesse nostro e in quello degli americani che un’Europa forte si senta un alleato e non un nemico degli Stati Uniti. Ma qui sta il punto. Gli argomenti a favore di un’Europa più solida sono sempre più spesso motivati con la necessità di una superpotenza antagonistica (o «equilibrata» nella versione più diplomatica) rispetto agli Stati Uniti, giustificata con la tesi secondo cui l’Europa rappresenta valori, civiltà, un’organizzazione dell’economia e della società sicuramente diversi e forse migliori di quelli americani. Non starò qui ad argomentare quanto sia realistico immaginare che l’Europa possa essere un serio rivale per l’iperpotenza americana, poiché non è affatto realistico. Né tantomeno voglio soffermarmi su quali sarebbero le conseguenze (gravi) se l’Europa decidesse di intraprendere un tale corso. Mi limiterò a sottolineare che idee come queste non sono difendibili né analiticamente né alla luce dei fatti. Primo, la rivendicazione della diversità. Molti esponenti della sinistra europea hanno tentato di individuare i famosi «valori europei» che marcherebbero la distanza dai cosiddetti «valori americani»: dall’eguaglianza alla solidarietà alle aspettative riposte nello Stato come principale fonte di assistenza sociale. Qualcuno nella destra americana potrebbe essere d’accordo. Ma se si provasse a rappresentare su un diagramma di Venn l’intero spettro dei valori europei ed americani e le vie scelte per organizzare una società capitalista democratica, ci si renderebbe conto che tali valori in larga parte coincidono. Da un lato troveremmo un’area a forma di banana composta dai valori e dalle consuetudini peculiari degli Stati Uniti: fra queste un individualismo estremo, una concezione dello Stato come male necessario, la pena di morte, la diffusione incontrollata delle armi fra la popolazione, la forte diffusione di valori cristiani fondamentalisti nella vita pubblica. Dall’altro lato ci sarà un’area anch’essa a forma di banana, ma dai contorni molto meno definiti, in corrispondenza dei valori e delle consuetudini europee: per esempio, un ruolo preciso dello Stato come fornitore di assistenza sociale, il valore delle peculiarità storiche locali, forse anche l’ambiente. Ma fra le due banane corrispondenti ai diversi valori troveremmo un’area comune a forma di mela molto più ampia.

Un quadro di diversificazione valoriale avrebbe qualche fondamento solo adottando una visione dell’Europa molto ristretta e considerando gli Stati Uniti in una condizione di totale isolamento. Se si considerasse da un lato solo la vecchia, originale Comunità economica europea carolingia dei sei membri fondatori, e dall’altro solo gli Stati Uniti, l’elenco delle differenze sarebbe forse leggermente più lungo. Ma noi viviamo in un’Europa con quindici Stati membri, ognuno con storia e modi di agire diversi, che presto diventeranno venticinque con differenze ancora maggiori. Accanto agli Stati Uniti c’è il Canada e nel mondo esiste una comunità più ampia di democrazie capitaliste. Provate a chiedervi se è più probabile che un avvocato o un uomo d’affari di Milano pensi di avere più cose in comune con un suo collega di Manhattan o di Minsk. Credo che la risposta più probabile sia Manhattan. E se si obiettasse che non ci si può riferire solo alle élite allora provate a pensare se un idraulico o un elettricista di Napoli ritenga di essere più simile ad un suo collega di New York o di Nizhnij Novgorod. E poi aggiungete Melbourne e Toronto per rendere l’esempio più completo. In realtà se assumiamo questa nozione prescrittiva e più immediatamente percepibile di cosa significhi «essere europei», invece di quella politicamente motivata e geograficamente descrittiva, potremmo quasi essere tentati ad affermare che la Nuova Zelanda è più europea della Bielorussia. Questo non vuol dire naturalmente sostenere la posizione estrema che l’Europa non esiste. Ma ritenere piuttosto che sia impossibile distinguere nettamente l’insieme dei valori della vera Europa - estesa, confusa e dai confini sfocati - dall’insieme dei valori della più grande comunità delle democrazie capitaliste, in particolare dalle Americhe del Sud e del Nord e dall’Australia e dall’Asia, figli tutti in qualche misura dell’Europa. Il che non significa che non si possa costruire con uno sforzo di volontà politica e di intelligenza un’Europa politica forte e relativamente coerente che potrebbe affermarsi come attore politico di rilievo a livello mondiale, soprattutto fra gli Stati a noi geopoliticamente più prossimi come l’Africa del Nord, il Medio oriente e il Caucaso. È questo ciò che potremmo e dovremmo fare. Ma pensare che sia possibile costruendo una civiltà diversa e separata è semplicemente errato.

L’altra convinzione che più o meno esplicitamente giustifica il ripetuto tentativo di definire l’Europa in contrasto con gli Stati Uniti è che l’Europa sia migliore. È un classico che a sostegno di questa tesi gli scrittori europei accusino l’America per la pena di morte, per le leggi sul porto d’armi (o piuttosto per la mancanza di una regolamentazione chiara sulla questione), per le dimensioni del sottoproletariato, per le terribili condizioni delle prigioni, per il consumismo, per consumi energetici irresponsabili e per una politica estera definita da cowboy. In tutte queste aree l’Europa sembra di gran lunga migliore. Ma non si deve confondere l’ideale prescrittivo e normativo dell’Europa con la realtà. Poiché la realtà è che la storia delle barbarie europee nel Ventesimo secolo – dall’olocausto al gulag – supera di gran lunga qualsiasi critica che si possa muovere agli Stati Uniti. E ci ricorda anche che un continente che ha di recente prodotto un vasto consenso elettorale per le politiche antiimmigrazione di Haider, Le Pen e Pim Fortuyn ha ancora molti motivi per essere umile. Gli Stati Uniti hanno inoltre una definizione civica di nazionalità che non possiamo che invidiare. L’idea di americani neri o asiatici non fa ormai alcun effetto, a differenza di quella di «tedesco di colore» o «tedesco asiatico» che crea ancora quanto meno stupore. In generale la cultura dei diritti è molto più progredita negli Stati Uniti che in Europa. Economicamente entrambe le sponde dell’Atlantico sono combattute tra Stato e mercato. È difficile quindi dire che una risposta è in assoluto migliore dell’altra. Se l’Unione europea avesse al momento lo stesso tasso di occupazione degli Stati Uniti avrebbe 33 milioni in più di posti di lavoro. E per quanto riguarda la politica estera da cowboy non scordiamo che i «lattai» europei in Bosnia (come venivano chiamati in gergo i caschi blu europei nei primi anni Novanta) finirono a Srebrenica. È davvero meglio essere lattai che cowboy?

In conclusione l’Europa e gli Stati Uniti appartengono ad un’unica e grande famiglia di democrazie capitaliste che hanno tutte origine in Europa. Lo zio Sam è ormai più alto dei cugini europei ma non c’è alcun dubbio che tutti appartengano alla stessa famiglia. Se l’Europa è migliore per alcuni aspetti, gli Stati Uniti lo sono per altri. Apparteniamo gli uni agli altri e abbiamo bisogno gli uni degli altri. Senza il sostegno dell’iperpotenza americana l’Europa non ha molte speranze di instaurare un ordine liberale sul continente e di generalizzare grazie a ciò la diffusione dei beni pubblici. E d’altra parte l’iperpotenza americana ha bisogno di un partner. Ma la tentazione di definire l’Europa in opposizione agli Stati Uniti resta uno dei maggiori ostacoli al consolidamento di questa partnership. Ciò di cui abbiamo bisogno non è un’Europa che si definisca contro qualcosa, ma che affermi la sua identità per quello a cui aspira.