Guerra giusta o guerra utile? Le norme, l'esperienza, gli interessi

Di Massimo Brutti Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

L’idea di guerra giusta non è soltanto il relitto di vecchie dispute teologiche. È anche un prodotto attuale del pensiero politico: figura in una serie di riflessioni sull’etica e sul diritto internazionale e viene riferita all’uso legittimo della forza militare, così com’è previsto nella Carta delle Nazioni Unite. Rinasce dalle sfide della storia contemporanea ed influenza il senso comune. Possiamo coglierne i significati soltanto analizzando alcuni contesti storici nei quali ricorre e svelando, a partire da questi, le ragioni e i limiti della sua reviviscenza in anni recenti. L’aggettivo «giusto» implica un giudizio di valore. Più precisamente, i comportamenti umani vengono così qualificati, poiché si considerano rispondenti ad un dover essere: ad una norma. Nel nostro caso, abbiamo un insieme di fatti – la guerra – messi in relazione con un modello prescrittivo, che può definirli e può divenire il loro movente.

L’idea di guerra giusta non è soltanto il relitto di vecchie dispute teologiche. È anche un prodotto attuale del pensiero politico: figura in una serie di riflessioni sull’etica e sul diritto internazionale e viene riferita all’uso legittimo della forza militare, così com’è previsto nella Carta delle Nazioni Unite. Rinasce dalle sfide della storia contemporanea ed influenza il senso comune. Possiamo coglierne i significati soltanto analizzando alcuni contesti storici nei quali ricorre e svelando, a partire da questi, le ragioni e i limiti della sua reviviscenza in anni recenti.1 L’aggettivo «giusto» implica un giudizio di valore. Più precisamente, i comportamenti umani vengono così qualificati, poiché si considerano rispondenti ad un dover essere: ad una norma. Nel nostro caso, abbiamo un insieme di fatti – la guerra – messi in relazione con un modello prescrittivo, che può definirli e può divenire il loro movente.

Entro la cultura occidentale, la prima dottrina sistematica delle «guerre che vendicano le ingiustizie» fu elaborata dal pensiero cristiano. Essa era nata con Agostino, come mezzo teorico per dare un fondamento religioso e un’approvazione alla scelta del conflitto armato: la più tragica che l’autorità politica possa compiere. «Quando sono vincitori coloro che hanno lottato per la causa più giusta, chi dubita che sia lodevole una tale vittoria e desiderabile la pace che ne risulta?». Più tardi, la dottrina fu codificata da Tommaso d’Aquino, che fissò tre condizioni sulle quali poteva reggersi la categoria del bellum iustum. La prima era che la guerra venisse proclamata dal principe. La seconda che derivasse da una giusta causa. La terza che l’intenzione di chi combatte fosse retta.2 È evidente che il giudizio di valore investiva qui il rapporto tra l’autorità terrena (il potere costituito e riconosciuto del principe) e la trascendenza (che è la fonte del iustum), tra la politica e la religione, assoggettando la prima alla seconda. Non l’interesse, l’utilità, il benessere giustificavano la guerra, ma soltanto la lotta contro un male e a difesa del bene. La stessa forma ideologica si ritrova nelle guerre di religione che percorrono l’Europa tra Cinquecento e Seicento. Esse reclutano i propri combattenti da paesi diversi, in nome dell’appartenenza non a un territorio e a una stirpe, ma a una fede: a un’immagine di Dio.

Nel corso dell’età moderna, lo schema originario viene alterato profondamente, fino a perdere il suo significato. Al fondamento divino dell’autorità si sostituisce un fondamento umano, consolidato nelle regole empiriche che costituiscono gli Stati e disciplinano il loro modo di agire. In questo quadro, la riflessione sul diritto e sulla morale pubblica punta a determinare la forma, le modalità, i limiti della guerra, ma progressivamente esclude da sé qualsiasi definizione di che cosa sia la ragione o il torto nei conflitti. Già l’opera di Ugo Grozio rivela una frattura inequivocabile tra logica della guerra e logica della giustizia; e rievocando autori classici consegna al pensiero dell’Europa laica una considerazione relativistica dei motivi che inducono autorità e popoli al combattimento: «il più delle volte i re – così dice Plutarco – usano i due nomi di guerra e pace come se fossero monete, non in relazione a ciò che è giusto, ma come mezzi volti ad ottenere quel che è per loro utile».3 La difesa di sé, il recupero dei propri beni, la punizione sono avvertiti da ciascuno come cause giuste per entrare in guerra, ma questa valutazione è destinata a rimanere soggettiva e a scontrarsi con quella uguale e contraria della parte avversa, dell’hostis. Ciò avviene attraverso una progressiva estensione del concetto di autodifesa, che ne stravolge il senso. Quando infatti si afferma la legittimità della reazione armata di fronte a minacce anche soltanto potenziali, si spaccia teoricamente l’attacco per una difesa preventiva e lo si giustifica in ogni caso. 

L’idea di una giustizia oggettiva è stata progressivamente offuscata e messa in scacco da un’altra unità di misura, alla quale si rapportano i conflitti moderni e con essi l’uso della forza, il ricorso alle armi. Questo nuovo metro è stato l’utilità, l’interesse degli Stati nazionali. La pace di Westfalia, nel 1648, poco più di venti anni dopo la pubblicazione dell’opera di Grozio, ha concluso l’epoca delle guerre di religione e ha messo in soffitta la categoria del iustum bellum. Essa ha anche inaugurato un sistema di rapporti internazionali fondato sulla nuda forza degli Stati, sull’equilibrio che ne deriva, su ciò che conviene alle loro classi dirigenti, rappresentate da autorità sovrane, non più disposte a riconoscere potestà superiori o ad osservare norme che non siano da esse stesse prodotte. Dal sistema degli Stati sovrani discendono le visioni così dette «realistiche» della politica internazionale: una famiglia di filosofie e teorie abbastanza omogenee, che arrivano fino al Novecento e che descrivono il potere, il rapporto fra poteri e territori, la connessione tra autorità e popoli, come elementi costitutivi delle relazioni internazionali. Da Jean Bodin a Thomas Hobbes, ad Hans J. Morgenthau; dallo ius publicum europaeum alle teorie dell'interesse nazionale nel secolo scorso. Esse rilevano l’assenza di eteronormazione nel sistema degli Stati, conseguente alla sovranità di ciascuno, e scorgono proprio in questa autonomia l’origine del principio di cittadinanza.

Eppure le visioni realistiche, contrariamente a quanto molti credono, non si limitano alla mera descrizione. Pur scartando programmaticamente il punto di vista normativo, anch’esse contengono un dover essere più o meno nascosto: una idea della pace non come frutto di un’organizzazione separata dagli Stati e sovrastante ad essi (secondo il pacifismo giuridico di Kant), ma come equilibrio tra sfere di potenza, fondato su rapporti di egemonia. Si tratta in realtà di uno schema dalla lunga durata. Ancora ai nostri giorni il realismo si risolve il più delle volte sul piano politico in una svalutazione del ruolo dell’ONU (ove faticosamente si costruisce un luogo di arbitrato ed un potere super partes) e di fatto nel riconoscimento della potenza americana come principale soggetto regolatore dei rapporti internazionali, portatore di interessi ai quali si ritiene conveniente che l’Europa si unisca.

Da poco più di dieci anni la cultura politica italiana è tornata a discutere di guerra giusta, non in forma accademica, e cercando risposte ai dilemmi aperti dai nuovi e sanguinosi conflitti in corso: lontani, ma anche interni al nostro continente, come quelli dell’area balcanica. Il tema antico della lotta condotta con le armi contro un’ingiustizia, o meglio delle condizioni in base alle quali essa può essere approvata, viene ora riproposto muovendo da una visione rigorosamente normativa dei rapporti tra gli Stati (ispirata a valori universalistici). Una visione che accomuna in Europa correnti liberaldemocratiche e socialiste e tende a valorizzare il ruolo dell’ONU come garante di sicurezza, di contrattazione, di tutela dalle aggressioni e come fonte di un possibile bilanciamento del forte squilibrio di potere internazionale seguito alla fine del bipolarismo.

All’origine del recente dibattito italiano sono alcuni scritti di Norberto Bobbio, raccolti in un breve libro nel marzo 1991 e legati agli avvenimenti drammatici della guerra nel Golfo Persico.4 Seguendo un’immagine teorica tratta da Hans Kelsen, che trova anche espressione nello statuto dell’ONU, la guerra viene qui concettualizzata come sanzione, come reazione ad un torto sofferto. «La sola possibile reazione che può essere disposta dal diritto internazionale generale ad una guerra non permessa è la guerra stessa, una sorta di “contro-guerra” nei confronti dello Stato che ha fatto ricorso alla guerra, non ottemperando al diritto internazionale».5 La visione kelseniana è lontana da ogni facile irenismo. Non è pensabile un equilibrio spontaneo tra le potenze internazionali. L’unica via alla pace è quella del diritto; ma il diritto ha bisogno dell’esercizio della forza; e quale potere amministrerà le sanzioni nei rapporti tra gli Stati? C’è qui un vuoto che storicamente può essere colmato dalla legittima difesa o dalla creazione di un organismo sovrastante gli Stati, secondo l’insegnamento di Kant. L’effettività dei poteri su cui può fondarsi la reazione giusta ad un torto resta problematica; e noi sappiamo che questa effettività in Kelsen fonda l’ordinamento, la sua validità, la stessa certezza delle norme: tutte nozioni che nel diritto internazionale rimangono approssimative. Comunque, l’idea di guerra giusta opera come strumento teorico per bilanciare e tendenzialmente escludere la generalizzazione della guerra e il relativismo della politica di potenza (che marginalizza e nega il diritto internazionale).

L’analisi di Bobbio si fa più incerta di fronte alle conseguenze concrete dell’intervento armato contro l’Iraq, di fronte alle vittime innocenti, e quando cerca di misurare la sua efficacia come risposta all’invasione del Kuwait. L’autore elenca al riguardo una serie di dubbi angosciosi, derivanti dalla dinamica della violenza bellica, quando essa si prolunga e le sue dimensioni si allargano. «I governanti (…) devono (…) valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ed essere pronti a rinunciarvi, se queste azioni rischiano di produrre un male maggiore di quello che si vuole combattere. La riparazione del torto non deve diventare un massacro».6 Ma la parte del ragionamento che dà luogo a maggiori controversie non è quella che riguarda i lutti e i risultati ambigui della guerra; è invece l’altra, espressa con più ferma convinzione, nella quale il conflitto contro l’Iraq viene definito proprio come una guerra giusta. È insomma la qualificazione giuridica dell’intervento militare. Apparentemente, Bobbio si limita a prendere atto della rispondenza di questo all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che prevede l’autotutela contro ogni attacco armato. In realtà la sua operazione – ancora sulle orme di Kelsen – va oltre: il bellum è iustum perché è conforme all'enunciazione di un diritto assoluto, che viene prima di tutte le norme vigenti.

L’articolo 51 prevede: «nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale7 di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso è l’etica dei princìpi a dettare il giudizio. Prendere sul serio l’articolo 51, riconoscerne l’applicazione nel caso del Golfo Persico (cioè in un conflitto di vaste dimensioni, che turba l’opinione pubblica mondiale) significa, al di là della norma scritta,8 offrire una legittimazione di tipo giusnaturalistico alle azioni militari appoggiate dall’ONU ed all’attacco durissimo che è in atto sotto la guida delle forze statunitensi, contro un paese più debole ed isolato; significa riscattare la violenza. Lo scandalo che questi scritti suscitano è nell’attribuire un valore all’azione armata, sia pure teoricamente delimitato in ragione dello scopo. Da qui nascono le critiche dei pacifisti radicali, persuasi che non si possa ammettere a nessuna condizione un diritto naturale all’uso della forza nei rapporti internazionali. Bobbio le respinge, ma non ignora, anzi mette in luce la vera aporia della «contro-guerra» teorizzata da Kelsen: il fatto che questa non è una sanzione amministrata da un potere super partes, né vi sono garanzie che essa venga graduata secondo criteri di proporzionalità rispetto ai comportamenti che si vogliono punire. Tuttavia, è l’unica tutela contro le aggressioni: «La difficoltà di trovare esempi di guerra giusta come guerra di legittima difesa dipende dal fatto che generalmente il pesce grosso mangia il pesce piccolo o piccolissimo, e il pesce piccolo o piccolissimo viene ingoiato prima di potersi difendere, come accadde al Belgio e all’Olanda nella seconda guerra mondiale. Ma quando la guerra rispettivamente di aggressione e di difesa avviene tra due pesci grossi come la Germania e l’Unione Sovietica durante la stessa guerra, la distinzione è anche di fatto possibile e salta agli occhi. Quando l’Unione Sovietica fu assalita dalle truppe naziste, che cosa poteva fare Stalin, il perfido Stalin, se non la guerra? E non era una guerra giusta?».9

L’esempio che Bobbio cita non è casuale. Il discorso sull’aggressione ingiusta perpetrata da Saddam Hussein, così come sul nesso fra tirannide ed espansionismo, riporta in primo piano una serie di immagini e topoi storicopolitici che hanno la loro origine nel Novecento ed esattamente nell’antifascismo europeo. La figura del bellum iustum fu riproposta allora, come idea-guida e mito: come una specie di versione laica delle antiche nozioni teologiche. Nel 1944 Benedetto Croce definiva «empia» la guerra dichiarata da Mussolini e ricordava che gli antifascisti avevano «desiderato e affrettato coi voti, dolorosamente la sconfitta dell’Italia».10 Allo stesso modo Thomas Mann considerava giusta la guerra aerea degli angloamericani contro il proprio paese, pur con i suoi esiti devastanti: «condivido il pensiero di una parte non piccola della nostra popolazione, anche di quella maggiormente colpita e rimasta senza tetto, che riceviamo soltanto ciò che abbiamo dato, e se l’espiazione dovesse essere più terribile del nostro peccato dovremmo sentirci ronzare nelle orecchie il detto che chi semina vento raccoglie tempesta».11 Così l’applicazione del binomio teorico colpa-sanzione serviva a dare un senso razionale alla guerra.

L’idea di guerra giusta è stata impiegata in questi anni con riferimento ad interventi militari diversi dall’autodifesa e volti a fermare conflitti sanguinosi in corso, anche infrastatuali. La Carta delle Nazioni Unite prevede che gli interventi siano intrapresi dall’ONU o da organizzazioni regionali ed autorizzati dal Consiglio di sicurezza. In un rapporto indirizzato il 16 novembre 1999 all’Assemblea delle Nazioni Unite, il Segretario generale Kofi Annan ha spiegato in modo emblematico le finalità di questi interventi. Nel 1995 a Srebrenica i serbo-bosniaci sostenuti da Milosevic e dal regime di Belgrado sterminarono più di 8.000 musulmani ed il rapporto ricostruisce quei fatti, fornendo notizie sull’entità e sulla dinamica delle stragi. Contro simili delitti si giustifica un’azione militare dall’esterno: «La lezione fondamentale di Srebrenica è che il tentativo deliberato e sistematico di terrorizzare, espellere o uccidere un intero popolo dev’essere fronteggiato con tutti i mezzi necessari e con la volontà politica di portare questa linea di azione alla sua logica conclusione. Nei Balcani, durante l’ultimo decennio, abbiamo dovuto apprendere questa lezione non una ma due volte. In entrambi i casi, in Bosnia e nel Kosovo, la comunità internazionale ha cercato di raggiungere un accordo attraverso il negoziato con un regime omicida e senza scrupoli. In entrambi i casi è stato necessario l’uso della forza per porre un freno alle uccisioni pianificate e sistematiche ed alla espulsione dei civili …». In realtà per il Kosovo la campagna aerea della NATO, conclusa nel giugno 1999, si era svolta al di fuori di un esplicito mandato del Consiglio di sicurezza, che invece la Carta delle Nazioni Unite prevede come condizione necessaria di legittimità. Dopo settantadue giorni, il Consiglio di sicurezza era rientrato in gioco e sulla base di un accordo con la Russia, voluto soprattutto dai paesi dell’Europa continentale, aveva sancito la tregua con la Repubblica federale jugoslava ed autorizzato proprio le forze militari della NATO ad una missione di peace-keeping sul suo territorio. Ad avviso di Kofi Annan ciò non ha rappresentato una violazione dei princìpi di fondo su cui si reggono le Nazioni Unite. Anzi, egli fa autocritica sul passato, ricordando che l’ONU, nella prima metà degli anni Novanta, scartò programmaticamente l’uso della forza, cedette all’attacco serbo e non seppe fermare la crudeltà di Ratko Mladic e dei suoi uomini. Nel 1999 invece, di fronte alla pulizia etnica che si è ripetuta nel Kosovo, c’è stata la reazione di un’ampia comunità di paesi. Egli indica quale criterio di giustificazione delle azioni belliche lo stato di necessità: le persecuzioni e gli eccidi non si potevano bloccare altrimenti. Ricorre in definitiva al medesimo schema teorico che già nel dibattito europeo è stato utilizzato sotto varie forme, in particolare da intellettuali che condividono una visione normativa dei rapporti internazionali, come Jürgen Habermas e Antonio Cassese.

Il primo si è soffermato a lungo sulla novità dell’intervento militare multinazionale e sui suoi obiettivi: difendere una minoranza etnica e religiosa oppressa dal regime di Milosevic, colpita brutalmente dalle sue milizie; ristabilire e tutelare diritti minimi di cittadinanza spezzati da una guerra interna. I comportamenti messi in atto dai governanti serbi possono venire assimilati ai «crimini contro l’umanità», definiti dopo il secondo conflitto mondiale dai protocolli di Norimberga e Tokyo. L’idea di giustizia non riguarda più, nel discorso di Habermas, soltanto i rapporti tra gli Stati. L’uso della forza arresta una catena di abusi e di delitti contro una comunità di individui assaltati, privati di ogni status giuridico, costretti alla fuga. Attraverso le armi può passare l’impegno per una cittadinanza universale; possono essere difese (almeno là dove è possibile) le sue regole. La legittimazione dell’intervento viene dedotta da princìpi di diritto internazionale vincolanti erga omnes, che trascendono la stessa Carta delle Nazioni Unite.12

Non so interpretare questi princìpi e neanche la raffigurazione di uno stato di necessità (raccolta da Kofi Annan), che induce ad intervenire contro gli omicidi di massa, se non nell’ottica di un moderno giusnaturalismo. Lo schema kelseniano della «contro-guerra», concepita come sanzione internazionale, si risolve quindi nell’idea di un diritto naturale alla salvaguardia della vita umana e della pace. Questo trova espressione nell’impianto giuridico e ideale dell’ONU, ma può in casi eccezionali andare oltre le sue regole scritte. Le condizioni perché ciò avvenga sono: anzitutto, la violazione ripetuta dei diritti umani fondamentali, che per il Kosovo era già stata accertata dagli organi dell’ONU; inoltre la multilateralità dell’intervento, non riconducibile all’interesse particolare di uno Stato; infine il suo carattere di extrema ratio, senza alternative. Questi requisiti di legittimità sono stati delineati più analiticamente da Cassese13 e riflettono rappresentazioni accolte da più parti nella primavera del 1999. Le conclusioni a cui egli giunge, nel vivo del conflitto, mi sembrano convergenti con quelle di Habermas.

Nonostante tutto, abbiamo visto che c’è una contraddizione interna al concetto di guerra giusta. L’azione bellica può essere paragonata ad una sanzione, ma è cosa diversa. Per la propria offensività indiscriminata, essa colpisce (è avvenuto in Kosovo, in Afghanistan, ma anche nella guerra contro il nazismo) individui innocenti, dei quali dovrebbe restaurare e tutelare i diritti umani violati. A questa obiezione, del tutto aderente al vero, non si può opporre che un interrogativo, cui bisogna rispondere non a priori, ma facendo i conti con ciascuna vicenda, attraverso un accurato esame dei fatti. Dobbiamo domandarci ogni volta: esiste un’altra via per fermare gli attacchi armati, per trasformare la guerra in un compromesso, e – se esiste – i suoi costi, in termini di vite e di diritti umani, sono maggiori o minori di quelli che derivano da una «contro-guerra»? Qui è la scelta. La discussione degli ultimi anni gira continuamente intorno a questo nodo. Con tutte le sue approssimazioni, l’idea della legittimità di un’azione bellica in quanto reazione proporzionata ad un torto implica una tendenza alla giuridificazione dell’uso della forza e lo circoscrive. La guerra giusta è pensabile solo in relazione ad un sistema normativo internazionale. Nelle posizioni di Bobbio, di Habermas, di Cassese, essa non si identifica mai con gli interessi di un solo soggetto statuale; né può essere decisa unilateralmente, a meno che non si tratti dell’autodifesa in senso stretto (ma anche in questi casi dovrebbe valere il limite posto dall’articolo 51, che prevede l’intervento sollecito del Consiglio di sicurezza). È la comunità internazionale o un suo organo riconosciuto che segna di regola la conformità dell'intervento militare al diritto. Questa linea di pensiero è stata definita da Habermas come «pacifismo del diritto».

Restano naturalmente estranee ad essa e sono anzi ai suoi antipodi le tesi di chi sostiene la legittimità della guerra preventiva contro minacce potenziali: una specie di autodifesa che si allarga a dismisura. Collocandosi in questa prospettiva, Henry Kissinger ha recentemente delineato i moventi e le ragioni di opportunità di un prossimo intervento militare degli USA contro l’Iraq, come seconda tappa possibile, dopo il conflitto in Afghanistan: «Il punto non è se Baghdad sia o no coinvolta nell’attacco terroristico agli Stati Uniti. La sfida è squisitamente geopolitica. L’Iraq è implacabilmente ostile agli Stati Uniti e ad alcuni paesi vicini. Possiede scorte crescenti di armi chimiche e biologiche, lavora alla bomba atomica, non lascia margini di negoziato con Washington né motivi per credere alle promesse fatte alla comunità internazionale. Se le sue forze restano intatte, un giorno potrebbero essere usate per obiettivi terroristici o sollevamenti regional-internazionali».14 In queste righe non c’è alcun riferimento al binomio responsabilità per gli atti terroristici-sanzione, che pure è stato usato (in Europa e dalle stesse autorità americane) per giustificare l’operazione militare contro il regime dei Talebani, organicamente legato alla rete di Al Qaeda. Siamo al di fuori dell’articolo 51, che prevede il ricorso all’uso della forza esclusivamente in risposta ad un attacco armato. La finalità di una nuova e decisiva azione anti-Iraq è disegnare un diverso e più vantaggioso spazio di influenza per gli Stati Uniti. Bellum utile, dunque. Il giusto non ha diritto di cittadinanza. L’ostentato realismo racchiude un giudizio di valore favorevole ad una iniziativa bellica unilaterale (gli alleati, come l’intendenza, possono seguire). È un’idea di guerra non nuova per le culture politiche di destra in Occidente. Fondata esclusivamente sul calcolo degli interessi, sulla politica di potenza, essa porta con sé rischi seri di regresso e di lacerazione del diritto internazionale.

 

 

Bibliografia

1 Essa si manifesta entro culture politiche definibili di sinistra. Due esempi, su cui torneremo: Norberto Bobbio e Jürgen Habermas.

2 Summa theologica 16, quaest. 40. Cfr. L. Bonanate, La guerra, Laterza, Bari 1998, p. 95 sgg.

3 De iure belli ac pacis 2, 22, 4 (l’opera, conclusa nel 1623, fu pubblicata per la prima volta a Parigi due anni dopo).

4 N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia 1991.

5 H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 336 sgg.

6 Bobbio, op. cit., p. 76.

7 Nel testo francese l’espressione è droit naturel e in quello inglese inherent right.

8 Ma anche, come si è visto, per il modo in cui essa è congegnata.

9 Bobbio, op. cit. p. 18.

10 B. Croce, L’Italia nella vita internazionale. Discorso pronunziato in Roma il 21 settembre 1944, Laterza, Bari 1944, p. 5 sgg.; e Quando l’Italia era tagliata in due: estratto di un diario (luglio 1943- giugno 1944), Laterza, Bari 1948, p. 17.

11 T. Mann, Doctor Faustus: la vita del compositore tedesco Adrian Leverkuhn narrata da un amico (1941), A. Mondadori, Milano 1968, p. 54 e 217.

12 J. Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, in AA.VV., L’ultima crociata?, «Reset», Roma 1999, p. 74 sgg.

13 Cfr. A. Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta, ivi, p. 25 sgg.

14 H. Kissinger, La seconda battaglia dell’America: l’Iraq, in «La Stampa», 13 gennaio 2002.