Democrazie bellicose

Di Gabriele Patrizio Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Al tempo della guerra del Golfo, all’inizio degli anni Novanta, non pochi osservatori si chiedevano se ci si trovasse di fronte al primo grande conflitto del dopo guerra fredda o, invece, all’epilogo concitato di quell’era contraddittoria di tensioni e distensioni – la lunga pace armata – che aveva caratterizzato l’ordine bipolare nella seconda metà del XX secolo. Ormai addentro nel primo decennio del XXI secolo, la guerra di lunga durata (o meglio lo Stato di belligeranza a largo spettro) che coinvolge la potenza principale, gli USA, e il fronte composito del fondamentalismo in armi, degli Stati fuorilegge e dei santuari del terrorismo globale (Afghanistan, Iraq, etc.), ripropone l’interrogativo se si sia aperta, – e quando – una nuova epoca dei conflitti nelle relazioni internazionali.

 

Al tempo della guerra del Golfo, all’inizio degli anni Novanta, non pochi osservatori si chiedevano se ci si trovasse di fronte al primo grande conflitto del dopo guerra fredda o, invece, all’epilogo concitato di quell’era contraddittoria di tensioni e distensioni – la lunga pace armata – che aveva caratterizzato l’ordine bipolare nella seconda metà del XX secolo. Ormai addentro nel primo decennio del XXI secolo, la guerra di lunga durata (o meglio lo Stato di belligeranza a largo spettro) che coinvolge la potenza principale, gli USA, e il fronte composito del fondamentalismo in armi, degli Stati fuorilegge e dei santuari del terrorismo globale (Afghanistan, Iraq, etc.), ripropone l’interrogativo se si sia aperta, – e quando – una nuova epoca dei conflitti nelle relazioni internazionali.

I dati elaborati dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) evidenziano che, nel corso dell’ultimo decennio del secolo si sono avuti 56 distinti conflitti armati definiti maggiori, tra interni e interstatali. Prendendo come termine di paragone il trentennio che va dal 1948 al 1980, anni della guerra fredda, tra guerre interne e internazionali si contano 62 conflitti maggiori. Come si vede, a semplice valutazione intuitiva, la frequenza appare relativamente alta per l’ultimo decennio. Questo dato però, vista anche la disomogeneità delle classificazioni, non sarebbe più di tanto significativo considerando che i veri conflitti interstatali nel periodo 1991-2000 sono stati solo tre (cinque nel decennio precedente 1980-1990). Degno di nota è invece che, dagli anni Novanta, si registra un aumento del numero dei conflitti con partecipazione diretta di una o più grandi potenze o coalizioni di potenze, pur se gli Stati principali non si scontrano più tra di loro come nell’epoca delle guerre per l’egemonia o per l’equilibrio.

La belligeranza delle grandi potenze si esprime nelle forme della restaurazione della legittimità internazionale in senso lato, come operazioni di ingerenza umanitaria, di peace enforcing e di antiterrorismo. Questo diritto di intervento che le potenze hanno avocato a sé sotto l’egida della sicurezza collettiva, ha rimesso in luce l’analogia storica del «concerto». David Calleo ha individuato nella politica delle coalizioni, richiesta dalla lotta al terrorismo globale e agli estremismi bellicosi, l’emergere di una architettura di ordine mondiale in una situazione di diffusione multipolare del potere. Il sistema del «concerto» però – la storia insegna – è apparso solo episodicamente e per brevi periodi negli ultimi due secoli. Il «concerto» infatti, in quanto sistema di sicurezza collettiva, si costituisce in occasione di una risposta degli Stati principali contro un potenziale egemone, un aggressore che mette in pericolo l’integrità e la legittimità della comunità degli Stati. Purtroppo tale coalizione centrale non sopravvive a lungo dopo la fine della guerra antiegemonica. Se gli incentivi alla cooperazione, infatti, diminuiscono, il senso della minaccia si attenua e i comportamenti delle potenze ritornano alle azioni unilaterali e alle usuali politiche di sicurezza. L’erodersi dello spirito di coalizione, anzi, innesca di solito un nuovo ciclo di tensioni e di bellicosità.

Il periodo cosiddetto di transizione, dal 1989 ai nostri giorni, andrebbe interpretato come una fase di «concerto», in cui il diritto di intervento militare delle potenze è finalizzato alla restaurazione delle condizioni minime di civiltà e di legittimità interna e internazionale. Ma, soprattutto dopo il Kosovo e la guerra afghana, va inquadrato come l’inizio di un ciclo di conflittualità e di militarizzazione della politica internazionale. Aspetti questi che, in coincidenza con la fine della guerra fredda, apparivano destinati a rarefarsi nella vita di relazione degli Stati. Se si tiene presente quanto rilevato in precedenza – e cioè che le fasi di «concerto» durano poco, raramente più di due decenni – essendo la fase contemporanea iniziata con la guerra del Golfo (1991), sembra verosimile che ci si trovi in prossimità di evoluzioni che preludono ad una rottura del fronte di sicurezza collettiva, a forme di competizione tra centri di potere, ai prodromi di un’epoca di insicurezza, sfida e confronto.

L’osservazione prevalente, a questo proposito, è che la differenza tra il «concerto» di epoche precedenti e quello del nuovo secolo risiede nella natura dei governi degli Stati principali: la maggior parte delle potenze sono oggi Stati liberali o per lo meno democrazie in fase di crescita e di consolidamento. Dagli anni Ottanta in poi, ha riscosso numerose adesioni (anche se il dibattito è sempre molto vivace) la tesi di Martin Doyle che riprendeva il noto argomento kantiano sulla natura pacifica degli Stati repubblicani. In breve, anche se gli Stati democratici sono coinvolti sovente in guerre, e quindi non sono meno bellicosi degli altri, quasi mai entrano in conflitto fra di loro. Di conseguenza, dato che le potenze, grandi e medie, sono per la maggior parte istituzionalmente democratiche, le probabilità di guerra, e tanto più di conflitti su larga scala, si sono di gran lunga ridotte rispetto al passato. Da questa teoria della pace democratica, sono poi stati sviluppati dei corollari sulla base dell’osservazione storica: e cioè le potenze democratiche non attaccano mai per prime e comunque vincono sempre le guerre in cui sono coinvolte con governi e attori dispotici o illiberali.

Il problema è che forse non viene adeguatamente valutato come le democrazie hanno vinto le loro guerre contro il dispotismo. Nell’epoca contemporanea le potenze liberali hanno guerreggiato (e vinto) contro Stati autoritari, in alleanza con altre potenze non democratiche. Dalla prima guerra mondiale (intesa con la Russia, Stato dispotico, contro gli Imperi centrali) ai conflitti post-89 (ad esempio le alleanze con le teocrazie del Golfo o con la dittatura militare del Pakistan). In quasi tutti i casi, i partner autoritari delle democrazie, diventano, in una fase successiva, loro nemici o rivali. In genere, questo cambio di ruolo, da alleato o allineato ad antagonista o nemico, apre una nuova fase di conflitto. Le alleanze delle democrazie quindi contemplano spesso legami con Stati dispotici e illiberali e il loro comportamento risponde alle leggi secolari della realpolitik e del machiavellismo diplomatico.

Non deve meravigliare pertanto, che anche l’ultima ondata di democratizzazione, iniziata negli anni Novanta, si sia accompagnata all’insorgere di frequenti conflitti anche con la partecipazione delle grandi potenze. Le democrazie non sono meno combattive degli Stati autoritari o totalitari, anzi storicamente i paesi di tradizione liberale combattono sovente contro gli Stati non democratici, perché il liberalismo non tollera una legittimità internazionale che non sia espressione di regimi legittimi, cioè democraticamente instaurati. Tuttavia affiora una contraddizione che è alla radice del diritto delle democrazie alla guerra. Infatti la qualità di Stato democratico non è un dato acquisito per sempre (ciò che, per esempio, sembrano dare per scontato Stati democratici «guerrieri» come Israele quando legittimano su tali basi il loro diritto all’uso della violenza armata). Il comportamento non democratico in politica estera di Stati costituzionali pluralisti – notava Luigi Bonanate – comporta un abbassamento significativo del loro rendimento democratico, della loro qualità di Stati liberali.

In definitiva, più si alza il livello della bellicosità che le democrazie rivolgono verso regimi e paesi percepiti come autoritari, più si appanna il loro status di nazioni liberali e più la loro azione internazionale, da veicolo di democratizzazione, quale esse la intendono, tende a conformarsi agli imperativi della ragion di Stato e della politica di potenza. Inoltre, gli Stati democratici «per postulato» non combattono contro i loro simili. Pertanto l’identificazione del nemico o dell’avversario avviene sempre con una negazione a priori della sua democraticità o, per lo meno, con un riconoscimento esplicito della sua diversità: «non è una vera democrazia liberale». Questo atteggiamento, che informa le mentalità collettive delle élites di governo e delle opinioni pubbliche, tende ad alimentare una propensione aggressiva od offensiva verso gli avversari che sono percepiti come non democratici. «Una democrazia liberale, in conflitto con un altro paese, molto difficilmente potrà definirlo democrazia liberale», come ha scritto Kenneth Waltz.

Bisogna peraltro constatare che i conflitti tra paesi democratici sono rari perché si sono rarefatti, fino ad annullarsi, i conflitti tra le grandi potenze e queste sono quasi tutte democrazie (anche se non sempre a pieno titolo). Dal 1945 – va notato – gli attori principali non hanno iniziato nessuna guerra contro potenze antagoniste. Ciò è dovuto ad una molteplicità di fattori, ai quali si può qui solo accennare. Innanzitutto le situazioni di deterrenza nucleare. In secondo luogo, la grande sperequazione di potere tra lo Stato leader, gli USA, e gli altri possibili competitori. E ancora, i processi di apprendimento delle élites di governo, per cui, dopo le grandi tragedie del Novecento, è apparso evidente ai più che una potenza rimane tale fino a che non va a verificare la consistenza del suo status nella prova di forza. In difetto di questa, la potenza può attraversare fasi di decadenza, può subire anche radicali mutamenti di regime, ma conserva le migliori chances di non essere privata del suo rango. Così anche una nazione come l’URSS, addirittura dissoltasi nella sua struttura statuale oltre che nella sua area di controllo, ha potuto perpetuarsi nella sua condizione di grande potenza senza vistose soluzioni di continuità.

Appare chiaro, inoltre, che le guerre hanno sempre avuto una funzione costituente, cioè hanno creato nuove gerarchie di potere tra le nazioni. La rarefazione dei conflitti fra le potenze ha reso, di conseguenza, la distribuzione del potere fra gli attori principali piuttosto stabile nel tempo. Dagli anni Settanta del Novecento, quando si è cominciato a parlare di multipolarismo e di nuovi attori sulla scena internazionale, le grandi potenze sono sempre le stesse e anche i candidati a ruolo di attore principale, sono pur sempre i medesimi, a cominciare dalla Cina e dall’Unione europea. In assenza di conflitti tra grandi nazioni, le gerarchie del potere cambiano molto più lentamente, ma non sono certo immobili. Il fatto che le potenze principali siano quasi tutte democrazie renderà anzi, in futuro, più dinamico il gioco delle alleanze e degli allineamenti, perché le linee di convergenza e di divisione sono più sfumate tra Stati con regimi omogenei piuttosto che fra Stati polarizzati da rigide appartenenze ideologiche come nel Novecento. Il punto di maggiore tensione, nell’atteggiamento pacifico delle democrazie, si verifica quando il numero degli Stati liberali e pluralisti diventa maggioritario come nel mondo odierno. Allora le democrazie diventano più esigenti e interventiste e diviene decisiva la percezione che le élites di governo e l’opinione pubblica hanno della natura e delle tradizioni democratiche di paesi rivali, che pure presentano una comune forma istituzionale. Questo interventismo (la considerazione riguarda innanzitutto la potenza di riferimento, gli USA), si rivolge spesso verso regimi non liberali ma non necessariamente bellicosi. Alla loro caduta fa seguito l’avvento di governi democratici fragili e instabili, a loro volta spesso insicuri e aggressivi. Questo processo modifica la percezione che gli Stati liberali hanno della natura democratica di paesi che non vantano una comune appartenenza storico-culturale. Inoltre, le alleanze che le potenze democratiche instaurano con regimi illiberali per motivi logistici o geostrategici (fondate sui paradigmi della realpolitik e della politica di potenza) sono spesso causa di ulteriori conflitti.

La diffusione delle democrazie (nel 2000 il 65% degli Stati) non comporta di per sé un consolidarsi dei comportamenti pacifici. Anzi, si va delineando un’altra linea di tendenza: più aumenta il numero delle potenze con regimi democratici, più si alza il loro tasso di aggressività. L’opposto di quanto la teoria aveva predetto: aumento dei regimi pluralisti, crescita della pace internazionale. Una ipotesi interpretativa deve focalizzarsi su uno dei fondamenti classici dello Stato costituzionale democratico. Ossia la divisione e quindi il bilanciamento dei poteri, l’esistenza di un sistema di checks and balances e le garanzie che ne discendono per l’essenza del metodo democratico: la composizione pacifica e ordinata dei conflitti sociali.

In passato, le potenze pur essendo in maggioranza imperi, Stati dinastici e dispotici, temperavano l’uso della forza da un bilanciamento di poteri divisi (l’equilibrio delle forze) che consentiva, per lo meno, una riduzione della bellicosità. Questa ponderazione dei poteri si è affievolita nel secolo delle ideologie, fino quasi a scomparire dopo l’89. Oggi vi è concentrazione del potere (militare, economico, finanziario, tecnologico) in una potenza preponderante (e nel suo blocco di alleati), pur se la più grande democrazia del mondo occidentale. La diffusione dei regimi democratici si è dunque associata ad un forte calo della divisione del potere nel sistema internazionale. Ciò ha reso le potenze democratiche più propense alle politiche di intervento e alle azioni preventive. Infatti, ad una legittimità internazionale garantita da una divisione dei poteri e da un sistema di pesi e contrappesi, si va sostituendo una legittimità comunitaria dei regimi democratici in cui è concentrato il fulcro della potenza. In tal caso, l’uso della forza, anche a titolo preventivo, è percepito come una regolazione di conflitti «interni» a una società delle democrazie ormai globalizzata. Probabilmente, il sistema meno o affatto bellicoso, sarebbe quello in cui vige una divisione dei poteri, delle capacità, dell’iniziativa, in più centri autonomi, a loro volta costituiti in regimi pienamente democratici. Ossia multipolarità vera più liberaldemocrazia. Ma le due condizioni non si sono ancora realizzate congiuntamente.

Gli Stati democratici non dovrebbero mai dimenticare che l’unica garanzia per scongiurare un’altra epoca di conflitti, è di ridimensionare, innanzitutto, quel «primato della politica estera» sopravvissuto alla fine di un’epoca (l’era moderna) che era iniziata con la sovranità forte degli Stati. Nel mondo odierno, sotto molti aspetti, la sovranità è divenuta più debole e porosa, e molto più permeabili sono le divisioni tradizionali tra politica interna e politica estera. Diventa, pertanto, sempre meno accettabile che il metodo democratico che governa la soluzione dei conflitti interni allo Stato, non trovi la sua naturale estensione anche alle politiche di sicurezza, al controllo dei meccanismi di azione/reazione, dove si può misurare il grado della stabilità internazionale. Il che significa anche ridare respiro e grandezza alle arti della diplomazia. Una diplomazia che può essere talora coercitiva laddove le contingenze lo impongano, ma che tenga sempre viva la consapevolezza che l’uso della forza, anche nei casi in cui appaia ammissibile, e tanto più se unilaterale, è pur sempre un momento tragico per le società liberali, una sconfitta del metodo e delle virtù democratiche.

È un segno che non appare benigno, fra l’altro, il fatto che la diplomazia del dopo guerra fredda si sia impoverita di temi, di approcci, di creatività e, forse, anche di talenti e che l’ultima grande stagione della diplomazia mondiale risalga ormai agli anni Settanta del secolo scorso. Le élites di governo degli Stati democratici – gli eventi di questa fase storica lo testimoniano – reagiscono all’insicurezza e alle minacce che provengono dal sistema con politiche bellicose, con azioni anche unilaterali, agendo non diversamente dagli Stati autoritari. Questi ultimi molto spesso reagiscono alla instabilità e alla debolezza interna con un atteggiamento offensivo in politica estera. L’emergenza del nemico esterno, la guerra e la conquista, d’altra parte, già argomentava il Rousseau, sono i puntelli esterni che consolidano i poteri dispotici.

Sarebbe importante, anche alla luce della bellicosità degli Stati democratici nel mondo contemporaneo, verificare fino a che punto e in che misura questo riflesso esterno possa interessare anche i paesi liberali. Se, dunque, gli aspetti di debolezza delle democrazie mature, ovvero le derive plebiscitarie e il crescere dei movimenti populisti, l’enfasi della videopolitica e la personalizzazione del confronto politico, l’erosione dei principi su cui poggia la divisione costituzionale dei poteri, le restrizioni ad alcune libertà fondamentali giustificate dalle emergenze di sicurezza interna (che offuscano lo Stato di diritto e la rule of law), si accompagnino ad un incremento della aggressività esterna di questi paesi. Il diffondersi del populismo, del personalismo, e lo sfuocamento del principio di rappresentanza che ne è sotteso, appaiono più spesso nelle fasi di crisi e di tensione dei sistemi costituzionali democratici. Non deve quindi sorprendere che, in quanto espressioni di disagio nel corpo sociale e di un certo squilibrio nell’assetto dei poteri (in generale di situazioni di incertezza e insoddisfazione riguardo al funzionamento delle società democratiche), tali tensioni possano tradursi in un aumento dell’interventismo esterno delle potenze liberali e in una spinta bellicosa che sembra accomunare vari tipi di regime, democratici e non, nei momenti di instabilità politica e di malessere delle istituzioni.