L'invenzione dell'opinione pubblica

Di Massimiliano Panarari Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

«Opinione pubblica», quante volte ci capita di leggere o di usare comunemente e con familiarità questa espressione, perfetto esempio di quanto uno dei maggiori storici della contemporaneità, Eric J. Hobsbawm, non avrebbe, invece, esitato a definire l’«invenzione di una tradizione»? Un concetto per noi alquanto «scontato», ma dalla genesi lunga e complessa, che trova un affresco magistrale nel libro – da riscoprire e rileggere – dello statunitense Walter Lippmann intitolato «L’opinione pubblica», un autentico classico, pieno di intuizioni geniali e pionieristiche e attualmente un po’ trascurato, degli studi sulla comunicazione e la formazione delle «visioni del mondo» poste all’origine delle società contemporanee dell’Occidente.

 

«Opinione pubblica», quante volte ci capita di leggere o di usare comunemente e con familiarità questa espressione, perfetto esempio di quanto uno dei maggiori storici della contemporaneità, Eric J. Hobsbawm, non avrebbe, invece, esitato a definire l’«invenzione di una tradizione»? Un concetto per noi alquanto «scontato», ma dalla genesi lunga e complessa, che trova un affresco magistrale nel libro – da riscoprire e rileggere – dello statunitense Walter Lippmann intitolato «L’opinione pubblica», un autentico classico, pieno di intuizioni geniali e pionieristiche e attualmente un po’ trascurato, degli studi sulla comunicazione e la formazione delle «visioni del mondo» poste all’origine delle società contemporanee dell’Occidente. Un testo che possiamo senz’altro equiparare ed anteporre, innanzitutto per ragioni temporali, ad un’altra opera esemplare degli studi sulla materia, la «Storia e critica dell’opinione pubblica» del grande sociologo e filosofo tedesco Jürgen Habermas.1 Quest’ultimo nel redigerla non si avvalse, piuttosto curiosamente, delle intuizioni e delle tesi dello scrittore newyorkese, ulteriore testimonianza, assai probabilmente, della difficoltà di questo studio a sfondare – anche per la sua atipicità ed «irregolarità» – nell’ambito delle scienze sociali europee più codificate e «disciplinate».

Lippmann – geniale pubblicista e uomo politico, scienziato della politica e fine columnist – è stato un intellettuale multiforme e versatile come pochi, spesso inclassificabile, sempre brillante ed originale, qualcosa di molto lontano, insomma, da certuni «chierici» italiani dei nostri giorni – collocati quasi sempre, se non esclusivamente nel centrodestra – che si sforzano di orientare o rispecchiare l’opinione pubblica. L’autore americano ha la capacità spontanea e profonda di precorrere gli scenari a venire e di andare controcorrente ogni qual volta si riveli a suo giudizio necessario.

Nel 1922 vede, dunque, la luce un libro2 che fotografa per la prima volta con un’efficacia e una chiarezza considerevoli il fenomeno dell’insorgere dell’opinione pubblica, autentica novità con cui si erano trovati a dover fare i conti in quegli anni del «secolo breve» le democrazie liberali dell’Occidente; e che diventerà ostaggio, di lì a poco, dei dottor Stranamore criminali e degli «apprendisti stregoni» alla guida dei regimi totalitari degli anni Trenta. Tale evento matura proprio durante il progressivo abbandono della cornice liberale e liberista che aveva visto il sorgere dei grandi quotidiani e settimanali in Europa ed America, a causa della mancata rinuncia dello Stato alle sue nuove propensioni interventiste (fondamentalmente dovute all’imposizione della censura militare e di un ferreo controllo sulle informazioni per «mantenere alto il morale» delle popolazioni nazionali in tempo di guerra), da un lato, e all’espansione dei trust, i quali si estendono progressivamente – e ferocemente – alla proprietà editoriale, dall’altro3 (nella Repubblica di Weimar come nell’Italia giolittiana, in Francia come in Inghilterra).

Se dovessimo, quindi, trovare dei genitori putativi per l’opera lippmanniana, potremmo asserire che il testo pubblicato dall’editore newyorkese Macmillan appare figlio, al medesimo tempo e a pari grado, delle trincee della Grande guerra e della skyline della «Grande mela». Dal proprio «osservatorio privilegiato» di componente del gabinetto di guerra del governo degli Stati Uniti, questo intellettuale «prestato alla politica» (peraltro proprio in qualità di viceministro alle attività belliche), sperimenta direttamente, come notava Nicola Tranfaglia nell’introduzione alla versione italiana del testo di Lippmann,4 l’influenza crescente acquisita dai mezzi di comunicazione di massa in seguito al primo conflitto mondiale – oltre all’impressionante campagna di manipolazione della verità messa in atto dai giornalisti del proprio paese, autentici e menzogneri spin doctors ante-litteram – per giustificare l’intervento. La drammatica realtà dello scontro e dei valli fortificati, della guerra di posizione e delle (fino ad allora) sconosciute armi di distruzione di massa, in sintesi del conflitto «totale e globale» che investe l’intero pianeta, teatro dello scontro finale tra le potenze imperialiste protagoniste della prima globalizzazione, sconvolgerà la prassi e la teoria politica dei decenni a venire del Novecento. Al cospetto degli enormi sacrifici umani e dell’inusitato esperimento di socializzazione politica che si compie nelle ridotte tra uomini che avvertono per la prima volta, in quel terribile contesto bellico, di appartenere allo stesso corpo nazionale, le élite liberali agevoleranno i primi processi di democratizzazione e di integrazione istituzionale delle classi popolari, in gran parte sfociati nell’allargamento del suffragio e del diritto di voto. Si tratta dell’irruzione, all’interno dei sistemi politico-costituzionali occidentali, della dimensione della politica di massa. Non a caso Lippmann, studioso antesignano delle dinamiche della mass-society e dei mass-media, risulta imbevuto di cultura positivistica. Egli si rivela un attento conoscitore di quanto viene prodotto nell’ambito della psicologia delle folle – disciplina assai in voga a cavallo tra i due secoli, i cui esponenti principali, da Le Bon a Tarde, erano estremamente popolari in seno alla comunità intellettuale internazionale – come pure della psicanalisi freudiana e della psicologia del profondo (da Alfred Adler a Carl Gustav Jung), nonchédel pensiero filosofico (Henri Bergson) e politico – specialmente pluralista5 – a lui coevo (al punto da dedicare un intero capitolo del libro alla disamina critica delle varie forme di guild socialism e «socialismo corporativo» che godevano allora di notevole reputazione in seno alla sinistra anglosassone). «L’opinione pubblica» ci appare, del resto, un testo assai colto, ricolmo di citazioni e riferimenti – soprattutto all’antichità classica greco-romana, come era consuetudine di gran parte delle classi dirigenti statunitensi – e scritto in un linguaggio che sa essere spesso immaginifico e brillante, rivelandosi debitore delle categorie concettuali della sociologia e delle «scienze dello spirito» dell’epoca.

Similmente, il volume non poteva che nascere nella metropoli in cui la società di massa viene forgiata e trova il proprio laboratorio per eccellenza, vale a dire la New York di vetro e acciaio, la sconfinata città modernista dei grattacieli liberty e neogotici di inizio Novecento, la «foresta dei simboli», come ha scritto il sociologo Marshall Berman, dove si realizza l’«esperienza della modernità»6 del Nuovo mondo.

Lippmann guida il lettore, in maniera davvero profetica, alla scoperta dei meandri e dei labirinti dell’universo in formazione dei mezzi di comunicazione di massa, in virtù dei quali le idee individuali e i pensieri dei singoli vengono «magicamente» convertiti in astratte ma sondabilissime nuove grandezze e immagini «mitologiche»: la «volontà nazionale», la «mente collettiva», il «fine generale» o «sociale» e, per l’appunto, l’«opinione pubblica». Lo studioso delinea le tematiche e i punti essenziali sottesi: dalla questione della sfera pubblica, dalla mistificazione della realtà operata direttamente dallo Stato per una pluralità di ragioni – ancora una volta, a partire da un contesto di guerra – agli ostacoli di natura socio-economica e culturale che si frappongono all’accesso all’informazione per talune classi di cittadini, sino all’osservazione delle motivazioni (prevalentemente di carattere psicologico) che inducono un individuo a ricercare notizie su quanto accade al di fuori del proprio microcosmo esistenziale di riferimento. E si sforza infine di enucleare, con lucidità considerevole, i fondamenti di una teoria democratica della comunicazione. Essa è edificata sull’idea di un’informazione indipendente e quanto più possibile «oggettiva» – i massmedia «cani da guardia» della democrazia, secondo una visione tipicamente «a stelle e strisce» – che racconti senza complicità, né timori reverenziali, l’operato dei ceti dirigenti, così da consentire all’elettorato e alla cittadinanza di votare e fare serenamente le proprie valutazioni. Naturalmente, Lippmann è fortemente consapevole dei connotati alquanto utopici di tale aspirazione, ma non rinuncia a svelare e sottolineare questioni fondamentali quali la strutturazione del consenso nell’ambito delle società di massa mediante il controllo dei circuiti della comunicazione, l’esigenza di un giornalismo che si ponga alla stregua di servizio pubblico, l’importanza dell’autoorganizzazione della società civile per allargare diritti ed opportunità, il nesso tra economia – e sue oligarchie – e libertà di stampa e di informazione, tanto rilevante da poter svuotare e vanificare quest’ultima.

In un tempo e in un paese come il nostro, nel quale l’urgenza di correre ai ripari di fronte a un incredibile e inaudito monopolio dell’informazione è sotto gli occhi di tutti, Walter Lippmann rivela oggi tutta la propria straordinaria attualità. L’intellettuale americano ci invita a porre al centro la dimensione della responsabilità pubblica7 ed evidenzia, con ben più di un pizzico di disincanto e di pessimismo, tutta la fatica che occorre per farla digerire e renderla accettabile da parte di ciascun cittadino (e uomo della strada...). Questo teorico liberaldemocratico,8 come direbbe Danilo Zolo, propone un paradigma realistico di democrazia di cui abbiamo bisogno per ripensare quella componente imprescindibile delle nostre società complesse che coincide con i meccanismi di normazione e governo del sempre crescente flusso di informazioni. E, contemporaneamente, ci dà una lezione assai utile sulle regole della comunicazione politica, da cui anche la sinistra potrebbe trarre più di un’ispirazione e di una suggestione utile.

 

Walter Lippmann

L’opinione pubblica

Tutte le collettività complesse hanno cercato l’aiuto di individui speciali, di àuguri, preti, anziani. La nostra stessa democrazia, benché basata su una teoria della competenza universale, ha cercato avvocati che amministrassero il suo governo e aiutassero ad amministrare la sua industria. Si ammetteva che l’individuo fornito di una preparazione speciale era vagamente orientato verso un sistema di verità più ampio di quello che sorge spontaneamente nella mente del dilettante. Ma l’esperienza ha dimostrato che la preparazione tradizionale dell’avvocato non era un aiuto sufficiente, la Grande Società è cresciuta furiosamente, raggiungendo dimensioni colossali grazie all’applicazione delle conoscenze tecniche. È stata costruita da ingegneri che hanno imparato a usare misure precise e l’analisi quantitativa. Gli uomini hanno cominciato a scoprire che non poteva essere governata da individui che ragionassero per deduzione sui diritti e i doveri. Poteva essere posta sotto il controllo umano solo dal tecnico che l’aveva creata e quindi un po’ alla volta le menti direttive più illuminate si sino rivolte a esperti che erano stati preparati, o che si erano preparati, a rendere alcuni settori di questa Grande Società comprensibili a quelli che la dirigono. Queste persone vengono chiamate con vari nomi, statistici, contabili, controllori dei conti, consulenti industriali, ingegneri di varie specie, amministratori aziendali scientifici, dirigenti del personale, ricercatori, «scienziati» e talvolta semplicemente segretari particolari. Ognuno ha portato con sé un suo gergo, nonché schedari, archivi, grafici, agende e quaderni, e soprattutto l’ideale sensatissimo del dirigente seduto davanti a una scrivania piana, con un solo foglio dattiloscritto davanti a sé, che decide su questioni d’indirizzo presentategli in forma adatta a un’immediata approvazione o a un immediato rifiuto.

Tutto questo sviluppo è stato frutto non tanto di un’evoluzione creativa spontanea, quanto della cieca selezione naturale. Lo statista, il dirigente industriale, il capo partito, il capo di un’associazione volontaria, scoprirono che per poter discutere un paio di dozzine di argomenti diversi nel corso di una giornata, doveva esserci qualcuno  che desse loro l’imbeccata. Cominciarono a pretendere dei promemoria. Scoprirono di non poter leggere la loro posta. Pretesero che qualcuno sottolineasse i brani interessanti delle lettere importanti. Scoprirono di non poter digerire le grandi pile di relazioni dattiloscritte che ingiallivano sulle loro scrivanie. Ne pretesero dei riassunti. Scoprirono di non poter leggere colonne interminabili di cifre. Abbracciarono l’individuo che le trasformò in immagini colorate. Scoprirono di non poter davvero distinguere una macchina dall’altra. Assunsero ingegneri per sceglierle e per dir loro quanto costavano e che cosa erano in grado di fare. Si liberarono di un peso dopo l’altro, come colui il quale, quando si sforza di spostare un peso poco maneggevole, comincia a togliersi il cappello, poi la giacca, poi il colletto.

Stranamente, però, pur sapendo di aver bisogno di aiuto tardarono a chiamare lo scienziato sociale. Il chimico, il fisico, il geologo ebbero accoglienze più tempestive e amichevoli. Si istituirono per loro dei laboratori, gli si offrirono allettamenti, perché si erano apprezzate subito le vittorie sulla natura. Ma lo scienziato che ha per problema la natura umana è un caso diverso. Le ragioni sono molte: la principale è che ha ben poche vittorie da mostrare. Ne ha così poche perché, se non si rivolge al passato storico, non è in grado di dimostrare le sue teorie prima di offrirle al pubblico. Lo scienziato fisico può fare un’ipotesi, sottoporla a prove, modificare l’ipotesi centinaia di volte, e, se dopo tutto questo scopre di aver sbagliato, nessun altro deve pagarne il prezzo. Ma lo scienziato sociale non può in alcun modo offrire la sicurezza di una prova di laboratorio, e se il suo consiglio viene seguito, ed è sbagliato, le conseguenze possono essere incalcolabili. Per forza di cose egli è molto più responsabile, e molto meno certo.

C’è di più. Nelle scienze sperimentali lo studioso ha superato il dilemma tra pensiero e azione. Infatti può portare un campione dell’azione in un posto tranquillo, dove può essere ripetuto a volontà, ed esaminato comodamente. Mentre lo scienziato sociale si trova continuamente stretto da un dilemma. Se rimane nella sua biblioteca, dove ha tutto l’agio di pensare, deve affidarsi alla scarsa e occasionale documentazione stampata che gli arriva attraverso le relazioni ufficiali, i giornali e le interviste. Se esce nel «mondo» dove accadono i fatti, deve sottoporsi a un lungo, spesso dispersivo tirocinio prima di essere ammesso ai luoghi riservati dove vengono prese le decisioni. Quello che non può fare è tuffarsi nell’azione e poi uscirne a suo talento. Non ci sono osservatori privilegiati. L’uomo d’affari, osservando che lo scienziato sociale conosce solo dall’esterno ciò che egli conosce, almeno in parte, dall’interno e riconoscendo che l’ipotesi dello scienziato sociale non è per sua natura suscettibile di prove di laboratorio, e che la verifica è possibile solo nel mondo «reale», si è fatto un’opinione piuttosto bassa degli scienziati sociali che non condividono le sue vedute sugli indirizzi politici.

In cuor suo lo scienziato sociale condivide questo giudizio di sé. Ha poca fiducia nel proprio lavoro: ci crede solo a metà, e non essendo sicuro di nulla, non trova una ragione impellente per difendere la sua libertà di pensiero. In coscienza, che pretese può avanzare al riguardo?9 I suoi dati sono incerti, i suoi strumenti di verità lasciano a desiderare, le stesse sue qualità migliori sono fonti di frustrazione. Infatti se ha davvero tempra di critico, ed è imbevuto di spirito scientifico, non può essere dottrinario e scendere sul campo di Armageddon contro gli amministratori delle università, gli studenti, le leghe civiche e la stampa conservatrice in nome di una teoria di cui non è sicuro. Se si va ad Armageddon, è per battersi in nome del Signore, ma lo scienziato politico dubita sempre un po’ che il Signore l’abbia chiamato. Di conseguenza, se tanta parte della scienza sociale è apologetica invece che costruttiva, la spiegazione sta nelle possibilità concrete della scienza sociale, e non nel «capitalismo». Gli studiosi di scienze naturali si sono affrancati dal clericalismo elaborando un metodo che portava a conclusioni che non potevano essere soppresse o ignorate. Convinsero se stessi e acquistarono dignità, sapendo bene per cosa si battevano. Lo scienziato sociale acquisterà dignità e forza solo quando avrà elaborato il suo metodo. Ci riuscirà se sarà capace di tramutare in concrete possibilità il bisogno dei dirigenti della Grande Società di possedere strumenti di analisi che rendano intelligibile un ambiente invisibile e formidabilmente difficile. (…) Questi studiosi della vita pratica sono i veri pionieri di una nuova scienza sociale. Sono «ingranati nelle ruote motrici»10 e sia la scienza che l’azione si avvantaggeranno in modo radicale da questo loro connubio operativo: l’azione trarrà benefici dalla chiarificazione dei suoi presupposti; i presupposti la trarranno dalla continua verifica dei fatti.

Da W. Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli editore, Roma 1999.

 

Chi è Walter Lippmann? Figura poliedrica, Lippmann (New York, 1889-1974) ha rappresentato una delle penne più interessanti e intelligenti dell’America del suo tempo; inizialmente socialista, si spostò poi su posizioni via via sempre più liberal. Saggista, giornalista, politico repubblicano – nel senso progressista e rooseveltiano – (sottosegretario aggiunto alla Guerra nel 1917, componente della delegazione USA alle trattative di pace di Versailles seguite alla conclusione della prima guerra mondiale), diresse il prestigioso «New Republic» dal 1914 al 1918 e il «World», e fu uno degli editorialisti principi del «New York Herald Tribune», nonché di svariati altri quotidiani e periodici statunitensi. Scrisse numerosi libri, tra i quali «Public Opinion» (1922), «The Phantom Public» (1925), «The Good Society» (1937), «US Foreign Policy: Shield of the Republic» (1943), «The Cold War» (1948), «The Public Philosophy» (1955).

 

 

 

Bibliografia 

1 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2002.

2 Si riportano di seguito alcuni brani nei quali, tra le altre, si affacciano diverse riflessioni di vero interesse sullo statuto ed il ruolo dello scienziato sociale.

3 A. Cavallari, La fabbrica del presente. Lezioni d’informazione pubblica, Feltrinelli, Milano 1990.

4 N. Tranfaglia, Prefazione a W. Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 1999.

5 Al riguardo, un’avvincente ricostruzione di come la teoria politica – innanzitutto francese, ma più in generale europea ed anglosassone – pensa la democrazia si può trovare nel libro di Pierre Rosanvallon, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Gallimard, Paris 1998.

6 M. Berman, L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985.

7 W. Privitera, Sfera pubblica e democratizzazione, Laterza, Roma-Bari 2001.

8 D. Zolo, Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992.

9 Cfr. C.E. Merrion, The Present State of the Study of Politics, in «American Political Science Review», 15, 2 maggio 1921.

10 Cfr. il discorso tenuto il 28 dicembre 1920 dal presidente dell’American Philosophical Association, Ralph Barton Perry. È stato pubblicato negli atti del ventesimo Congresso annuale.