L'Europa e la guerra

Di Biagio De Giovanni Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

La guerra torna a portar scompiglio nel progetto europeo, in un momento delicatissimo della sua costruzione. A dare un primo sguardo agli avvenimenti in corso si riceve l’impressione di quello che può apparire un vero e proprio paradosso: da un lato, il lavoro della Convenzione che la guerra non ha affatto bloccato, anzi. Giscard d’Estaing ha confermato che la conclusione dei lavori avverrà secondo previsione: per la fine di giugno il testo del nuovo trattato costituzionale dovrebbe esser pronto, sul tavolo di una conferenza dei governi che ne sarà vincolata come non mai prima, se si pensa non solo al lungo dibattito preparatorio ma sopratutto alla rappresentatività della Convenzione che vi sta lavorando.

 

La guerra torna a portar scompiglio nel progetto europeo, in un momento delicatissimo della sua costruzione. A dare un primo sguardo agli avvenimenti in corso si riceve l’impressione di quello che può apparire un vero e proprio paradosso: da un lato, il lavoro della Convenzione che la guerra non ha affatto bloccato, anzi. Giscard d’Estaing ha confermato che la conclusione dei lavori avverrà secondo previsione: per la fine di giugno il testo del nuovo trattato costituzionale dovrebbe esser pronto, sul tavolo di una conferenza dei governi che ne sarà vincolata come non mai prima, se si pensa non solo al lungo dibattito preparatorio ma sopratutto alla rappresentatività della Convenzione che vi sta lavorando. Dall’altro lato, però, mai come oggi l’Europa è apparsa divisa su scelte drammatiche e di grande impatto e di decisiva importanza per la loro natura politica: la guerra, il rapporto con l’America, e si potrebbe dire – se non si temesse di usare un’espressione sopra le righe – la sua «lettura» del mondo. Può essere essenziale partire da questo paradosso, che, sia pure in forme diverse e attenuate, si è presentato altre volte nel lungo processo della costruzione europea: in forma prolungata, ad esempio, si manifestò fra 1958 e 1968, «invenzione» e sviluppo del mercato comune consule De Gaulle. In questo senso, la mia opinione è che non si tratti di un paradosso lacerante, che quasi prepara una fase di crisi epocale del progetto; esso dimostra piuttosto un dato che la drammaticità degli eventi mette sotto un fascio di luce particolarmente intenso e concentrato: la discrasia, lo squilibrio fra politica e istituzioni, il rinascere imprevisto e violento della politica sotto l’urto degli eventi, non come politica europea, ma legata alla dimensione degli Stati nazionali, quasi a volerne aspramente rappresentare l’interesse dominante, o almeno l’immagine di come essi interpretano il modo, dal punto di vista di ciascuno, di «stare» in Europa; una distinzione che sembra in parte placarsi allorché il progresso del sistema istituzionale sembra quasi aggirare la politica, stabilendo delle «forme» che rimangono in attesa di doversi riempire di un contenuto concreto. Per essere ancora più esplicito: è possibile che la Convenzione raggiunga infine un buon risultato nella scrittura del trattato costituzionale, nonostante l’Iraq, ma rimarrà da domandarsi il rapporto fra questo testo e  l’effettiva esistenza politica dell’Unione europea.

Sulla cosa non si può fare semplicemente ironia, come per dire: altro sono le forme istituzionali (e magari i grandi obiettivi, segnalati nei trattati e non realizzati), altro la dura concretezza delle scelte politiche. Sicuramente un atteggiamento simile sarebbe profondamente errato. La dimensione istituzionale europea, nella sua processualità, ha una profonda concretezza politica, avendo introdotto una dimensione che non si è affatto arrestata ai confini degli Stati nazionali, ma li ha penetrati costituendo uno spazio istituzionale in un certo senso sovrano oltre di essi, e comunque tale da disegnare la parte sempre più significativa di un loro comune destino. Dunque, non si intende contrapporre un piano «istituzionale» e non politico, dove agisce la dimensione comune, a un altro tutto politico, dove l’asprezza delle scelte riconduce a visioni più immediate del «proprio» interesse, e alla necessità di governarne in conseguenza la rappresentazione. Sarebbe una bella ingenuità considerare questo discorso esauriente, e tuttavia un dato va ribadito: quella discrasia fra istituzioni e politica, da cui muove il mio ragionamento, non si può semplicemente rigettare come non significativa. Si può dire inizialmente, intorno a essa, che esistono diversi livelli di intensità dell’esistenza politica, quelli che servono per la costruzione e il «normale» governo di un sistema istituzionale e che talvolta appaiono mascherati dentro una dimensione puramente tecnica, conducendo spesso il ragionamento in una visione impolitica della costruzione europea; e quelli che incontrano «l’eccezionalità» di una decisione da prendere, esemplarmente rappresentata dalla decisione relativa alla guerra. Questo approccio al problema può essere interessante, chiamando in causa vecchie categorie schmittiane relative alla sovranità. Si può dire, insomma: quando ci si trova di fronte allo «stato d’eccezione» allora la forma europea della sovranità non riesce a funzionare, e ciascuno Stato riconquista la propria originarietà e autonomia, fino a separare l’interpretazione del «proprio» interesse da quello di altri Stati con i quali pure esiste un progetto comune e perfino, come dicevo, gli elementi di un destino comune. Rimanendo nei confini anche lessicali di questa argomentazione, si potrebbe concludere con la seguente domanda: come far coincidere, in Europa, sovranità «normale» con sovranità «eccezionale»? Come giungere a quel punto alto dell’esistenza politica di una realtà, di un sistema, in cui eccezione e normalità non si contrappongono più seccamente? O insomma, come alzare fino al suo livello più alto l’esistenza politica dell’Europa?

Il problema di questa discrasia relativa fra istituzioni e politica – intesa come ho cercato di esprimerla brevemente – è tutt’altro che nuovo nella riflessione intorno alla costruzione dell’Europa unita. Le categorie che usava Joseph Weiler già nel 1985, in un celebre saggio, erano di questa natura. La discrasia fra «sovranazionalità normativa» e «sovranazionalità decisionale» a favore della prima rifletteva esattamente questa natura del rapporto fra dimensione istituzional-normativa e dimensione politico-esistenziale, tale da dar vita a una sorta di crescita asimmetrica che tendeva a favorire nettamente la prima rispetto alla seconda. Ma è interessante trasferire anche lessicalmente questo problema sul contrasto normalità-eccezione – il che implica portare sui suoi margini estremi la distinzione di Weiler – giacchè in questo modo si tocca il punto ultimo del contrasto interno al principio di sovranità, e forse il ragionamento può fare qualche passo in avanti ed entrare in pieno nell’attualità. Il mutamento della natura del problema sta anche nel mutamento della congiuntura storica che attraversa il mondo. Il passaggio più semplice e insieme più comprensivo e anche drammatico è nella nuova attualità della questione della guerra, oltre la stessa congiuntura irachena. Voglio dire che il principio di una guerra di tipo nuovo è entrato in pieno in quella che vorrei chiamare la costituzione materiale del mondo. Non si tratta di un rischio generico, né soltanto di una riflessione d’orizzonte sulle contraddizioni interne ai processi globali; quanto piuttosto dell’insorgere di un elemento di profonda rottura della comunità internazionale e della sua medesima idea, dal momento in cui individui-potenza hanno affiancato gli Stati-potenza, muovendosi su terreni trasversali, tragicamente insidiosi, e in grado di mettere in ginocchio l’entità statale su cui c’è una decisione d’intervento. La natura della guerra – e con essa la natura del mondo storico – è mutata, e la vicenda dell’11 settembre ne è definitiva riprova: la guerra non è più soltanto guerra fra Stati, ma assume gli stessi caratteri informi – sformati – che si colgono in (e giungono da) un mondo dove vecchie frontiere si sono interrotte e gli spazi si sono radicalmente disorganizzati e sono in via di alterazione. La conseguenza è dirompente: il principio stesso di comunità internazionale è messo in discussione, come in discussione è la possibilità di preservare l’equilibrio mondiale attraverso le relazioni interne al grande concerto di nazioni rappresentato, esemplarmente, dall’ONU. La fuoriuscita della potenza dai confini degli Stati è il dato più tragico dell’attualità, quello che rinnova una sorta di «stato di natura» (nel senso hobbesiano del termine) rispetto al quale l’intensità della decisione torna a diventare essenziale.

Questo breve passaggio mi sembra significativo per lo sviluppo del ragionamento. Esso può consentire di argomentare la ragione per la quale i termini di «normalità» ed «eccezionalità» si attagliano meglio alla rappresentazione dello stato attuale delle cose e possono tornare a disegnarne alcuni tratti. La ragione è nel fatto che la decisione su quello che Schmitt chiamava «stato di eccezione», ovvero sulla guerra, torna a far parte dell’orizzonte mondiale, e correlativamente della rappresentazione degli interessi nazionali e delle forme di sovranità sovranazionale. Insomma, quella «sovranità» decisionale, di cui parlava Weiler con riferimento a uno spettro assai largo di decisioni, che peraltro permane, può nuovamente doversi concentrare sulla durezza di una decisione eccezionale. Che la divisione dell’Europa sia stata sulla guerra in Iraq; che questo problema abbia riposto una lettura degli «interessi nazionali» in forma seccamente distinta; oppure, se si vuole, che paesi diversi abbiano interpretato la coincidenza fra interesse europeo e interesse nazionale secondo logiche e rappresentazioni diverse, tutto questo appare intrinsecamente legato alla natura della decisione, al fatto che su questo passaggio estremo l’esistenza politica dell’Europa si è divisa, come se da un lato non esistesse una forma di sovranità che consenta di collocare unitariamente la sua realtà di fronte alla guerra, e dall’altro la forma del mondo attuale accentuasse invece di ridurre le differenze e le distanze perfino sulla lettura del mondo, sulla interpretazione delle sue contraddizioni e dunque sul conseguente modo di agire. Sullo sfondo, il grande e storico nodo del rapporto Europa-America con tutte le sue complicate connessioni.  Ora, in effetti, non esiste nessun luogo «europeo» dove la guerra può essere decisa, e nell’attuale situazione del mondo questo dato aggrava enormemente il deficit di esistenza politica dell’Europa. La decisione sulla guerra è il luogo in cui le costituzioni nazionali riconquistano in pieno la loro compatta specificità.

Ora, in presenza di una crisi profonda della comunità internazionale, e dell’accentuazione di una dimensione asimmetrica del mondo, si potrebbe intravedere una crisi decisionale della dimensione sovranazionale, un ritorno della statualità come unica capace di intervenire nella dimensione dell’eccezionalità, giacché potrebbe apparire che solo la dimensione statuale sia capace di rispondere alla nuova congiuntura rimettendo in campo l’aspetto più intenso della propria sovranità. Questa risposta – che ha una immanente logica – tuttavia non appare soddisfacente, se si pensa che alla trasversalità dell’individuo-potenza – elemento di dirompente novità che germina dalla dimensione mondiale del terrorismo – non ci si può accontentare di contrapporre seccamente il ritorno della capacità statuale di decisione, se non rischiando impotenza (che può coincidere anche con eccesso di potenza) e regressione. Una risposta, insomma, che sembra soddisfare l’immediatezza, ma che non prepara gran che di un futuro le cui linee di movimento sono intensamente comprese nell’attualità. In sostanza, sembra che si sia di fronte a un dilemma che comprende molti «corni»: intensificazione della volontà sovrana che si attaglia piuttosto agli Stati; insufficienza della sua capacità di decisione e della sua forza a produrre effetti; problematicità del rapporto fra sovranazionalità e decisione sull’eccezione nel senso indicato; sensazione di impotenza, infine, sia della capacità statale di decisione sia dell’incerta «sovranità» sovranazionale di cui è stata perfino messa in discussione l’esistenza. Ci troviamo, insomma, in presenza di un groviglio di problemi che qui possono essere solo sommariamente disegnati. Ma vorrei cogliere l’occasione per tornare a rivendicare la centralità della questione «sovranità», che ho fortemente rivendicato in un lavoro recente, come questione niente affatto obsoleta in rapporto alla costruzione dell’Europa politica. In realtà, molte cose sembrano ormai annodarsi intorno alle risposte che si riusciranno a dare a quel problema. Un elemento dell’attualità sta certamente nella controprova, che giunge da molte parti, che il nesso sovranità-politica, intorno al quale si è annodata la storia dell’Europa moderna, non sia un residuo archeologico, ma un tema che merita sia attenzione teorica sia forte capacità di rappresentazione pratica nel quadro delle dirompenti novità che accompagnano la storia contemporanea.

Vorrei aggiungere un altro elemento di riflessione specificamente dedicato all’Europa, prima di tentare di giungere a qualche conclusione. Fra l’Europa e l’idea di pace è esistito sempre un rapporto assai intenso, per ragioni che attengono alla nascita medesima del progetto comunitario negli anni Cinquanta dello scorso secolo, talmente intenso, da essere vero e proprio principio costituente dell’avvio della costruzione europea. Talmente intenso, si potrebbe aggiungere, da condizionare con una profondità, che va comunque compresa, anche il dibattito attuale. Europa e pace sembrano principii che non possono non procedere insieme, al punto che soprattutto in quella Germania che ha inteso risollevare il proprio onore distrutto da Auschwitz il tema della «pace perpetua» è tornato a dominare sia la riflessione sia la sensibilità comune: si pensi solo alle influentissime riflessioni di Habermas, giunto infine a un totale universalismo neokantiano o, con cortocircuito politico, alle posizioni del governo Schroeder sull’Iraq, che non considero puramente strumentali ed elettoralistiche. Che cosa accadrà di questa tensione costruttiva nelle trasformazioni di tratti assai rilevanti del mondo contemporaneo? La idea di pace sta diventando non solo un principio costituente e costruttivo, ma una ideologia permanente che non per caso si trasforma in «pacifismo», quel pacifismo criticato, in quanto idea esclusiva, proprio da Altiero Spinelli nel momento in cui contribuiva in modo decisivo ad ispirare il progetto politico europeo. Si tratta di comprendere, allora, come legare i tratti costituenti dell’idea di pace – che fanno parte dell’identità europea – alla capacità di analizzare e alla possibilità di rispondere alle grandi contraddizioni del mondo contemporaneo. Qui si gioca un passaggio essenziale della costruzione europea, nell’individuazione di un nuovo punto di equilibrio che sapientemente determini l’unità di forza e ragione, senza che la guerra possa più essere esclusa dal suo orizzonte. Le condizioni culturali per fermare gli elementi di questo nuovo equilibrio ci sono tutti, giacché il ritorno della guerra come problema aperto coincide con l’ampiezza e la ricchezza di una cultura della pace che da molti punti di vista può rappresentare un orizzonte in grado di determinazione concreta: dai «limiti» della guerra, alle sue «regole» (che fanno parte della storia dello Jus publicum europeo), alla dimensione di una politica del riconoscimento che deve essere pienamente utilizzata, pensata, a tutto il problema delle guerre per ingerenza umanitaria. Ma l’Europa, come «Europa», riuscirà a tanto?

Per impostare un abbozzo di risposta, si potrebbe dire che nella accennata congiuntura mondiale il ruolo dell’Europa si giocherà anche sulla sua capacità di trovare, brunianamente, «il punto dell’unione» nel rapporto guerra-pace, nella capacità di «interpretazione» della guerra, nel punto di equilibrio fra ragione e forza, nella capacità di mediazione fra la rappresentazione della politica come ragionevole coesistenza, consapevole che il mondo globale può spingere ad accentuare elementi di universalismo politico, e l’elemento della forza e della guerra come difesa attiva e perfino aggressiva della propria identificazione in valori universali contro chi li mette in discussione. La galassia del pacifismo si muove, nell’insieme, fra due poli: è l’erede debole ed ambiguo dell’idea di pace, la dismissione di quell’identità europea che ha sempre pensato se stessa nel rapporto intrinseco fra ragione e potenza, il cedimento «pentito» di tutta una storia; ed è, o può essere, l’erede forte (ma ci vorrebbe un vero salto di cultura politica, ed è responsabilità della sinistra contribuire solo assai debolmente a questa finalità, lasciandola alla destra che la interpreta in tutt’altro modo) di quel solido rapporto fra l’Europa e la pace da cui nasce il progetto comunitario, erede tuttavia di quella Europa la cui forza è stata proprio nella capacità di pensare il rapporto guerra-pace. È qui che si può disegnare la tendenziale coincidenza fra interesse nazionale ed interesse europeo, o almeno il punto di tensione necessario per raggiungerla. Ma il cammino è difficile, lungo, impervio, disseminato di insidie, con un rischio che può esser letale: staccare troppo i tempi storici necessari per avvicinarsi a questo risultato e i tempi politici che urgono sotto i nostri occhi e chiedono volontà, decisione, convinzione. Per ora, lo stato delle cose è assai diverso.

Torniamo ora al punto di partenza del ragionamento per indicare assai schematicamente qualche punto conclusivo.

Prima conclusione. Quel «punto dell’unione», cui ho accennato, può germinare da una relativamente comune lettura della congiuntura mondiale, che comporta sia la funzione costituente del pensiero – spesso annegato nel grido: pace, pace! Ah! Intellettuali! Ricordate l’invocazione dell’ebreo Spinoza, rappresentante di un popolo condannato a capire: «non piangere, non detestare, ma comprendere» – sia la capacità di risposta ai grandi problemi dell’attualità: America-Europa; Occidente-mondo; democrazia e globalismo; ingerenza-indifferenza; egemonia e pluralismo, e quest’ultimo come tema portante di analisi decisive, e «di politica».

Seconda conclusione. La fine dell’Europa «funzionalista», che questa volta, rinchiusa nel suo vecchio e allora utilissimo circuito, implicherebbe la fine dell’Europa come tale. Voglio dire: assistiamo all’esaurimento di una idea d’Europa rappresentata dall’immagine di un assemblaggio di poteri tecnico-funzionali privi di una idea interna che li animi. Così, il divario fra normalità ed eccezionalità, di cui più sopra, non si colmerebbe mai e l’Europa precipiterebbe in un ruolo marginale.

Terza conclusione. La necessità di contribuire, come Europa, alla costruzione di una «comunità internazionale» ricordando che la profondissima crisi dell’attuale forma di questa comunità, che ricordavo all’inizio, impedisce un semplice e passivo richiamo ad essa, e comporta lo straordinario impegno in una direzione nuova, capace di tener conto che l’attuale frattura ha dimensione morfologica, asimmetrica, essendosi rotto il principio stesso di «concerto» delle nazioni. Di più: essendosi incrinato profondamente il principio di legalità internazionale, con l’avvio del terrorismo asimmetrico, il che rende inutili i richiami stanchi alla «legalità», giacché la politica è costretta a fuoriuscire dai confini che la legalità sempre più labile e incerta nei suoi confini vorrebbe imporle, tornando a mostrare il suo volto centauresco, fissato indelebilmente da Machiavelli nella sua immagine. E ricordando, inoltre, l’impossibilità di immaginare un ordine pluralista, multipolare, privo di «egemonia», liberato da tensioni egemoniche rispecchianti rapporti di forza entro i quali colloco anche la dimensione etico-politica. Bisogna pur riflettere sul fatto che mai si è dato un ordine internazionale pluralista senza egemonia, dai tempi dell’antica Roma al mondo moderno eurocentrico (quando l’Europa dominava su tutto) al secolo dell’americanismo e poi del bipolarismo. Dunque, bando a utopie semplicemente pluraliste. Muovendo da questa idea, un «interesse europeo» diventa consapevole di sé allorché entra in questo gioco di egemonia e pluralismo, acquisendo una capacità di «lettura» del mondo e concretamente riaccordando istituzioni e politica, riducendo discrasie e disequilibri fra quei due livelli che conducono tutto in un vicolo cieco, impedendo fra l’altro di ridurre lo squilibrio fra normalità ed eccezionalità.

Quarta conclusione. O l’Europa si fa «potenza», o non sarà. È finita l’illusione di un globalismo gestibile con vaghi criteri umanitari, e irrompe un globalismo aspro e duro, di cui si impone una lettura politica. La storia diventata mondiale riproduce a livello mondiale la sua terribile asprezza. Perché l’Europa affermi consapevolmente un proprio ruolo, un interesse europeo capace di governare tutti gli interessi nazionali, essa deve saper diventare «potenza». Ma perché ciò avvenga, ancor più di un richiamo fin troppo ovvio ai sacrifici che essa dovrà esser capace di fare nel ridisegnare i propri bilanci, diventa essenziale una questione di idee e di cultura politica, difficile ad affermarsi e certe volte perfino a proporsi, in un clima dominato dal «pentitismo storico» (altro che revisionismo! È questo il vero problema!) che tende a un radicale abbassamento del livello della propria coscienza. Qualcuno ha parlato di influenze di forme di «anticapitalismo islamico» e al di là del sarcasmo è sicuro che tutta la questione europea può riprender forma soltanto se rinasce la coscienza che l’Europa ha di sé come parte dell’Occidente ma con un suo messaggio, una sua politica e dei suoi valori da affermare nel mondo.

Quinta e ultima conclusione, che ritorna all’inizio. Bisogna rompere l’esclusività del nesso fra decisione eccezionale e decisione statale, e costruire la sovranità europea. Oggi l’Europa appare drammaticamente lacerata, e peraltro nessuno può pensare a una Europa o senza Francia e Germania o senza Gran Bretagna – che nasca, voglio dire, dalla divaricazione dei rispettivi progetti strategici – per indicare i punti veramente alti del contrasto. L’Europa è alla vigilia della propria unificazione, e diventa quanto mai urgente comprendere di quale Europa stiamo parlando, quale interpretazione essa vuol dare del proprio ruolo globale. Un qualche ottimismo si regge sia sulla irreversibilità dei processi già creati e consolidati, sia sull’imponenza della sua forza potenziale. Non dico più di tanto su questo. Ma oggi, certo, proclamare la coincidenza di interesse europeo e interesse nazionale conduce in un luogo privo di pensiero e di problematicità. Questa coincidenza va costruita, è necessaria, importante, ma non c’è. Blair l’ha interpretata in un modo radicalmente diverso da come hanno fatto Chirac e Schroeder. Ho cercato qui soltanto di spiegare qualche ragione di tutto questo, e di indicare qualche problema di prospettiva.