L'Unione europea come risposta alla globalizzazione

Di Nicola Verola Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

Nella «Convenzione sul futuro dell’Europa» è riposta la speranza di coronare un processo di riforma istituzionale che non comincia a Laeken, nel 2001, bensì a Maastricht, nel 1992. Si può infatti dire che, a partire dall’inizio degli anni Novanta, l’Europa sia entrata in una sorta di «processo costituzionale permanente », in cui le revisioni dei Trattati si sono succedute con la media vertiginosa, di una ogni quattro anni – Maastricht nel 1992, Amsterdam nel 1997, Nizza nel 2000.

 

Nella «Convenzione sul futuro dell’Europa» è riposta la speranza di coronare un processo di riforma istituzionale che non comincia a Laeken, nel 2001, bensì a Maastricht, nel 1992. Si può infatti dire che, a partire dall’inizio degli anni Novanta, l’Europa sia entrata in una sorta di «processo costituzionale permanente », in cui le revisioni dei Trattati si sono succedute con la media vertiginosa, di una ogni quattro anni – Maastricht nel 1992, Amsterdam nel 1997, Nizza nel 2000.

Molto si è discusso sulle ragioni di questa «frenesia costituzionale». Le interpretazioni che ne vengono date puntano il dito soprattutto su due fenomeni «endogeni»: il processo di allargamento e l’Unione economica e monetaria. Il primo avrebbe imposto (e ancora imporrebbe) una profonda revisione dei meccanismi comunitari che, originariamente concepiti per soli sei Stati membri, rischiano la paralisi in una Unione a venticinque. La seconda, con l’elevatissimo grado di integrazione economica promossa fra i paesi dell’area dell’euro, avrebbe invece posto le premesse per un’evoluzione di carattere «costituzionale» dell’Unione.1 Non vi è dubbio che queste interpretazioni contengono molti elementi di verità. Ad esse se ne può però aggiungere un’altra, basata su dinamiche «esogene». L’ipotesi che sosterremo nelle prossime pagine è che, fra gli elementi che hanno spinto al ripensamento degli assetti europei vi è anche l’insieme di fenomeni correntemente etichettati come «processo di globalizzazione». In quest’ottica, gli sviluppi degli ultimi anni possono essere letti, oltre che come un prodotto delle dinamiche intra-europee, come una risposta alle sfide della interdipendenza internazionale.

 

Globalizzazione-globalizzazioni

Nella sua accezione più generale, il concetto di «globalizzazione» designa «l’ampliarsi e l’intensificarsi dei rapporti di traffico, comunicazione e scambio al di là delle frontiere nazionali».2 Esso fa quindi riferimento a un processo di crescente interconnessione delle dinamiche sociali, politiche, culturali ed economiche che sta portando, per utilizzare una formula poetica ma efficace, alla «uccisione della distanza».3 Più che di un fenomeno unitario, si tratta però di un insieme di fenomeni che presentano aspetti molto diversi e non di rado in contraddizione fra loro assunta spesso a paradigma, la globalizzazione economica si concretizza in una intensificazione degli scambi commerciali accompagnata dall’abbattimento delle barriere commerciali; in una crescita esponenziale dei flussi finanziari all’interno di mercati sempre più interconnessi; nell’aumento del numero, delle dimensioni e dell’influenza dei gruppi economici transnazionali; nella diffusione delle nuove tecnologie, soprattutto nel campo dell’informazione, con l’affermarsi, per alcuni, di un nuovo modello economico (la new economy); nell’emergere di problemi collettivi come la povertà mondiale e il sottosviluppo, i rischi ambientali planetari, il dilemma dello sviluppo sostenibile, ecc. 4

La globalizzazione culturale riguarda i flussi di informazione e le immagini globali; il ruolo dell’industria culturale e il presunto (ma non provato) «appiattimento» su modelli «universali», prevalentemente statunitensi; il rischio di distruzione delle specificità culturali e, come contropartita, il pericolo di conflitti transculturali.5 Sul piano politico, si può parlare di «globalizzazione» di fronte a tutti quei fenomeni che contraddicono il modello «classico» delle relazioni internazionali, basatosi, fin dalla pace di Westfalia, sull’interazione fra Stati indipendenti e sovrani. 6 Ci si trova allora di fronte alla nascita di nuovi attori di politica internazionale come le organizzazioni internazionali, le ONG, i gruppi industriali, i gruppi di pressione e di opinione transnazionali come Greenpeace, Amnesty International e la galassia dei movimenti no global. Al tempo stesso, si può parlare di «globalizzazione politica» di fronte a manifestazioni che mettono in crisi il concetto tradizionale di «sovranità», come il graduale affermarsi della dottrina dell’ingerenza umanitaria, il monitoraggio sui diritti umani, i tribunali contro i crimini di guerra in Kosovo e nella ex Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale e via dicendo.7

 

La globalizzazione e il governo dell’economia

Anche se le interpretazioni di questi fenomeni variano enormemente, vi è almeno un punto fermo su cui tutte convergono: la globalizzazione erode considerevolmente i margini di azione delle autorità statali, soprattutto in campo economico. Per i fautori di un approccio «iperliberista» si tratta di uno sviluppo positivo, che consentirà finalmente di liberare le potenzialità del mercato dai «lacci» del potere pubblico.8 Per altri, si tratta di un’involuzione che comporta rischi di desolidarizzazione e di regressione alla «legge della giungla» più che a quella del mercato.9 In un’economia globalizzata, l’utilizzo di politiche keynesiane per la ricerca della piena occupazione diventa problematico. La liberalizzazione dei flussi finanziari fa sì che la politica monetaria debba tenere conto, più che delle preferenze interne, dei mercati valutari internazionali. Un abbassamento dei tassi di interesse rischia infatti di tradursi, più che in uno stimolo per l’economia, in un outflow di capitali. La politica fiscale è sottoposta a vincoli meno visibili ma quasi altrettanto forti. Oltre a causare, alla lunga, problemi di sostenibilità del debito pubblico, un utilizzo espansivo della leva fiscale rischia, in una economica aperta, di «beneficiare il resto del mondo», aumentando le importazioni invece di stimolare la crescita interna. La globalizzazione riduce anche la capacità degli Stati di reperire risorse attraverso la tassazione. La liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale e la conseguente possibilità per le imprese di scegliere in base a fattori di convenienza la localizzazione dei propri centri di interesse rendono infatti i contribuenti (specie i maggiori) sempre più virtuali.10 Così facendo, minano alle fondamenta il «contratto fiscale» su cui si basa l’autorità dello Stato nazionale.11 La risposta che i governi danno a questi problemi è spesso peggiore del male stesso. Normalmente, si traduce nel tentativo di attirare imprese e investimenti proponendo sistemi fiscali sempre più «allettanti ». Secondo l’OCSE, si tratta di una politica del tipo beggar thy neighbour12 che, a livello complessivo, si traduce in un «impoverimento netto» per le autorità pubbliche. Il risultato è infatti una diminuzione globale della capacità impositiva e quindi delle risorse di cui i governi possono disporre, con il corollario di una minore capacità di attuare, laddove siano ritenute desiderabili, delle politiche di carattere ridistribuivo.

La competizione si estende spesso anche ai sistemi di regolamentazione. La tentazione per i governi è infatti quella di attirare le imprese riducendo al minimo gli oneri e i costi connessi con la regolazione in materia sociale, ambientale, sanitaria. Il rischio è quello di scatenare una «gara al ribasso» (race to the bottom) sul piano degli standard sociali (vacanze, congedo malattia, sicurezza sul lavoro, maternità, contrattazione collettiva), della salvaguardia ambientale, della tutela dei consumatori, degli standard sanitari e lavorativi e via dicendo. Probabilmente è eccessivo affermare, come fanno alcuni «iperglobalisti», che gli Stati sono ormai irrilevanti. Tuttavia, è senz’altro vero che, per «blandire» i mercati mondiali, essi si trovano spesso a fare concessioni superiori a quelle che farebbero normalmente a imprese nazionali e, soprattutto, multinazionali. La situazione ricorda da vicino il «dilemma del prigioniero». In pratica, il comportamento «egoistico» degli Stati (cercare di «accaparrarsi» investimenti esteri e «accattivarsi» le imprese ai danni degli altri) comporta un equilibrio «sub-ottimale», almeno rispetto agli obiettivi che gli stessi Stati si pongono13. L’insieme di questi fenomeni ha dei risvolti preoccupanti dal punto di vista della coesione sociale. Se lo Stato non può più disporre a piacimento degli strumenti per stimolare la crescita (almeno dal lato della domanda), se i suoi margini di manovra in materia di politiche ridistributive risultano ridimensionati, se rischia di soggiacere ad una «competizione al ribasso» in materia di standard sociali è evidente che il welfare state diventa un oggetto minacciato. A rischio è quella stessa «costellazione storica che aveva provvisoriamente reso possibile il compromesso dello stato sociale».14

 

Globalizzazione e democrazia

La sfida, per la politica prima ancora che per i governi, è tanto più complessa in quanto la globalizzazione non si limita a restringere i margini di azione delle autorità statali: rende precario lo stesso esercizio delle regole democratiche. Come sostiene uno studioso del fenomeno: «Se la sovranità non è più concepita come indivisibile ma come condivisa da soggetti internazionali, se gli Stati non hanno più il controllo totale sul loro territorio e se le frontiere territoriali e politiche diventano sempre più porose e permeabili, allora i principi fondamentali della democrazia liberale – autogoverno, demos, consenso, rappresentanza e sovranità popolare – diventano problematici».15

Le istituzioni democratiche, nella loro forma attuale, hanno senso soltanto all’interno di una cornice di tipo statuale.16 È dall’esistenza di questa cornice, infatti, che dipendono gli assetti costituzionali che regolano i rapporti fra il cittadino e il governo, la suddivisione dei poteri fra i livelli nazionale e sub-nazionale, le relazioni fra poteri dello Stato.17 Nel momento in cui lo Stato non è più «sovrano» e autonomo, nel momento in cui non ha più un reale controllo sulle dinamiche politiche, sociali ed economiche al suo interno, questi istituti risultano di fatto svuotati. L’invocazione dei diritti dei cittadini di fronte allo Stato perde significato se l’autorità pubblica non è in grado di garantire la loro effettività. Così come cessa di avere senso una ripartizione costituzionale di poteri divenuti ormai essenzialmente teorici. Lo stesso principio-cardine della nostra concezione di democrazia, il principio rappresentativo, diviene problematico in un contesto «globalizzato». Nella sua forma attuale, la rappresentanza è infatti inscindibile dal territorio: i parlamentari vengono eletti da un collegio definito in termini territoriali; il parlamento nel suo complesso rappresenta la sovranità del popolo all’interno del territorio di uno Stato; le leggi approvate dai rappresentanti del popolo si estendono in linea di principio fino alle frontiere dello Stato. Al di fuori della cornice statale, dei suoi assetti e delle sue garanzie costituzionali, questi istituti sono poco più che delle astrazioni. Appare quindi evidente che, dislocando il potere reale al di fuori dello Stato, la globalizzazione espropria di fatto le istituzioni rappresentative e pone le premesse per un impoverimento democratico. I segnali di questa involuzione sono già presenti. Già oggi si assiste a una chiara erosione delle prerogative dei governi e dei parlamenti. Al punto che, secondo alcuni, il dibattito politico è ormai ingessato di fronte alla «prospettiva paralizzante di una politica nazionale costretta ad adattarsi agli imperativi della globalizzazione»18.

Le incognite di questo processo sono notevoli. Da un lato c’è il rischio concreto di svuotamento delle conquiste democratiche che hanno caratterizzato il «progetto della modernità»19, con uno sganciamento sempre più marcato fra processi politici formali e processi politici reali o se vogliamo fra legittimità ed effettività. Dall’altro lato, c’è il rischio che le reazioni a questo processo di «espropriazione della sovranità popolare» divengano incontrollabili. Nelle strutture degli Stati liberali i sentimenti di malcontento, di alienazione e persino di rabbia nei confronti delle scelte di governo possono essere mediati e processati. In un sistema caratterizzato forse da forme di governance internazionale20 ma sicuramente non di government e di legittimazione democratica, questi sentimenti non hanno alcuna possibilità di esprimersi. L’unica strada è quella della protesta, che può anche assumere connotati violenti. Il problema è che l’internazionalizzazione della politica e dell’economia non è stata accompagnata dalla creazione di strutture di partecipazione e di democrazia a livello complessivo. La cornice dello Stato è stata indebolita senza che venisse individuato un nuovo quadro di riferimento coerente con i principi democratici. Così facendo, si è creato un gap fra gli individui «nazionalizzati» (il cui status è ancora «inquadrato da passaporti, visti, residenza, qualificazioni lavorative, cittadinanza ecc.) e questioni che vanno sempre più internazionalizzandosi,21 davanti alle quali i primi non hanno quasi nessuna voce in capitolo.

 

Gestire la globalizzazione

Stando ad alcune interpretazioni «iperglobaliste» non vi è nulla che gli attori pubblici possano fare per regolare questi processi. La globalizzazione è destinata a spazzare via gli Stati per far posto al gioco libero e incondizionato delle forze economiche. Una volta sbarazzatosi dall’intralcio della politica, il mercato globale potrà finalmente sviluppare tutto il suo potenziale; ogni tentativo di opporvisi da parte dei governi non solo è inutile e penosamente velleitario ma anche dannoso. Che questa visione abbia sfumature inquietanti è abbastanza evidente. Il meno che si possa dire, infatti, è che tiene in scarsa considerazione il problema della legittimità democratica. Il punto è che il trionfo del mercato non vuol dire affermazione della libertà individuale, come vorrebbero gli «iperglobalisti». Vuol dire semplicemente – ed in maniera del tutto avalutativa – supremazia della sfera economica su quella politica. E dato che quest’ultima è l’unica in cui possano realizzarsi (non necessariamente ma almeno potenzialmente) forme di partecipazione, consenso e rappresentanza, significa sostanzialmente rinuncia ai principi democratici.

Ma al di là dei problemi di carattere normativo, l’interpretazione «iperglobalista» presenta dei limiti di fondo anche dal punto di vista delle sue reali capacità predittive. Il primo è quello di essere monocausale e quindi, inevitabilmente, semplicistica. Le teorie «iperglobaliste» finiscono con il riecheggiare le tesi marxiste sul primato della sfera economica. Secondo queste infatti, i fattori culturali, religiosi, politici e sociali passano in secondo piano rispetto a quelli economici, quando non sono addirittura «sovrastrutture» di questi ultimi. Inoltre, le teorie «iperglobaliste», a dispetto della loro retorica «novista», non fanno altro che riesumare un vecchio orpello della filosofia della storia (non solo marxista): il determinismo. Esse sostengono che la globalizzazione non è soltanto una tendenza, un’evoluzione in atto: è un processo ineludibile, inarrestabile e «necessario» che porterà inevitabilmente, o ha addirittura già portato, al trionfo del mercato globale. In questa accezione, e per parafrasare Berlin, la globalizzazione non diventa altro che l’ultima versione hi tech di tutta la teoria di forze «reali, imperscrutabili e inarrestabili » con cui diversi pensatori hanno cercato di dare un «senso» alla storia.22 È uno di quei «poteri personificati», «modi di dire» (dallo «spirito collettivo» al «mito del ventesimo secolo», dalla «attuale crisi dei valori» all’«ultimo stadio del capitalismo») che nella storia del pensiero umano «hanno popolato il cielo di entità sovrannaturali».23

Come tutti i determinismi, anche quello «globalista» si basa però su una serie di petizioni di principio. In realtà, non è affatto necessario intendere la globalizzazione economica come una «forza incontrollabile e rigida, cui la democrazia liberale (deve) inevitabilmente sottomettersi»24. Innanzitutto, la globalizzazione non è un processo irreversibile. Come tutti i processi di «distruzione creativa» essa crea dei vincenti e dei perdenti e quindi suscita consensi ma anche spinte contrarie. Queste spinte sono tanto più forti in quanto i perdenti sentono in maniera particolarmente intensa, sulla loro pelle, gli effetti della globalizzazione.25 Non è affatto detto, quindi, che nei prossimi anni non si assista a un aumento delle pressioni anti-globalizzazione che potranno prendere la forma «uguale e contraria» dei movimenti no global ma potranno anche assumere le fattezze più «tradizionali» del protezionismo, del regionalismo, del managed trade ecc. 26

In secondo luogo, e soprattutto, la globalizzazione non rende affatto superflua la politica. Semmai, richiede una sua graduale ricollocazione in un quadro che non sia più quello esclusivo ed escludente dello Stato.27 A ben vedere, molti dei problemi che abbiamo discusso finora dipendono dal fatto che l’integrazione economica è progredita a una velocità molto maggiore dell’integrazione politica. Ma questo non significa che la politica è diventata inutile. Significa soltanto che anche la politica si deve globalizzare. Contrariamente a quanto credono gli «iperglobalisti», «un sistema internazionale prospero e stabile richiede delle solide fondamenta politiche»28. La transizione dal vecchio sistema «westfaliano» basato sugli Stati nazionali a un nuovo sistema, dai contorni ancora tutt’altro che definiti, richiede quindi la creazione di nuove regole, e non la distruzione di tutte le regole.29

Per evitare i rischi involutivi sopra menzionati sono necessarie strutture e procedure che consentano la gestione a livello internazionale dei problemi connessi con il processo di globalizzazione. Già nel breve termine, occorrerebbero delle regole globali per gli investimenti, in modo da limitare il «mercato delle vacche» che consente alle imprese multinazionali di ridurre al minimo gli oneri fiscali e massimizzare le sovvenzioni statali;30 sono  necessari degli strumenti di coordinamento che evitino una race to the bottom nel welfare state, nella  regolamentazione ambientale, in quella sociale e nella protezione della salute; occorre riflettere sull’opportunità di introdurre delle regole comuni di politica della concorrenza – su fusioni, concentrazioni, pratiche monopolistiche e anticoncorrenziali – a livello mondiale; bisogna riconsiderare le regole di una finanza mondiale ormai fuori controllo, che per alcuni è il vero anello debole dell’economia internazionale; 31 occorre riflettere sulla possibilità di rifondare un sistema monetario che di fatto è rimasto privo di guida dopo il crollo di Bretton Woods; last but not least, occorre assumersi la responsabilità di valorizzare i temidella civil society agenda nel sistema internazionale, con una affermazione dell’importanza degli standard sociali e ambientali, con la valorizzazione degli strumenti per la risoluzione di problemi globali (a cominciare da quelli ambientali). Più a lungo termine, occorrerebbe inoltre affrontare il nodo dei processi partecipativi.32 Bisognerebbe porsi quindi  il problema di come ricreare a livello internazionale dei meccanismi di investitura democratica e di responsabilità (nel senso del termine inglese accountability) che consentano di raccordare direttamente le scelte di governo alla volontà popolare. È un tema che rende della massima attualità la riflessione, ancora considerata da molti «utopistica», sul concetto di «democrazia cosmopolita».33

 

L’integrazione europea come risposta alla globalizzazione

Il nesso fra il processo di integrazione europea e la globalizzazione è duplice.34 Da un lato, l’integrazione ha anticipato diversi aspetti della globalizzazione. Come quest’ultima, infatti, ha eroso gli spazi di autonomia degli Stati, imponendo loro una serie di vincoli.35 Ha inoltre portato alla ribalta problemi come lo svuotamento delle assemblee legislative, lo strapotere delle istituzioni tecnocratiche, la prevalenza della sfera economica, la «dittatura» della logica di mercato che si stanno riproponendo ora su scala mondiale.36 Al tempo stesso, però, l’integrazione può essere vista anche come una reazione difensiva di fronte alle spinte disgregatrici della globalizzazione.37

Il concetto di «modello sociale europeo» ricorre spesso nei documenti delle istituzioni comunitarie, in particolare della Commissione,38 ma rimane difficile da definire. In termini molto generali, si può dire che faccia riferimento ad un sistema basato sulle garanzie dello Stato di diritto, le libertà individuali, la democrazia, le regole del mercato cui si aggiunge (ed è questo l’elemento caratterizzante rispetto ad altre democrazie del Primo mondo) una certa enfasi sulla solidarietà, sulla coesione e sul dialogo sociale.39 Questo modello ha il pregio innegabile di aver garantito la coesione sociale e di aver messo relativamente al riparo l’Unione da fenomeni massicci di esclusione sociale. E tuttavia, ha dei costi che si rivelano sempre più difficili da sostenere. Con la globalizzazione, diventa sempre più difficile «quadrare il cerchio» fra diritti individuali, coesione sociale e libertà.40 Sotto molti aspetti, l’integrazione può essere interpretata come un tentativo di affrontare a un livello di aggregazione più ampio le sfide della globalizzazione, che i singoli Stati non sarebbero in grado di affrontare da soli. Con le sue dimensioni di scala e il suo peso economico mondiale, l’Unione è sicuramente meno vulnerabile dei singoli Stati membri agli imperativi del mercato globale.41 In questo modo, essa contribuisce almeno in parte a salvaguardare il modello sociale, e forse lo stesso sistema di valori, su cui si basa la civiltà europea.

Questa chiave di interpretazione aiuta a spiegare anche alcuni dei progressi più recenti del processo di integrazione. Oltre che come naturale completamento del mercato interno, la moneta unica può essere vista come un tentativo, da parte dell’Europa, di recuperare influenza sui processi economici globali. L’euro è sicuramente meno vulnerabile alle pressioni speculative di quanto non lo siano le singole divise nazionali. E consente inoltre all’Unione di «pesare di più» nei negoziati economici internazionali. Non a caso, fra le argomentazioni più di frequente portate a suo sostegno vi è stata, per tutti gli anni Novanta, l’esigenza di rafforzare la posizione dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti e degli altri grandi attori internazionali.42 Nel linguaggio ufficiale, per fare della UE un partner economico più solido e (implicitamente) una controparte più autorevole. Ufficiosamente, per contendere al dollaro la sua posizione di divisa degli scambi internazionali e sottrarre in prospettiva agli Stati Uniti parte dei loro diritti di «signoreggio».43

L’intento di ridurre l’impatto della globalizzazione è anche, in buona parte, alla base degli attuali titoli VI e VIII del Trattato. La politica sociale europea e il coordinamento nell’ambito della lotta alla disoccupazione rispondono infatti soprattutto all’esigenza di equilibrare il penchant liberista del mercato unico ed evitare il rischio di gare al ribasso in materia di standard sociali. Mutatis mutandis, la stessa logica alla base delle crescenti pressioni per un’armonizzazione di alcuni aspetti della fiscalità per le imprese. Il ragionamento vale anche in ambiti non strettamente economici. Si potrebbe per esempio affermare che le politiche in materie di visti, controllo delle frontiere, immigrazione, nascono dall’esigenza di affrontare i movimenti migratori (forse il più antico fattore di globalizzazione) che attraversano l’Europa; che la cooperazione in materia di polizia scaturisce dall’esigenza di affrontare la sfida del crimine transnazionale; che la politica estera comune deriva dal desiderio degli Stati membri di recuperare, attraverso una messa in comune delle rispettive risorse, margini di manovra politico-diplomatici. L’elenco potrebbe continuare. Quel che conta, però, è il dato di fondo che emerge da questa elencazione sommaria: le sfide connesse con il processo di integrazione costituiscono un potente incentivo alla integrazione, ed in alcuni casi ne hanno dettato i tempi e le modalità.

 

L’Unione europea e le «regole della globalizzazione»

Il rapporto fra globalizzazione e integrazione non è d’altra parte unidirezionale. Non si limita allo schema «stimolo esterno-risposta difensiva». Può anche andare nell’altro senso. Non fosse altro che per il peso che ha nell’economia mondiale, l’Unione possiede infatti gli strumenti per influenzare i processi globali favorendo l’affermazione di quel sistema di regole, quella governance di cui, come abbiamo visto, la globalizzazione ha bisogno.

L’Unione è quindi in grado, almeno potenzialmente, di propugnare su scala globale concetti come la responsabilità economica, sociale e ambientale: i concetti alla base del suo «modello sociale».44 In questo senso, si può parlare di una capacità di incidenza e, per così dire, di «proiezione valoriale» dell’Europa che nel suo complesso è molto superiore a quella che i singoli Stati europei, anche sommati aritmeticamente, potrebbero avere. Se si parte da questa constatazione, il processo di integrazione può essere visto sotto una nuova luce. Tenendo ben presente, sullo sfondo, il fenomeno della globalizzazione, si può infatti affermare che la «messa in comune» di porzioni di sovranità in ambito europeo non costituisce una perdita di sovranità per gli Stati ma, al contrario, un guadagno. L’integrazione consiste nel sostituire un potere teoricamente assoluto (ma in realtà fittizio) di decidere con un potere relativo ma reale. Consiste, per gli Stati che vi partecipano, nel passaggio dalla capacità di adottare sovranamente decisioni sempre più irrilevanti alla capacità di contribuire alle scelte reali.

Chi critica l’integrazione in nome della sovranità degli Stati dovrebbe tenere conto di questo dato. Nell’era della interdipendenza globale la sovranità concepita nel senso classico è fittizia. A meno di non scegliere la strada dell’isolamento, dell’autarchia e del conseguente impoverimento economico e ideale. Vi sono paesi che l’hanno fatto, basti pensare alla Corea del Nord. Ma nessun paese europeo potrebbe considerare seriamente un’opzione di questo genere. L’alternativa è quindi fra l’affrontare la globalizzazione in ordine sparso, e quindi subirla, o unire le forze e cercare di condizionarla. «Solo nello spazio transnazionale dell’Europa le politiche dei singoli Stati possono divenire, da oggetto minacciato, soggetto di una globalizzazione organizzata».45

C’è un altro aspetto da tenere in considerazione. Se è vero quello che abbiamo detto circa l’indebolimento dell’autorità statale, il deficit democratico che spesso le viene rimproverato non può essere risolto al di fuori dell’Unione. Le istituzioni rappresentative degli Stati membri non recupererebbero le proprie prerogative al di fuori dell’Unione perché praticamente tutto quello che guadagnerebbero affrancandosi dalle procedure brussellesi lo perderebbero a causa dei vincoli imposti dalla globalizzazione. Il problema va quindi risolto all’interno delle strutture comunitarie. E non è detto che questo non si riveli un vantaggio dal punto di vista della capacità delle istituzioni democratiche di incidere nei processi reali. In prospettiva, una Unione europea democratizzata potrebbe costituire anche un antidoto contro lo svuotamento delle istituzioni democratiche ad opera del processo di globalizzazione.

 

L’Unione come modello di cooperazione transnazionale

Quanto abbiamo appena detto ci porta al secondo meccanismo attraverso il quale l’Unione può incidere sul processo di globalizzazione. Si tratta di uno strumento indiretto: quello della sperimentazione istituzionale e della proposta di modelli innovativi per la gestione dell’interdipendenza. Proprio per aver anticipato «in scala» le dinamiche della globalizzazione, l’UE può offrirsi come modello di cooperazione transnazionale. La globalizzazione richiede, come abbiamo visto, regole globali. E queste regole possono essere poste in questo momento soltanto attraverso una cooperazione internazionale sempre più stretta. Da questo punto di vista, il concetto di sovranità è destinato a cambiare. La nozione tradizionale, «esclusiva», di sovranità come sinonimo di indipendenza e autoderminazione appare ormai inadeguata. Nell’epoca dell’interdipendenza, la sovranità andrebbe piuttosto intesa come «diritto e potere di influenzare collettivamente i processi globali». Questa forma di «sovranità inclusiva», per utilizzare il termine recentemente proposto da uno studioso della globalizzazione,46 è destinata a prendere sempre più il posto di quella «esclusiva» tipica del modello westfaliano che ha dominato la società internazionale negli ultimi secoli.47

In questo senso l’Europa può essere considerata uno straordinario esperimento di sovranità inclusiva. Il processo di integrazione ha infatti cercato, con molti anni di anticipo, di risolvere i problemi dell’interdipendenza economica attraverso la «messa in comune» di porzioni di sovranità. Esso consiste alla base in «uno sforzo per sviluppare istituzioni e procedure decisionali che permettano alla Comunità europea di affrontare l’interdipendenza economica transnazionale».48

Mutatis mutandis, l’intera comunità internazionale si trova ad affrontare lo stesso tipo di problemi che gli europei hanno affrontato, e per molti versi risolto, negli ultimi cinquant’anni. In un certo senso, quindi, l’Unione può indicare la strada da perseguire a livello mondiale: la creazione di meccanismi che «obblighino» gli Stati a partecipare in maniera cooperativa alle decisioni collettive; che trasformino la loro sovranità solo teoricamente assoluta in una reale capacità di co-decisione. Già oggi, la UE ci fornisce, almeno in nuce, un modello di organizzazione della società internazionale. I suoi meccanismi potrebbero ispirare, in un futuro più o meno prossimo, nuovi insiemi regionali ed eventualmente la stessa istituzionalizzazione delle dinamiche della governance internazionale. Il processo, una volta innestato, renderebbe la visione di una «democrazia cosmopolita»49 meno peregrina di quanto alcuni vogliano far credere. È importante infine notare a conclusione di questa breve panoramica che, se l’Unione vuole giocare un ruolo innovativo contro le pressioni disgreganti della globalizzazione, se vuole proporsi come modello di gestione delle problematiche transnazionali, se vuole preservare il proprio modello sociale e salvaguardare i principi di democrazia, libertà, solidarietà su cui si basa la sua civiltà, diventa ancora più cruciale che essa sappia affermarsi come una struttura di governance legittima ed efficace.50 Che sappia dotarsi degli strumenti adeguati a gestire le sfide della interdipendenza (dalla politica estera e di difesa comune al governo dell’economia, passando per la cooperazione giudiziaria e di polizia, la gestione delle problematiche migratorie, le politiche fiscali, forse alcune politiche ridistributive) e che sappia al tempo stesso dotarsi di strumenti che assicurino un’adeguata partecipazione dei cittadini alle scelte comuni. Dopo i faticosi, e per molti versi insufficienti, progressi dei Trattati di Amsterdam e Nizza, è questa la vera sfida con cui è chiamata a misurarsi la Convenzione sul futuro dell’Europa.

 

 

Bibliografia

1 F. Snyder, EMU Revisited – Are we Making a Constitution? What Constitution are We Making?, Working Paper, Istituto universitario europeo, 98/6, 1998.

2 J. Habermas, La costellazione postnazionale, trad. it. Feltrinelli, Milano 1999, p. 38.

3 U. Beck, Cos’è la globalizzazione?, trad it., Carocci Editore, Roma 1999.

4 D. Held, A. Mc Grew, D. Goldblatt e J. Perraton, Global Transformations – Politics, Economics and Culture, Stanford University Press, Stanford 1999.

5 S.P. Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of the World Order, Simon & Schuster, London 1997.

6 M.W Zacher, The decaying pillars of the Westphalian Temple: Implication for International Order and Governance, in J.N. Rosenau e E.O. Czempiel (a cura di), Governance without Government: Order and Change in World Politics, Cambridge University Press, New York 1992; L.D. Picazo, Les pièges de la souveraineté, in R. Dehousse (a cura di), Une constitution pour l’Europe? Presses de Sciences Po, Parigi 2002.

7 J.N. Rosenau e E.O. Czempiel, op.cit.; D. Held e altri., op. cit.; T.J. Biersteker, Beyond States or State?, in J.J Anderson e altri, Regional Integration and Democracy – Expanding on the European Experience, Rowman & Littlefield, New York 1999.

8 Alcuni autori tendono a enfatizzare il carattere assolutamente inedito e «rivoluzionario» del processo di globalizzazione. Per loro, gli Stati nazionali sono destinati a essere soppiantati, se già non lo sono stati, dal mercato globale (I.M. Wallerstein, The Capitalist World Economy: Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1979; T.K. Hopkins e I.M. Wallerstein, The Age of Transition: Trajectory of the World System 1945-2025, St. Martins 1996). Il mondo si avvia verso un assetto «post statalista» con il trionfo della sfera economica, mentre «la fine della nazione porta con sé la morte della politica» (J-M. Guéhenno, La fine della democrazia, Garzanti, Milano 1994). Per questi autori è stata coniata la felice definizione di «iperglobalisti» (R. Gilpin, J.M. Gilpin, The Challenge of World Capitalism, Princeton University Press 2000).

9 Cfr. Beck, op.cit.; J. Habermas, op. cit.; C. Offe, The Democratic welfare state in an Integrating Europe in M.T. Greven, L.P. Pauly e altri., Democracy Beyond the State?, Rowman & Littlefield, Lanham 2000.

10 A Survey of Globalisation and Tax, in «The Economist», 29 gennaio 2000.

11 Cfr. Beck, op. cit.

12 «The Economist», ibid.

13 W. Mattli, The Logic of Regional Integration, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

14 Habermas, op. cit. p. 22.

15 A. Mc Grew, Globalization and Territorial Democracy, in A. Mc Grew (a cura di), The Transformation of Democracy? Cambridge University Press, Cambridge 1997, p.12.

16 G. Marramao, Una Costituzione senza Stato. Tecnica e politica nel processo di unificazione dell’Europa, in «La Cittadinanza Europea», 1/2002.

17 Anderson, op. cit.

18 Habermas, op. cit., p. 33.

19 Ibid.

20 Rosenau e Czempiel, op. cit.

21 G. de Burca, Reappraising Subsidiarity’s Significance after Amsterdam, Harward Jean Monnet, Working Paper 7/99.

22 I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, trad. it., Feltrinelli, Milano 1989, p. 171.

23 Ibid.

24 R. Cox, Democracy in Hard Times?, in A. Mc Grew (a cura di), The Transformation of Democracy? Cambridge University Press, Cambridge 1997, p. 51.

25 R.A. Dahl, A preface to Democratic Theory, The University of Chicago Press, Chicago 1956. Per fare un esempio, la liberalizzazione del commercio in un determinato settore determinerà probabilmente un guadagno diffuso per i consumatori, che potranno acquistare determinate merci (ad esempio: rubinetti) a prezzi complessivamente più bassi. Al tempo stesso, però, metterà in crisi le fabbriche di rubinetti non competitive, che non potranno più sopravvivere senza la protezione di alti dazi doganali. La chiusura delle fabbriche comporterà la perdita di lavoro per un certo numero di lavoratori, per i quali la perdita di benessere sarà molto più «concentrata» del guadagno ottenuto dai consumatori. I  consumatori non andranno mai in piazza per invocare l’abbassamento delle tariffe doganali, ma i lavoratori «vittime» della competizione internazionale potranno senz’altro farlo per l’obiettivo opposto.

26 Gilpin, op. cit.

27 Cfr. Beck, op. cit; Habermas, Jenseits des Nationalstaats, in U. Beck, Politick der Globalisierung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1997.

28 Gilpin, op. cit.

29 Uno dei paradossi del movimento «anti-globalizzazione» è proprio quello di attaccare le istituzioni, come il WTO, che potrebbero costituire il punto di partenza di un processo di gestione della globalizzazione (sul ruolo delle commitment institutions nel favorire la cooperazione transnazionale, cfr. Mattli, op. cit.).

30 «The Economist», cit.

31 Per alcuni autori, le crisi finanziarie degli ultimi anni non sono un fenomeno accidentale ma dipendono in qualche modo da fattori «strutturali». Senza meccanismi correttivi, il mercato finanziario tenderebbe automaticamente a riprodurre situazioni simili a quelle delle crisi in Messico e Asia negli anni Novanta (Gilpin, op.cit). Si tratta di una possibilità quantomeno inquietante se si considera che nel 1999 le transizioni finanziarie giornaliere ammontavano a circa 1,5 trilioni di dollari (contro 7 trilioni annuali di commercio).

32 R. Dahl, On Democracy, Yale University Press, New Haven 1998.

33 L. Levi, Il pensiero federalista, Laterza, Bari 2002; D.Held, D. Archibugi e altri, Cosmopolitan Democracy, Polity Press, Cambridge 1995.

34 G. Ross, European integration and Globalization, in R. Axtmann (a cura di), Globalization and Europe. Theoretical and Empirical Investigations, Printer, London 1998.

35 R. Dehousse, Intégration ou disintégration: cinq thèses sur l’incidence de l’intégration européenne sur les structures étatiques, Working Paper dell’Istituto universitario europeo, 96/4, 1996.

36 Guéhenno, op. cit.

37 J. Shaw, Constitutional Settlements and the Citizens after the Treaty of Amsterdam, in K. Neuenreither e A. Wiener (a cura di), European Integration After Amsterdam, Oxford University Press, Oxford 2000 p.309.

38 Una delle più compiute definizioni di «modello sociale» è quella che la Commissione ha fornito in occasione della Conferenza intergovernativa che ha portato al Trattato di Amsterdam (Reinforcing Political Union and Preparing for Enlargement, 28 febbraio1996): «Europe is built on a set of values shared by all its societies, and combines the characteristics of democracy – human rights and institutions based on the rule of law – with those of an open economy underpinned by market forces, internal solidarity and cohesion. These values include the access for all members of society to universal services or to services of general benefits, thus contributing to solidarity and equal benefits» (par. 8). E ancora: «The Conference should be the occasion (…) to demonstrate that the Union has clear objectives and the instruments to achieve them: that Europe – united in its diversity – is prepared to uphold and develop its model of society and to make growth and competitiveness work for a social and cultural ideal (…)» (par. 47).

39 Stando alle conclusioni del Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2003, il «modello sociale europeo» si basa su «buone prestazioni economiche, competitività, un alto livello di protezione sociale e di educazione e sul dialogo sociale». All’interno di questo sistema, il welfare state gioca un elemento importante, come fattore di integrazione sociale ed elemento solidarizzante, cfr. J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit.). Alcuni autori includono fra gli elementi caratterizzanti del «modello sociale europeo» anche: la presenza di organizzazioni sindacali forti; i meccanismi di concertazione tripartita; la rappresentanza delle forze del lavoro nei consigli di amministrazione di enti e imprese; la creazione di organismi «corporativi» come i Consigli economici e sociali. Questi istituti sono però caratteristici dei sistemi renano-continentali più che europei tout court, cfr. M. Albert, Capitalisme contre Capitalisme, Seuil, Parigi 1991.

40 R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Laterza, Bari 1995.

41 Come è stato opportunamente osservato, gli effetti della globalizzazione sono asimmetrici. Gli Stati piccoli sono costretti di fatto a subirla ma questo non vale sempre, e spesso non vale affatto, per gli Stati più grandi, cfr. Gilpin, op. cit.. L’esempio degli investimenti esteri è particolarmente adatto ad illustrare il punto. È noto che la prossimità e le dimensioni del mercato costituiscono un fattore importante per la localizzazione delle imprese. I paesi europei, anche grazie alle dimensioni del mercato unico, possono permettersi il «lusso» di imporre oneri fiscali, standard sociali,e vincoli ambientali più elevati di quanto non possano fare economie meno prospere. Entro certi limiti, le imprese continueranno infatti a ritenere vantaggiosa una presenza nel mercato europeo anche quando fattori di «competitività di sistema» (livello dei salari, costi della regolamentazione sociale e ambientale, fiscalità) potrebbero rendere allettante la prospettiva di una delocalizzazione degli investimenti.

42 One Money, one Market: An Evaluation of the Potential Benefits and Costs of Forming an Economic and Monetary Union, in «European Economy» 44, ottobre 1990.

43 M. Walker, The Euro: Why it is Bad for the Dohar But Good for America, in «World Policy Journal»,15/1998.

44 Non a caso, è soprattutto l’Unione a portare avanti nei negoziati internazionali le tematiche della cosiddetta civil society agenda, affermando l’importanza di affiancare alla liberalizzazione degli scambi l’elaborazione di regole comuni che salvaguardino, fra le altre cose, gli standard sociali e ambientali. Ed è soprattutto l’Unione a difendere in tutte le sedi l’importanza di un approccio multilaterale alle problematiche globali (a cominciare dal livello di emissioni di gas nell’atmosfera).

45 Beck, op. cit.

46 Ibid.

47 J. Caporaso, The European Union and Forms of State: Westphalian, Regulatory or Post-Modern, in «Journal of Common Market Studies», 1, XXXIV pp. 29-52.

48 J. Neyer, Justifiyng Comitology: The Promise of Deliberation, in K. Neuenreiter e A. Wiener (a cura di), European Integration After Amsterdam, Oxford University Press, Oxford 2000.

49 D.Held, D. Archibugi e altri, Cosmopolitan Democracy, Polity Press, Cambridge 1995.

50 Offe, op. cit.