Declino o sviluppo per l'economia italiana?

Di Vincenzo Visco Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

A partire dal maggio 2004 dieci paesi e settantacinque milioni di abitanti entreranno a far parte dell’Unione europea. Verrà così a cambiare la stessa fisionomia geografica dell’Unione, il suo baricentro, la sua collocazione politica ed economica. È dubbio che l’allargamento in corso possa essere interpretato secondo la tradizionale visione ottimistica che fa riferimento ai risultati positivi dell’espansione dei mercati. I nuovi paesi, infatti, pur rappresentando il 20% della popolazione europea, contribuiranno a non più del 5% del suo PIL.

 

A partire dal maggio 2004 dieci paesi e settantacinque milioni di abitanti entreranno a far parte dell’Unione europea. Verrà così a cambiare la stessa fisionomia geografica dell’Unione, il suo baricentro, la sua collocazione politica ed economica. È dubbio che l’allargamento in corso possa essere interpretato secondo la tradizionale visione ottimistica che fa riferimento ai risultati positivi dell’espansione dei mercati. I nuovi paesi, infatti, pur rappresentando il 20% della popolazione europea, contribuiranno a non più del 5% del suo PIL. Ciò rappresenta sicuramente un grande vantaggio per le economie dei paesi candidati che, grazie all’ingresso nell’Unione, potranno vedere crescere fortemente la propria domanda dall’estero, ma un beneficio trascurabile per gli altri paesi i quali, a fronte di benefici (ma anche di costi) molto ridotti nel breve periodo, si troveranno nei prossimi anni sempre più a competere con sistemi economici e produttivi caratterizzati da bassi costi del lavoro, buona qualità della manodopera, elevata istruzione e consistente dinamismo. Si verificherà inoltre una riallocazione dei fondi strutturali dal sud verso l’est dell’Europa, mentre positivi potranno risultare gli sviluppi futuri della politica agricola. Tutto ciò crea ovvi problemi di coesione, tanto più che i nuovi entranti sembrano più interessati ai vantaggi del mercato unico e dei fondi strutturali e di coesione, che non disposti a condividere l’aspirazione verso un’Europa federale, come sembrano indicare recenti prese di posizione.

È evidente quindi che nei prossimi anni l’Unione europea si dovrà impegnare non poco a <metabolizzare> gli effetti dell’allargamento e ad evitare che la coesione complessiva dell’Unione possa risentirne negativamente. Da questo punto di vista i risultati della Convenzione risulteranno decisivi soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di decisione che saranno posti alla base del funzionamento dell’Unione a venticinque Stati e non più di quindici. E in verità questo sembra essere un aspetto decisivo anche da un punto di vista economico dal momento che dopo l’introduzione della moneta unica nessun progresso pratico rilevante è stato possibile a causa della contrapposizione degli interessi nazionali coinvolti e della impossibilità di pervenire ad una composizione degli stessi in presenza della esistenza di un diritto di veto su gran parte delle questioni rilevanti.1 Si è inoltre continuamente riproposta la visione, da parte di alcuni paesi, dell’Unione essenzialmente quale zona di libero scambio, in contrapposizione all’approccio federalista di altri. È probabile che dopo l’allargamento tale dialettica risulterà ancora più pronunciata, anzi è persino possibile che l’allargamento segni la crisi definitiva dell’approccio federalista e dia forza al tentativo della Gran Bretagna di assumere la leadership in Europa.

La discussione che si è svolta negli anni passati sui problemi economici della Comunità e sulle sue soluzioni possibili si è tuttavia concentrata su altri aspetti e in particolare sulla gestione della politica monetaria da parte della BCE e sui vincoli posti dal patto di stabilità. In ambedue i casi si richiede una revisione in direzione di un allentamento dei criteri. Certo si può discutere sullo statuto della BCE che affida alla Banca centrale prioritariamente la difesa della stabilità dei prezzi, ma non si può non ricordare che l’unica ricerca che esiste sui comportamenti concreti della Banca nella gestione della politica monetaria (effettuata dall’ISAE) sembra indicare che in realtà non esistono differenze rilevanti tra la politica monetaria effettivamente posta in essere dalla BCE e quella attuata dalla FED americana: 2 in concreto ambedue le istituzioni sembrano seguire comportamenti analoghi, e non vi sono prove di una predisposizione verso politiche più restrittive da parte della BCE. Per quanto riguarda il patto di stabilità, esso è il risultato della impossibilità di centralizzare le decisioni di politica fiscale a livello federale e, al tempo stesso, del tentativo di tenere bassi i tassi di interesse ponendo vincoli e paletti di dissuasione nei confronti di possibili comportamenti poco virtuosi da parte di alcuni paesi. Il sospetto reciproco ha prevalso rispetto ad una possibile attitudine cooperativa e alla gestione comune di un interesse collettivo. È auspicabile che in sede di Convenzione si possa trovare una soluzione di maggior coordinamento ex ante delle politiche fiscali, anche come pre-condizione per politiche monetarie meno pregiudizialmente prudenti. Tuttavia, anche in questo caso non sembra che le critiche rivolte al patto di stabilità colgano nel segno, dal momento che, mentre sarebbe molto pericolosa una situazione in cui le finanze pubbliche degli Stati membri iniziassero a divergere in modo marcato, viceversa il patto di stabilità per come è articolato, appare sufficientemente flessibile, come dimostra il fatto che la Commissione ne ha recentemente proposto un’interpretazione meno formalistica e sostanzialmente corretta, basata sull’assunto che l’obiettivo del pareggio di bilancio va riferito ai bilanci strutturali e non a quelli nominali, con la conseguente piena libertà di funzionamento degli stabilizzatori automatici evitando così di imporre agli Stati membri politiche procicliche. In questo contesto, il margine di flessibilità previsto dal patto, pari al 3% del PIL di ciascun paese appare adeguato, dal momento che un eventuale stimolo fiscale di tali dimensioni non è certo trascurabile. Ne deriva che in presenza di disavanzi di bilancio dei principali paesi attualmente non lontani (o superiori) al 3% del PIL, non si può ragionevolmente ritenere che la politica fiscale dell’Unione europea sia oggi indebitamente restrittiva. Tanto più se si considera che negli Stati Uniti, spesso indicati come esempio di flessibilità operativa nelle politiche di bilancio, il disavanzo del bilancio federale è oggi pari al 2,8%. Il problema quindi non risiede nella rigidità del patto, ma nella circostanza che, mentre l’impulso fiscale americano ha scontato in partenza un surplus di bilancio di 1,4 punti, i paesi europei al momento della crisi del 2001-2002 già presentavano ampi disavanzi strutturali e nominali, ma ciò non è colpa del patto di stabilità. Né va sottovalutata la recente polemica tra la FED e l’amministrazione americana, con la FED contraria a nuove misure di riduzione delle imposte che, peggiorando il disavanzo USA porrebbero le basi per un aumento dei tassi di interesse a lungo termine, frenando così gli investimenti e le prospettive di crescita futura.

Non sembra quindi che le attuali polemiche europee siano particolarmente fondate, al contrario un allentamento ingiustificato dei criteri attuali potrebbe fortemente penalizzare l’economia europea, e in particolare quella dei paesi più indebitati, e quindi più sensibili alle variazioni dei tassi di interesse, come l’Italia. E va anche osservato che un limite (esplicitamente indicato, o di fatto) all’indebitamento netto complessivo rispetto al PIL dell’Unione (e dei singoli paesi), sarebbe comunque necessario, per ragioni di stabilità finanziaria, anche qualora si volesse adottare un criterio di golden rule in luogo del parametro del 3%. In ogni caso l’applicazione della golden rule avrebbe senso solo in presenza di programmi di investimenti concordati e coordinati a livello di Unione europea: in questa ipotesi un moderato disavanzo strutturale potrebbe risultare accettabile ed anche utile. La via da seguire quindi non è quella di rallegrarsi perché altri paesi dell’Europa stanno peggio dell’Italia (anche perché non è vero), quanto piuttosto quella di un rafforzamento del processo di consolidamento dei bilanci pubblici europei, e di un miglioramento della composizione della spesa favorendo quella in conto capitale rispetto a quella corrente, nonché quella di un maggior coordinamento delle politiche e una più stretta collaborazione in sede di Commissione e di Consiglio.

Resta tuttavia il fatto che i dati relativi alla crescita del reddito, all’occupazione e alla disoccupazione, alla crescita potenziale, alla competitività, al progresso tecnico, ecc. sembrano tutti dimostrare univocamente una difficoltà dell’economia europea rispetto a quella leader degli Stati Uniti. Non pochi osservatori si chiedono se l’Europa sia destinata ad entrare in una fase di stagnazione e di lento declino analoga a quella che attraversa da ormai dieci anni il Giappone. E in proposito continuano ad essere prospettate le tradizionali ricette della saggezza convenzionale dell’ortodossia economica corrente, orientate a promuovere una maggiore flessibilità dei mercati (primo fra tutti quello del lavoro), e una revisione dei meccanismi del welfare. Non si può certo ritenere che tali argomenti siano di scarso rilievo. Tuttavia personalmente ritengo che essi non colgano uno degli aspetti di fondo che provocano le difficoltà attuali dell’economia europea. Vale a dire il ritardo e l’incompiutezza del mercato unico, la mancata armonizzazione di regole, normative, ed istituzioni, decisive per un corretto funzionamento di un mercato concorrenziale. Permangono infatti tra i quindici paesi profonde differenze nel diritto societario, nei principi di governance aziendale, nella regolazione e funzionamento dei mercati finanziari, nelle normative ambientali, nei sistemi di tassazione, ecc. Negli anni passati non è stato neppure possibile unificare le procedure pratiche di funzionamento delle imposte indirette già armonizzate quali l’IVA e le accise! È oggi possibile per un residente europeo acquistare un’auto in Francia, in Germania o in Italia, ma subito dopo l’acquisto egli dovrà fare i conti con i meccanismi di immatricolazione, registrazione e tassazione diversi nel paese di acquisto e in quello di residenza, diversità sufficienti ad eliminare ogni convenienza ad un acquisto in un altro paese. I benefici della unificazione monetaria entrano quindi in conflitto e possono facilmente essere vanificati dalla permanenza di regole e normative completamente differenti, con l’aggravio ulteriore della diversità linguistica. Tali difficoltà colpiscono ovviamente di più i grandi paesi che non i piccoli i quali, al contrario, possono utilizzare le molteplici rigidità esistenti a fini difensivi, e al tempo stesso trarre beneficio dall’integrazione commerciale, e risulteranno ulteriormente aggravate dall’allargamento. Ed è sorprendente come questi problemi che rischiano di trasformare la moneta unica in un boomerang piuttosto che in un vantaggio, non siano percepiti come prioritari e decisivi. In altre parole il problema principale dell’Europa non sembra tanto essere quello di una sindrome giapponese, quanto quello di un progetto incompiuto, e che procede con eccessiva lentezza o con salti volontaristici (allargamento). Diventa quindi urgente affrontare la tematica cosiddetta di approfondimento, partendo dal principio elementare di generalizzare gradualmente le best practices legislative e amministrative di ciascun paese e di rendere compatibili le normative economiche rilevanti. Altrimenti vi è il rischio che il principale (l’unico?) esempio di globalizzazione virtuosa rappresentato dall’Unione europea, possa entrare in crisi proprio nel momento in cui la necessità di un governo consapevole dei processi globali sembra farsi strada a livello internazionale. E le attuali difficoltà economiche dell’Europa, la sua incapacità a trasformare in crescita effettiva le opportunità che il processo di integrazione ha, avrebbe potuto, o potrebbe creare, si traducono inevitabilmente in minore prestigio e rilevanza politica, anche perché esse appaiono solo in parte di natura congiunturale.

Queste considerazioni vanno tenute presenti quando si considera lo specifico caso italiano. Come si colloca l’Italia in questo contesto europeo già di per sé non brillante? Se si osservano i dati disponibili, la situazione appare piuttosto deprimente: l’impressione che l’Italia sia a rischio di declino, non solo in termini relativi, ma anche assoluti, è reale. Rispetto alla performance già poco brillante dell’Unione europea, l’Italia fa peggio in pressoché tutti i settori. Vi è innanzitutto una progressiva riduzione del tasso di crescita effettivo. Dal 3,6% medio annuo degli anni Settanta, al 2,4% negli anni Ottanta, all’1,5% dei Novanta sino alla stagnazione attuale. Né si può attribuire tale evidente difficoltà al processo di risanamento degli anni Novanta, che – contrariamente a quanto da molti ritenuto – ha ridotto la crescita del prodotto di pochi decimi di punto, e in misura analoga a quella dei paesi europei coinvolti nel processo di convergenza. Anche la crescita potenziale si è fortemente ridotta dal 2,5% negli anni Ottanta (3% all’inizio di quel decennio), all’1,7% del decennio successivo, rispetto al 2,2% dell’Unione Europea, al 2,5% dell’area OCSE, al 3,1% degli USA. La produttività del lavoro rimane molto elevata rispetto agli standard internazionali, ma la sua crescita è in rapida diminuzione, e negli ultimi anni si è limitata all’1%. Anche gli investimenti appaiono in flessione rispetto alle tendenze passate; particolarmente bassi sono risultati negli ultimi anni quelli del settore Information Technology. Particolarmente negativi sono i dati relativi alla produttività totale dei fattori che nella seconda metà degli anni Novanta è scesa allo 0,7%. Poco confortanti sono le statistiche relative all’efficienza aziendale, con l’Italia collocata al 23° posto; all’efficienza della pubblica amministrazione (39° posto); a quella di sistema (31° posto). I livelli medi di istruzione della popolazione italiana sono inferiori alla media europea, così come lo è il grado di cultura generale dei nostri ragazzi. Le spese per la ricerca e lo sviluppo sono tra le più basse (0,5% del PIL, rispetto all’1,5% dell’Europa e al 2% degli USA), e di bassa qualità sono le spese per la formazione. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, la disoccupazione in Italia, pur essendosi fortemente ridotta negli ultimi anni, è superiore alla media europea e dei paesi OCSE (9% rispetto a 7% e 6,5%; gli Stati Uniti sono al 5%); i livelli occupazionali in Italia sono i più bassi della media europea: 55% rispetto a 65%; così come minore è la partecipazione alla forza lavoro: 60% rispetto ad una media europea del 70%. La stessa qualità dell’immigrazione dall’estero è decisamente inferiore rispetto a quella degli altri paesi. Anche la propensione al risparmio si è ridotta e si attesta oggi sui livelli medi europei: 20%, dopo essere stata per decenni nettamente superiore. I dati sulla competitività del paese sono noti: le esportazioni si sono progressivamente ridotte rispetto al passato e in misura maggiore rispetto agli altri paesi, nonostante la competitività di prezzo sia migliorata dopo le svalutazioni del 1992 e 1995, e la dinamica salariale sia stata molto contenuta: oggi le esportazioni italiane sono di poco superiori alla quota italiana nel PIL mondiale (3,7% rispetto al 3,1%); quella dell’area euro nel suo complesso (l’Italia inclusa) sono invece pari a quasi due volte la quota del PIL relativo.

Il quadro che emerge dalle statistiche è quindi abbastanza deprimente e preoccupante. Tuttavia esso va opportunamente interpretato. Innanzitutto, se i dati disponibili vengono disaggregati si può rilevare che il problema italiano è sostanzialmente un problema meridionale: le stesse statistiche, infatti, qualora da esse si scorpori l’economia meridionale, diventano del tutto comparabili, e anche migliori, di quelle degli altri paesi europei. Analogamente, se si tiene conto del fatto che la crescita della popolazione è stata negli anni passati nulla, e si ragiona quindi in termini di reddito pro capite, la valutazione sulla performance dell’economia italiana può risultare migliore. Inoltre non va dimenticato che le difficoltà attuali vengono da lontano, e che la situazione attuale dell’economia italiana potrebbe anche essere interpretata come l’approdo finale di una lunga fase di declino iniziata più di venti anni fa, alla fine degli anni Settanta, su cui potrebbe essere possibile basare un’opportunità di recupero. Alla fine degli anni Settanta l’Italia, infatti, è l’unico tra i principali paesi a non riuscire a riassorbire gli shock economici e sociali derivanti dalla conclusione della lunga fase di sviluppo post bellico, dalla improvvisa esplosione dei prezzi petroliferi, dalla crisi del sistema monetario internazionale. La condizione di democrazia bloccata, e l’impossibilità politica sia di un’alternanza al governo che alla creazione di governi di larga coalizione, rendono di fatto impossibili le riforme necessarie. Tra il 1974 e il 1984 l’inflazione media italiana risulta pari a poco meno del 16%, solo nel 1985 il tasso di inflazione scende sotto le due cifre (ma il differenziale rispetto agli altri paesi rimane molto elevato). Il disavanzo primario del settore pubblico si mantiene costantemente superiore al 3% del PIL, e solo a partire dal 1988 esso comincia a ridursi, soprattutto in virtù di una fase congiunturale particolarmente favorevole. Al tempo stesso l’adesione dell’Italia allo SME e il «divorzio» tra Tesoro e Banca d’Italia mettono in crisi il modello che aveva consentito, grazie all’imposta inflazionistica e a tassi di interesse reali negativi, di tenere assieme tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta una crescita di spesa primaria di sei punti di PIL e una pressione fiscale inferiore di dieci punti alla media europea. Il risultato di tale assurda dissociazione tra la politica fiscale e la politica monetaria fu l’esplosione della spesa per interessi e del debito pubblico che infatti sale dal 57,7% del PIL, del 1980, al 124% del 1994. Va osservato che, al contrario, la spesa primaria si stabilizza negli anni Ottanta su percentuali del 37-38% del PIL non dissimili da quelle attuali.

Solo di fronte al rischio di un collasso finanziario fu possibile nel 1992 iniziare il non breve né facile processo di risanamento finanziario. E solo allora, tra mille difficoltà e polemiche, si riuscì a riformare il meccanismo di indicizzazione dei salari e quindi a riportare sotto controllo la dinamica inflazionistica. È inutile polemizzare oggi sulle responsabilità di quanto è successo; esse sono molteplici e coinvolgono anche l’opposizione del tempo. Tuttavia i dati disponibili dimostrano in modo inequivocabile che nel decennio degli anni Ottanta, e particolarmente nella prima metà del periodo, sarebbe stato tecnicamente possibile, senza traumi eccessivi, riequilibrare la situazione ed arrestare un processo di deterioramento progressivo di cui oggi paghiamo le conseguenze. Purtroppo la politica non fu in grado di risolvere un problema piuttosto evidente ed ampiamente analizzato in sede tecnica. In tale situazione è evidente che la struttura economica del paese non poteva non soffrire fortemente. L’elevata inflazione, sollecitata dal progressivo slittamento del cambio e dei meccanismi di indicizzazione, determinava l’accorciamento del profilo temporale delle decisioni economiche, una distorsione delle scelte di investimento (penalizzando soprattutto quelle di lungo periodo), la crisi della liquidità delle imprese, e la prevalenza delle scelte finanziarie rispetto a quelle reali. Da qui ha origine il decentramento produttivo, la crisi dei grandi gruppi, e la riapertura della forbice tra la crescita del Centro Nord e quella del Mezzogiorno, penalizzato contemporaneamente dalla svalutazione e dalla crisi della industria chimica e siderurgica. Da qui, peraltro, ha origine la nuova fase dell’industrializzazione italiana basata sulla piccola e media impresa.

In tale contesto gli anni Novanta sono stati quelli del risanamento, e saranno ricordati come un periodo particolarmente positivo nella storia economica italiana: gli anni in cui si evita il collasso finanziario, e si pongono le premesse economiche e finanziarie, dopo oltre venti anni di disordine, per una nuova possibile fase di crescita che, al di là della situazione di stallo attuale non è tecnicamente (ripeto tecnicamente) impossibile. È quindi dalla situazione reale che si è prodotta dopo il risanamento che occorre partire. Essa è caratterizzata non solo dai dati prima esposti, ma anche da una situazione della finanza pubblica che va gestita con molta consapevolezza. L’eredità degli anni Ottanta si manifesta infatti tuttora in uno stock di debito pubblico circa il doppio di quello degli altri paesi. Con l’ingresso della moneta unica i tassi di interesse italiani sono finalmente gli stessi cui fanno fronte gli altri paesi. Ma un debito doppio rispetto al PIL comporta una spesa per interessi anche essa doppia rispetto a quella cui fanno fronte gli altri paesi europei. Ed infatti nel 2001 la spesa per interessi in Italia è stata pari al 6,3% del PIL rispetto ad una media europea del 2,7-3%. L’equilibrio attuale della finanza pubblica italiana si basa essenzialmente su una pressione fiscale pari alla media europea, e una spesa primaria inferiore a quella degli altri paesi nella misura necessaria a mantenere (quasi) in equilibrio il bilancio: tre punti di PIL. Ne deriva una insoddisfazione dei contribuenti che sentono di pagare più tasse rispetto al valore dei servizi ricevuti, senza che nessuno spieghi loro perché. E a ben vedere è proprio su questo punto che a partire dal 1998 l’esperienza dei governi di centrosinistra ha iniziato ad entrare in crisi. Infatti c’era consapevolezza e consenso sul risanamento, ma una volta compiuta la missione, molti hanno ritenuto che quella fase potesse essere accantonata, dimenticata e messa tra parentesi, per riprendere il tradizionale modo di procedere dei decenni passati.

Ma ciò non è possibile: l’onere addizionale del debito pubblico ci accompagnerà ancora per non pochi lustri. In tale situazione, mentre sarebbe autolesionistico aumentare l’imposizione, per gli ovvi riflessi negativi sulla competitività delle nostre imprese, soprattutto in un contesto in cui gli altri paesi tendono a ridurre le loro imposte, è anche molto problematico aumentare le spese per accogliere le richieste che legittimamente da più parti vengono avanzate. Poiché il bilancio pubblico italiano è fortemente esposto all’andamento dei tassi di interesse internazionali, la riduzione dello stock del debito pubblico rimane l’obiettivo fondamentale a medio termine. Ciò comporta la necessità di mantenere un surplus primario di dimensioni adeguate ed elevate: 5-6% punti di PIL circa. E a ben vedere è proprio su questo aspetto che si sta impantanando la politica economica del centrodestra. Avendo negato in radice l’esistenza dei vincoli e delle difficoltà reali dell’economia italiana, ed avendo costruito una visione edulcorata e propagandistica della situazione, esso oggi vive in modo molto evidente la contraddizione che ne deriva, rischiando di mettere a rischio il faticoso risanamento del decennio trascorso, senza neanche rendersi conto che è grazie a quello, e alla moneta unica, che la attuale <finanza creativa> non ha determinato una immediata divaricazione dei tassi di interesse italiani.

Cosa fare dunque? I vincoli sono quelli esposti. I dati statistici attuali non sono, come si è visto, particolarmente confortanti. In ogni caso le cose da fare sono abbastanza chiare: a) bisogna al più presto portare in equilibrio il bilancio strutturale, e stabilizzare il surplus primario a livelli compatibili con una riduzione adeguata del rapporto debito – PIL: solo in questo modo si riuscirà a minimizzare e ridurre l’onere del debito pubblico. Ciò comporta fare minore affidamento per la crescita sulla domanda interna, ma predisporsi a sfruttare al meglio una ripresa europea e internazionale; b) colmare gradualmente il ritardo – molto consistente – nella disponibilità di infrastrutture capaci di creare economie esterne per le imprese: a tal fine sarà necessario sia riequilibrare il rapporto tra spese correnti e in conto capitale nel bilancio pubblico, che utilizzare per quanto possibile strumenti finanziari di mercato, oltre alle risorse (crescenti nel tempo) derivanti dalla riduzione della spesa per interessi; c) mantenere costante la pressione fiscale ed utilizzare, come già fatto nell’esperienza della passata legislatura, il recupero di evasione per redistribuire il carico fiscale e finanziare la riorganizzazione di alcuni aspetti del sistema di welfare; d) rilanciare la ricerca pubblica e incentivare quella privata, e riorganizzare il sistema dell’istruzione con l’obiettivo di realizzare semplici risultati quantitativi e qualitativi che possano elevare i modesti standard attuali. In tale contesto è indispensabile promuovere un numero limitato, ma di indiscutibile qualità, di poli di eccellenza per l’istruzione superiore; e) recuperare un ruolo per una politica industriale consapevole basata sulla interazione tra la ricerca pubblica e privata, l’istruzione e la formazione e su obiettivi precisi di sviluppo in pochi campi decisivi: nuove tecnologie, energia, genetica, biotecnologie, nuovi materiali. Esempi recenti di altri paesi (per esempio il caso Nokia) dimostrano che questo è possibile, anche in un contesto di economie privatistiche di mercato. A tal fine possono essere creati strumenti finanziari finalizzati; f ) liberalizzare il più possibile l’economia, creando una pressione competitiva sulle nostre imprese, eliminando le posizioni di rendita dovunque esse siano, modificando il diritto, le procedure amministrative, i meccanismi (spesso impliciti) di incentivi e disincentivi, eliminando la convenienza che oggi fa sì che gli industriali italiani invece di investire e competere, cercano rifugio nei settori protetti, limitando e combattendo (costruendo le necessarie alleanze politiche) le posizioni corporative, rafforzando le autorità indipendenti; g) in tale contesto va fermamente respinta ogni suggestione neo-protezionistica, ricordando che storicamente la destra italiana ha sempre privilegiato gli impulsi al ripiegamento e alla chiusura difensiva presenti nel paese e in particolare nella borghesia italiana. La destra italiana è stata ed è storicamente protezionista, autarchica, nazionalista, dirigista, statalista, corporativa, provinciale, e non di rado mafiosa. Su questo terreno essa va combattuta frontalmente; h) analogamente a livello internazionale va sostenuta la riforma e il rafforzamento delle organizzazioni internazionali, e vanno ridotte ed eliminate le protezioni con cui i paesi più forti si difendono dalle esportazioni di quelli più poveri; i) si deve, piuttosto, riconoscere che l’esistenza di una miriade di piccole e medie imprese rappresenta un elemento di forza e di vitalità invidiabile e preziosa, vanno anche studiati con attenzione i motivi e gli ostacoli di diversa natura che oggi determinano la convenienza delle medie imprese a non crescere. In proposito possono giocare fattori finanziari, fiscali, di assetto contabile, di mancanza di consulenze adeguate, ecc. che vanno rimossi; l) va promossa e facilitata una riduzione della concentrazione del reddito personale e familiare, che in Italia risulta parecchio sperequata. Ciò ha a che vedere non solo con le politiche fiscali e della spesa pubblica, (in particolare con l’attuale sistema di welfare) ma ancora di più con le politiche retributive e salariali, con l’istruzione e la formazione, con l’eliminazione di posizione di rendita (grandi e piccole) e di monopolio, e, ancora una volta, con l’arretratezza del mezzogiorno; m) va riconosciuto anche alla luce di recenti ricerche (come quella del Censis sui costi della presenza mafiosa sulle imprese), che la questione meridionale non è un problema di risorse e neppure di ordine pubblico, bensì principalmente un problema di contesto sociale, e sociologico, un problema di classi dirigenti, un problema di cultura, di acquisizione di responsabilità individuali e collettive e di gerarchie dei valori, che va affrontato con una grande mobilitazione democratica, e ancora una volta con investimenti in capitale umano: istruzione, formazione, ec.

Non ho accennato ai problemi delle riforme istituzionali, ma mi sembra ovvio che esse andrebbero finalizzate e subordinate alla soluzione dei problemi economici che ho cercato di individuare ed esporre: troppo spesso si è avuta in questi anni l’impressione di un dibattito fine a se stesso che rischia di produrre risultati non coerenti con i problemi reali del paese. Concludendo, le possibilità di ripresa e di recupero esistono, esse si basano sul risanamento intervenuto, sull’integrazione europea e sulla fine di oltre vent’anni di disordine finanziario. È quindi possibile aprire una nuova fase; il percorso non è indolore, né privo di ostacoli; ma solo spostando il dibattito sulle questioni reali che il paese ha di fronte, uscendo dalle contrapposizioni ideologiche, personali e di schieramento, che oggi prevalgono nell’opposizione, sarà forse possibile liberarsi di questa destra eversiva, regressiva, inconcludente e pericolosa. Prima che sia troppo tardi.3

 

 

Bibliografia 

1 Da questo punto di vista emblematica è la recente presa di posizione del governo italiano che ha bloccato la direttiva sul risparmio per ottenere concessioni in tema di costo del gasolio per autotrasporto e quote latte. Questo metodo di <ricatto trasversale> è stato in passato utilizzato, sia pure se con maggiore eleganza, anche da altri paesi in passato, ed è ovviamente in grado di portare alla paralisi di ogni decisione.

2 Analoga valutazione viene compiuta da J.P. Fitoussi, Le règle e le choix, du Seuil, Paris 2002.

3 Questo scritto riproduce la relazione presentata al convegno sull’economia italiana organizzato dai Democratici di Sinistra dal 28 febbraio al 1 marzo 2003.