Stabilità e sicurezza ai confini dell'UE: la Politica europea di vicinato

Di Gianfranco Bochicchio Giovedì 26 Giugno 2008 18:45 Stampa
La Politica europea di vicinato nasce dall’esigenza di stabilizzare la regione del Sud-Est europeo. Essa è tuttavia gravata da alcune pesanti eredità politiche. In primo luogo, riunendo sotto un unico ombrello Stati e regioni molto diversi tra loro, poco si presta alla definizione di un approccio unico. Inoltre, non ha ancora del tutto chiarito i suoi rapporti con i più importanti attori della regione, ovvero Stati Uniti e Russia, e con altre iniziative multilaterali quali l’allargamento. Emerge un quadro tutto sommato positivo dei risultati raggiunti dalla PEV finora, anche se vi sono potenzialità ancora inespresse.

Politica europea di vicinato: nascita e obiettivi

Nel 2004, l’allargamento dell’UE a 10 nuovi paesi dell’Europa centrorientale1 e meridionale2 (con il progetto di includervi, in prospettiva, Bulgaria e Romania) estendeva ai nuovi paesi membri i rilevanti benefici, in termini di democratizzazione, applicazione di principi dell’economia di mercato e di stabilità, apportati dai precedenti allargamenti dell’Unione europea. Il successo del modello di “assimilazione” sperimentato tramite la strategia di allargamento ha spinto dunque la Commissione europea a proporre una strategia di cooperazione e integrazione politica che consentisse, pur non prevedendo prospettive di adesione, di riproporre numerosi elementi del modello sperimentato in precedenza nei confronti dei paesi candidati. Il progetto di Politica europea di vicinato (PEV) nasce dunque in contemporanea al quinto allargamento dell’Unione, che per le sue dimensioni può essere definito un vero e proprio big bang politico-strategico. In effetti, proprio nel maggio 2004, data alla quale avviene l’ingresso nell’UE dei dieci, la Commissione europea pubblica un primo documento di strategia,3 dal quale emerge la forte presa di coscienza che con il nuo- vo allargamento il baricentro dell’Unione europea si sposta verso Nord e verso Est. La PEV viene dunque concepita con l’obiettivo strategico di riunire sotto un unico ombrello quei paesi che, in seguito all’estensione territoriale dell’UE, erano divenuti dei “nuovi” vicini, al fine di creare una vasta zona di stabilità, prosperità e cooperazione ai confini dell’Unione allargata.4

Nei decenni precedenti, l’UE aveva già stretto forti legami con numerosi raggruppamenti regionali e subregionali, stabilendo articolate e approfondite relazioni nei campi politico, economico e della cooperazione allo sviluppo, assicurando consistenti livelli di assistenza economica, finanziaria e tecnica. Una delle chiavi di interpretazione del successo dell’UE consiste nell’approccio originale seguito rispetto ad altri attori globali, quali gli Stati Uniti o la Russia. L’Europa infatti non si è semplicemente concentrata sulla tutela dei propri interessi commerciali, sebbene non abbia certo mancato di perseguire la propria agenda commerciale globale, ma si è anche preoccupata di far avanzare il dialogo e le buone pratiche in materia di diritti umani, di consolidamento delle istituzioni democratiche e della good governance, di partecipazione delle popolazioni al processo decisionale.

Questi dunque gli elementi di originalità che la proposta comunitaria ha valorizzato presso i nostri vicini, che possono essere sintetizzati in: a) consolidamento del processo di stabilizzazione e di integrazione regionale; b) definizione di una strategia comune su temi d’attualità, sui quali l’Unione ritiene necessario un confronto e un approccio condiviso, quali politiche migratorie, sviluppo equo e sostenibile e promozione dei diritti umani; c) approccio asimmetrico calibrato sulle esigenze dei singoli paesi.

La concezione della PEV rispondeva tuttavia anche ad altre esigenze, di natura più prettamente strategica. In primo luogo, essa costituiva, in parte, la risposta europea al progetto americano di Broader Middle East, lanciato dall’Amministrazione Bush nel 2003 nell’ambito della strategia post-11 settembre, con l’obiettivo di perseguire la stabilità nella regione del “Grande Medio Oriente” (dal Marocco fino all’Iraq) e di ripristinare un dialogo con il mondo islamico su nuove basi, facendo leva sull’idea dell’esportazione della democrazia. Una visione, dunque, in parte diversa da quella europea, fondata in primo luogo sull’integrazione regionale e sull’avvicinamento politico-normativo agli standard europei. In secondo luogo, vi era la consapevolezza che l’UE, con l’adesione di Bulgaria e Romania, avrebbe di lì a poco condiviso il confine con una regione, quella del Mar Nero, potenziale fonte di tensioni e di instabilità politica anche a causa di conflitti solo in apparenza “congelati”, come quelli della Transnistria, del Nagorno-Karabach, dell’Ossezia e dell’Abkhazia. Vi erano dunque evidenti ragioni che spingevano l’Europa a elaborare strumenti che favorissero lo sviluppo e la stabilità della regione caucasica e del Sud-Est europeo in generale. Infine, e forse è il caso di dire soprattutto, la Politica europea di vicinato traeva spunto da una riflessione sulla scarsa efficacia di forme di cooperazione regionale già esistenti sul versante meridionale del vicinato, ovvero nel Mediterraneo.

Per comprendere la genesi della Politica di vicinato è infatti necessario fare anche un primo bilancio dei risultati ottenuti dal Processo euromediterraneo di Barcellona, cui peraltro si sovrappone per quanto riguarda i paesi mediterranei. Per la verità, i successi di Barcellona non possono essere ignorati. Si pensi in particolare alla capacità di fornire alle relazioni euromediterranee un quadro sistemico e istituzionalizzato,5 in grado di gestire un partenariato articolato con una regione complessa, e un insieme di politiche e progetti che hanno permesso utili esercizi di confidence building. In questo senso, il Processo di Barcellona ha sicuramente facilitato i rapporti tra l’UE e i paesi della regione, improntati ormai a una sempre maggiore cooperazione e rispetto reciproco.

PEV e Processo euromediterraneo

In effetti, l’approccio europeo alle relazioni euromediterranee denunciava già da tempo alcuni segni di difficoltà e di stanchezza. Alcuni sintomi rendevano evidente questa diagnosi: la forte domanda di Europa da parte dei partner mediterranei che non si riusciva a soddisfare (in termini di finanziamenti e di vantaggi concreti per i cittadini); la lentezza dei processi decisionali e di alcuni negoziati in corso nella regione; gli spazi lasciati a una espansione, sempre più attiva, degli altri attori globali, in grado di fornire immediate e concrete rispo- ste ai bisogni dei paesi mediterranei: basti pensare agli accordi commerciali conclusi in tempi record dagli USA con Marocco e Tunisia, oppure agli ingenti investimenti provenienti dai paesi del Golfo, no strings attached.

Le delusioni suscitate da Barcellona sono quindi legate alla complessità del processo, alla sua limitata visibilità politica e sul territorio, alla scarsa legittimazione popolare. Inoltre, gli obiettivi del partenariato sono stati solo parzialmente raggiunti, incluso quello più rilevante, sia dal punto di vista giuridico che politico, riguardante le relazioni commerciali, il cui fine ultimo è quello di creare una Zona di libero scambio entro il 2010. Questo obiettivo è stato raggiunto solo dalla Tunisia, nel 2008 (in anticipo sui tempi), ma solo per i prodotti industriali. Ma è soprattutto nello sviluppo del dialogo politico che i risultati si sono rivelati inferiori alle ambizioni dichiarate. Illustrazioni di tali frustrazioni sono lo scarso contributo fornito dal Processo di Barcellona alla tutela dei diritti dell’uomo e alla promozione delle configurazioni subregionali. Nel primo caso il partenariato, pur disponendo di strutture e meccanismi istituzionali adeguati, non è stato in grado di stimolare le necessarie riforme dei paesi partner, né di definire criteri comuni di riferimento per valutare e comparare i progressi. Nel secondo caso, ogni tentativo volto a stimolare, anche con il sostegno concreto dell’UE, la cooperazione Sud-Sud in ambito subregionale (ad esempio, in seno all’Unione per il Maghreb Arabo, oppure all’interno del Gruppo di Agadir) è stata sistematicamente bloccata dai conflitti, aperti o latenti, presenti nella regione (Palestina e Sahara Occidentale). In altre parole, non si può non formulare un giudizio severo in merito alla capacità del partenariato di indurre cambiamenti politici ed economici di fondo, e di influenzare l’evoluzione della situazione all’interno dei paesi, caratterizzati da: riforme politiche, nella migliore delle ipotesi, embrionali (ad eccezione del Marocco); aggravamento delle disparità sociali ed economiche interne, fonte spesso di derive islamiste radicali; stagnazione economica e perdita di competitività nei confronti di regioni più dinamiche, ad esempio Europa centrorientale, Asia, paesi del Golfo.

La PEV si sviluppa in questo scenario di sfide geopolitiche. L’UE è dunque chiamata a fornire delle risposte ad alcune domande fondamentali che condurranno inevitabilmente a interrogarsi sulla concezione che l’Europa ha del proprio ruolo nel suo immediato vicinato: sarà in grado di garantire stabilità e prosperità senza poter mettere sul piatto della bilancia la prospettiva dell’adesione? Il vicinato è concepito semplicemente come un modo per frenare le minacce transnazionali che incombono sull’Europa, oppure come uno strumento connettivo dell’Europa con le regioni che la circondano, in un’ottica di sempre maggiore interdipendenza? Taluni obiettano che la PEV nasce con qualche pesante eredità concettuale e politica. In primo luogo, si sostiene che questa politica, riunendo sotto un unico ombrello Stati e regioni molto diversi tra loro (Marocco e Moldova, Ucraina e Tunisia, Siria e Bielorussia), che in apparenza non hanno nulla in comune, sia poco più di un “matrimonio di interessi”, che non giustifica la definizione di un approccio unico. In effetti, le prime reazioni dei partner al nuovo progetto non sono incoraggianti. Gli uni – i mediterranei – temono di vedersi sottrarre risorse a beneficio di Stati (quelli dell’Europa dell’Est) percepiti come più efficienti in termini di governance; gli altri – come l’Ucraina – vedono nella PEV un semplice trampolino per spiccare il balzo verso l’adesione. Tuttavia, con la PEV l’interesse dell’UE nei confronti dei singoli paesi smette di essere funzione dell’interesse speciale (e contingente) che ogni Stato membro nutre per questo o quel partner – sulla base di considerazioni storiche, politiche ed economiche – bensì essa obbliga l’UE a ragionare in termini globali sulle sfide comuni da affrontare: energia, traffici illeciti, commercio, instabilità politica, solo per menzionarne alcune. Inoltre, la PEV, secondo il principio della differenziazione, non ha affatto vocazione all’omogeneità; piuttosto, essa mira a definire misure e proposte per ogni singolo paese, declinate sulle ambizioni e le specificità di ognuno. Questo concetto fondamentale è stato bene recepito da tutti i paesi destinatari della politica.

La seconda obiezione riguarda la relazione tra gli strumenti e gli obiettivi. In effetti, la politica presenta una discrasia tra gli strumenti che utilizza, affatto dissimili da quelli usati nei negoziati di adesione (progressi basati su merito, istituzionalizzazione del dialogo tramite istanze tecniche e politiche, allocazione bilaterale delle risorse), e gli obiettivi che si prefigge: nel primo caso l’adesione, nel secondo un mero rapprochement normativo e regolamentare, con forme più o meno approfondite di partecipazione alle politiche comunitarie. Rimane tuttavia il principio dell’avanzamento per meriti propri, che potrà sfociare, ad esempio, in un nuovo Accordo rafforzato con l’Ucraina, nell’upgrading delle relazioni con Israele, nello Statut Avancé per il Marocco, oppure in un Accordo di libero scambio per la Georgia.

La PEV e gli attori globali

La Politica europea di vicinato non ha ancora del tutto chiarito i suoi rapporti con alcuni importanti attori globali, ovvero Stati Uniti e Russia. La stabilizzazione dell’area del vicinato europeo richiederà sicuramente uno sforzo di cooperazione tra Europa, Stati Uniti e Russia. Ad Est (Moldova, Ucraina, Caucaso), ma anche nel Mediterraneo, la Russia è un attore chiave. Certamente il tono più rivendicativo e perentorio di Mosca ha spinto i suoi vicini alla ricerca di solidarietà e sostegno europeo, rendendo forse la PEV più attraente per questi paesi. Al tempo stesso, i suoi interessi nell’area andrebbero conciliati con quelli dell’Europa, specie ove si dovesse iniziare a parlare concretamente di prospettiva di adesione all’UE di Ucraina e Moldova.

Dal canto loro, gli Stati Uniti restano un attore essenziale nel Mediterraneo, ma la guerra in Iraq ha mostrato i limiti delle capacità di influenza americana. L’Europa, finora considerata quasi esclusivamente un attore economico (payer), sta anch’essa assumendo un ruolo più profilato non solo sul piano politico e della sicurezza, ma anche come soggetto (player) che, più degli Stati Uniti, riesce a innescare una cooperazione anche in materie di più immediato interesse delle popolazioni, quali l’inclusione sociale, la difesa delle minoranze, la lotta alla povertà, il rispetto dei diritti civili. Washington stessa ha ormai capito che la strategia di integrazione funzionale perseguita dall’Europa nei confronti dei suoi vicini è strumentale anche per i suoi obiettivi di stabilità nella regione, e che la cooperazione “sul terreno” sviluppata dalla UE può avere ricadute positive sul dialogo tra l’Occidente e il mondo mussulmano. C’è tuttavia da chiedersi se la strada finora seguita dall’Unione nei rapporti con l’area sia coerente rispetto a questa aspirazione.

Gli strumenti della PEV

La Politica europea di vicinato dispone dei mezzi per rispondere agli imperativi strategici dell’Europa. Piuttosto che imporre riforme dall’esterno, secondo lo schema sinora prevalente nei rapporti euromediterranei nel quadro del Processo di Barcellona, la PEV fornisce sostegno alle iniziative concrete di sviluppo già intraprese dagli stessi paesi partner. Il valore aggiunto europeo è dunque, in primo luogo, di natura politica, in quanto si prospetta lo sviluppo di relazioni politiche bilaterali conformemente ai progetti di riforma e modernizzazione, sanciti dai singoli Piani d’azione6 negoziati con l’UE da ognuno dei partner. Questi ultimi, in quanto specchio di un progetto politico autoctono, rendono tale cooperazione molto più sostanziale e operativa che in passato. Ed è forse qui il primo elemento di novità rispetto a Barcellona: l’intento è infatti di sviluppare relazioni politiche specifiche con ogni singolo partner, in conformità con un programma di governo sintetizzato da un Piano d’azione, al fine di dare un senso tangibile all’idea dell’appropriazione (o co-ownership) e per uscire dalla logica di un multilateralismo costantemente limitato dalla ricerca di punti di compromesso. Implicita in questo approccio è la necessità di una coresponsabilizzazione degli attori, in quanto il contributo dell’UE non potrà che essere di natura “incrementale”, dato che Bruxelles non potrà intervenire laddove non esiste un progetto nazionale e consolidato di riforme.

Il contributo europeo è inoltre di natura economica e finanziaria. La PEV mira infatti all’ancoraggio dei vicini al Mercato interno, e alle sue strutture e istituzioni, in particolare ad alcune agenzie e programmi comunitari. Questa rappresenta una grande opportunità, ma anche una sfida per i partner dell’Europa, i quali potranno tuttavia beneficiare del sostegno tecnico e finanziario dell’UE per attuare con successo e con la necessaria flessibilità le proprie riforme. Finanziariamente, infine, la PEV è stata dotata di ingenti risorse per la realizzazione degli obiettivi che si prefigge, con una dotazione complessiva del nuovo Strumento di vicinato e partenariato (ENPI, European Neighbourhood and Partnership Instrument) pari a quasi 12 miliardi di euro per il periodo 2007-13. Esso interessa i paesi che beneficiano della Politica europea di vicinato, sostituendo quindi i programmi MEDA e, in parte, TACIS, e fornisce sostegno al partenariato strategico con la Russia. L’ENPI si rivolge ai macro-obiettivi della PEV: lo sviluppo economico e sociale dei paesi vicini; la sicurezza e la stabilità alle frontiere; le sfide comuni dell’ambiente, dell’energia, dell’immigrazione e del crimine organizzato transnazionale; la progressiva liberalizzazione degli scambi e degli investimenti nell’ambito di un ampio mercato strutturato su reti interconnesse (di comunicazione, trasporto ed energetiche), fondato su regole e standard armonizzati e gestito da istituzioni statali efficienti. Una componente specifica dell’ENPI è costituita dalla cooperazione transfrontaliera (CBC), nel cui ambito verranno finanziati dei “programmi congiunti” tra i territori degli Stati membri e dei paesi vicini che condividono una frontiera terrestre o marittima. Esso rappresenta uno strumento fondamentale per la costruzione del tessuto sociale e per l’approfondimento della conoscenza reciproca, che va anche al di là delle aree eleggibili e degli stanziamenti previsti. Tra i vari programmi attivabili in quest’ambito, riveste particolare rilevanza il Programma multilaterale sul bacino Mediterraneo, la cui gestione congiunta è stata affidata alla Regione Sardegna, e prevede uno stanziamento complessivo di circa 173 milioni di euro.

Bilancio in chiaroscuro

La Commissione produce periodici rapporti sui progressi compiuti nella PEV. Nella sua recente Comunicazione sul futuro della politica,7 pubblicata lo scorso 3 aprile insieme ai rapporti-paese, la Commissione ha confermato che differenziazione e approccio unitario costituiscono i principi fondamentali della politica. Tra i principali progressi realizzati nel 2007, vengono citati alcuni settori prioritari: a) integrazione economica, con i negoziati in corso per un Accordo di libero scambio con l’Ucraina e per la liberalizzazione di servizi e prodotti agricoli con Marocco, Egitto e Israele; b) mobilità, in particolare gli accordi conclusi con Ucraina e Moldova su visti e riammissione, e la prossima definizione di un partenariato sulla mobilità con Chisinau; c) energia, ovvero la firma di specifici Memorandum d’intesa con Ucraina, Azerbaijan e Egitto.

La Commissione non manca, nel contempo, di evidenziare le aree in cui la PEV ha operato con scarsa incisività, in particolare nell’affermazione del ruolo dell’UE nella risoluzione dei conflitti congelati e nello sviluppo di ulteriori meccanismi di sostegno alla governance politica (corruzione, diritti fondamentali) ed economica (clima degli investimenti, differenziazione commerciale) dei paesi partner. Sul piano metodologico, è stata infine evidenziata la carenza di benchmark comuni, che rende difficoltosa la comparazione dei progressi effettuati da paesi molto diversi tra loro, specie per quanto riguarda i criteri di governance.

Alla luce dei risultati ottenuti dai singoli paesi, la Commissione propone di rafforzare le relazioni con i quattro paesi più avanzati – Marocco, Israele, Moldova e Ucraina – con i quali peraltro si stanno già definendo forme di cooperazione più approfondite. La Comunicazione argomenta, inoltre, in favore del mantenimento, in futuro, dell’attuale impianto operativo dei Piani d’azione. Riconosce tuttavia che occorreranno alcune modifiche nella loro impostazione, a partire da una loro migliore correlazione con i programmi interni di riforma, al fine di accrescerne l’efficacia, e da una più chiara indicazione di priorità e tempistica degli interventi. Rimane inoltre ancora aperta la possibilità che, in seno alla PEV, si creino forme di cooperazione con singole subregioni. A questa ipotesi si potrebbe obiettare che la definizione di rigide dimensioni regionali rischierebbe di entrare in contraddizione con il concetto stesso di differenziazione per paese, sebbene è indubbio che una migliore cooperazione subregionale avrebbe ricadute positive in tutto il vicinato. In questo contesto, l’Italia è ovviamente interessata a un tale sviluppo che garantisca tuttavia coerenza fra la PEV e le altre strategie che la UE sta sviluppando nella regione (settore energetico, migrazioni, UE/Africa).

Conclusioni

In conclusione, è un quadro della PEV tutto sommato positivo quello che emerge finora, anche se con potenzialità ancora inespresse. La Politica europea di vicinato diventa sempre più parte del discorso politico interno e delle decisioni operative prese dai governi. La programmazione delle risorse finanziarie è dunque sempre più legata alle priorità nazionali definite dai singoli paesi. Questi ultimi sono sempre più consapevoli che la Politica non è una mera giustapposizione di due regioni, ma una componente essenziale della presenza dell’Unione europea nel mondo.

Occorrerà tuttavia iniziare una riflessione più approfondita su alcune questioni finora trascurate. In primo luogo, il futuro delle relazioni con quei paesi che di fatto si sono sinora “auto esclusi” dalla PEV, ovvero Libia, Bielorussia, Siria e Algeria, nei confronti dei quali dovremmo, in tempi rapidi, definire proposte innovative e realistiche. In secondo luogo, la relazione tra PEV e allargamento, ancora poco chiara: le aspirazioni ucraine e moldave a una futura adesione sono state finora accantonate argomentando che l’Europa non è pronta a ulteriori allargamenti dopo quello monstre del 2004. Tuttavia, permangono delle tensioni evidenti nella definizione degli obiettivi bilaterali e multilaterali della PEV. I suoi sviluppi futuri saranno inoltre determinati da alcune iniziative lanciate recentemente. Ci si riferisce in particolare al progetto francese di Unione per il Mediterraneo che, benché abbia il merito di rimettere il Mediterraneo al centro dell’attenzione delle politiche europee, potrebbe a termine rimpiazzare i meccanismi di cooperazione regionale già esistenti nell’area, ovvero PEV e Processo di Barcellona. In terzo luogo, sulla ridefinizione complessiva dell’approccio dell’UE verso la regione nel suo complesso, in particolare in vista della progressiva eliminazione delle cause strutturali della povertà e delle disuguaglianze, senza tuttavia imporre un modello di sviluppo. Non si dovrebbe dimenticare infine che il successo della PEV si fonda sulla condivisione di valori, quali il primato delle leggi e il rispetto dei diritti dell’uomo, in grado di favorire l’inizio di un processo irreversibile verso la democrazia, in assenza del quale sfumerebbe il senso stesso della Politica e del sostegno ai nostri partner.8

 

[1] Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Lituania, Estonia, Lettonia, Slovenia.

[2] Malta e Cipro.

[3] Commissione europea, European Neighbourhood Policy. Strategy Paper, COM(2004) 373, Bruxelles, 12 maggio 2004.

[4] Ne fanno parte: Algeria, Autorità Palestinese, Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Egitto, Georgia, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Moldova, Siria, Tunisia, Ucraina.

[5] Consigli e Comitati d’associazione, Gruppi di lavoro tecnici, incontri periodici a livello di ministri e alti funzionari; Assemblea parlamentare euromediterranea; Fondazione euromediterranea per il dialogo tra le culture “Anna Lindh”.

[6] Attualmente, sono stati negoziati dodici Piani d’azione: Armenia, Autorità Palestinese, Azerbaijan, Egitto, Georgia, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Moldova, Tunisia, Ucraina.

[7] Commissione europea, Implementation of the European Neighbourhood Policy in 2007, COM(2008) 164, Bruxelles, 3 aprile 2008.

[8] L’autore si assume la responsabilità per le opinioni espresse. Esse non rappresentano il punto di vista della Commissione europea o del ministero degli Affari esteri.