Grandi Fratelli. Narrazioni e individui oltre il libero arbitrio

Di Alessandro Agostinelli Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa
 
C’è una nuova condizione antropica oggi: la fama modesta. La fama non è più gloria di gesta riportate da testimoni (storici o giornalisti sportivi che siano); non è leggenda articolata narrativamente dal cronista (si tratti delle storie su Gesù o Jim Morrison poco importa al giovanilismo occidentale); non è la fortuna dell’autore scaturita dalla popolarità o dal valore delle sue opere, di qualunque arte siano (pittura, cinema o cos’altro). 
 

 

Things do not explode, they fail, they fade…

Derek Walcott

 

 

C’è una nuova condizione antropica oggi: la fama modesta. La fama non è più gloria di gesta riportate da testimoni (storici o giornalisti sportivi che siano); non è leggenda articolata narrativamente dal cronista (si tratti delle storie su Gesù o Jim Morrison poco importa al giovanilismo occidentale); non è la fortuna dell’autore scaturita dalla popolarità o dal valore delle sue opere, di qualunque arte siano (pittura, cinema o cos’altro).

Oggi la fama è soltanto «esserci», essere dentro al luogo mediato/mediatico della realtà, artefatta dalla «dottrina del globalismo», che è la brutta copia della ellenizzazione; è una fama per procura che coinvolge tutti. La fama è quindi una condizione quotidiana e ansiogena, produce in se stessa i confini della propria estensione, chiude entro i suoi mezzi l’orizzonte della vita. Chi non ce l’ha la cerca, in qualche modo; la maggior parte finge di averla, magari indirettamente – pensiamo a chi si fa lustro di appartenere a qualcuno o a qualcosa di importante (la retorica dei funzionari di partito, i dirigenti delle grandi aziende, i detentori di cospicui fondi economici, i figli di padri autorevoli in qualche disciplina, gli abbonati di qualche ente prestigioso ed esclusivo, ecc). In questo discorso si devono distinguere i personaggi del cinema, della musica, della televisione che hanno una fama più o meno consolidata: essa, come la ricchezza economica, permette il distacco dal corpo sociale e una condizione di leggerezza e molteplicità; tuttavia questa «fama consolidata» va sempre più mescolandosi con la nuova e crescente fama modesta.

La fama modesta è il peso della contemporaneità, è ciò che dà corpo immobile (staticità) a corpi umani altrimenti evanescenti perché soltanto reali e anonimi, in qualità di clienti, utenti, ospiti, pubblico, spettatori, ecc. La semplice massa (tipologicamente novecentesca) su cui si fondava il potere dell’industria culturale e del condizionamento socio-individuale, si frammenta adesso in generi umani: non più razze o etnie, ma utenti di sport, telenovelas, informazioni, cibo per gatti, diurni per alzheimer, viaggi organizzati, liste di nozze, e così via.

Come sosteneva Barthes «ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più “false” (meno “autentiche”)».1 Pare di essere piombati dentro un regime paradossale, in cui la «virtualità» (nel senso radicale del termine) è la condizione degli esseri umani in carne e ossa, ormai suddivisi in categorie – badate bene, non solo di consumo –,2 e la «realtà» è quella immobile di chi ha fama modesta e diventa dunque statico e corporale.

L’apice di tale novità sociale sono i programmi televisivi che potrei definire di «teatro reale». Le trasmissioni di real tv serializzata (singolarmente chiamati anche programmarealtà, sintesi efficace ma inquietante se intesa come imperativo di un progetto di realtà da pianificare in un programma) sono appunto una sorta di drammatizzazione dell’esistente:3 l’esserci della fama modesta viene programmato per riprodurre se stesso all’infinito, in una pratica rituale e ossessiva del mostrare il già noto. In questa fascia, l’evento mediatico del Grande Fratello4 si è basato sul fatto che un gruppo di persone normali diventano un gruppo di persone speciali. Le persone individuate per interpretare loro stesse sono state scelte «scientificamente» (secondo parametri psicologici, comportamentali, fisiognomici, attitudinali, performativi, dialogici, caratteriali, narrativi, ecc.) da vari professionisti. Le persone scelte, per il solo fatto di essere state scelte in quel loro ruolo, hanno acquisito immediatamente un’accresciuta valorizzazione personale, quantificabile in misura economica e secondo correnti criteri di popolarità.

 

Paramoderno

Il critico televisivo Aldo Grasso ha scritto che «il Grande Fratello è la trasmissione meno spontanea e più pilotata che esista (…). È tutto un po’ vero e un po’ falso».5 È possibile che Grasso abbia una piccola parte di ragione, ma non va certo preso alla lettera. I ragazzi della trasmissione televisiva «Il Grande Fratello», pur essendo persone normali che si sono comportate normalmente, come se quella che hanno vissuto fosse stata davvero la loro vita quotidiana, sono diventati quasi-attori da subito. Ciò che è accaduto in diretta televisiva 24 ore su 24 è stata una recita a soggetto inconsapevole.

Tutti i partecipanti, scelti per vivere nella casa telecamerizzata, sono stati veri come gli attori e falsi come le persone, cioè paradossali. I loro ruoli sono stati miscelati insieme, in un tempo ragionevole, dalla sapienza di psicologi, autori esperti di caratteri e narrazioni, sociologi. Tuttavia ciò che è accaduto in quel programma TV non è stata né realtà né virtualità, ma una condizione nuova che, inaugurando il nuovo millennio, si è aggiunta alla etichetta postmoderna.

I programmi TV di «teatro reale» si iscrivono in una nuova forma paradigmatica del nostro tempo, che esonda direttamente dalla letteratura più visionaria del Novecento. È il concetto di paramoderno, cioè di un tempo «mancato alla modernità», in una rappresentazione che in passato è stata orwelliana e kafkiana, cioè quella di un universo dove nessuno è mai solo, dove tutti sono oggetto di controllo immediato, dove il passato non è più comparabile, né necessariamente condivisibile o discutibile con il prossimo, ma enunciato fermo (staticità), pura assertività. Scomparsi gli eroi romantici; annullato l’uomo-consumatore massificato; messo da parte l’homo viator, intellettuale in cerca di una possibilità; nella posizione contemporanea l’uomo trova soltanto suoi simili dalle personalità frizzate dentro il luogo digitale.

Nella nostra epoca, concettualizzata come postmodernità (così come articolata da Lyotard e descritta da Vattimo – e ci sarebbe anche la prospettiva della «sur-modernità» motivata da Augé), c’è da tempo questa strada alternativa, una realtà parallela che spesso viene scambiata per o è prodotta come realtà, un percorso ombra: la paramodernità. Tuttavia è pratica di molti filosofi, semiologi, sociologi, uomini di scienza, cercare di sezionare il passato e di nominare il presente in un pericoloso quiz euristico, dove le risposte probabilistiche nascono da domande non sempre necessarie. Sorprende il motivo di tale teorica della «dissociazione da», come se scolpire con particolare nettezza i contorni di un periodo o di una epistemologia nominalistica servisse a vedere meglio. Dopo l’analisi ritengo che a tale pratica corrente, a tale impeto odisseo, sia da preferire la posizione alessandrina dell’accumulazione/integrazione di culture e saperi, cioè una poetica (quale ideazione nel fare, nel disporre, nell’ordinare) di neo-sincretismo.  

 

Personaggio-ruolo

Nella pseudo-recita del Grande Fratello, dove il raffreddamento minimale ha prevalso, i partecipanti sono stati personaggi-ruolo6 che hanno dispiegato la sfumatura successiva di sé, come se la vita del futuro prossimo che ancora non sapevano di dover vivere lì dentro fosse già stata scritta su un copione. Anche tutto ciò che poteva sembrare una mossa di spariglio, un’improvvisa variazione è stato soltanto ciò che la grande narrazione interna al gioco fittizio del Grande Fratello aveva già previsto. Con le loro vite reali, i ragazzi del Grande Fratello, che pensavano di vivere davvero in proprio, come se avessero scelto autonomamente ogni giorno il loro dire e fare, non hanno fatto nient’altro che scandire i tempi narrativi preimpostati. Ciò che è parso loro il proprio libero arbitrio, non è stato nient’altro che il «copione» che sono stati costretti a recitare a loro insaputa, seguendo un’autorità autoriale assente, quella che potremmo definire «l’inerzia del narratore», cioè un piano narrativo a sua volta non premeditato, e che si autosviluppa in assenza di racconto.

In pratica gli ospiti della casa del Grande Fratello e gli autori del programma televisivo hanno lavorato su un copione preimpostato, ma inesistente; il loro lavoro era al tempo stesso cosciente e inconsapevole. Come lo scambio rapido e senza un mittente-individuo dei testi in rete non hanno più necessità di un autore fisico, si annulla cioè il principio «classico» della relazione comunicazionale io/tu, mittente/destinatario, e si è sempre più in mezzo a informazioni e idee condivise da noosfere mediatiche settoriali, così anche in TV non c’è più autore, non c’è più personaggio. Aboliti i discorsi, aboliti i testi, azzerate le narrazioni, resta soltanto l’atmosfera, il contesto.

Il cosiddetto programma-realtà esprime la quintessenza della società dello spettacolo, non più in quanto società dell’industria culturale, ma proprio della società tout court. Nel caso del Grande Fratello, come dei programmi suoi omologhi o dell’allestimento abitativo cileno (la casa trasparente con la donna che ha vissuto lì dentro sotto gli occhi dei passanti e della TV locale, quindi di tutti), siamo oltre.

 

L’apparente coattivo

Siamo nell’epoca in cui la società dello spettacolo proietta se stessa. Così, se fino a ieri questa società descritta da Debord aveva invaso gli interstizi del corpo sociale e dei suoi meccanismi di potere e di controllo, diventandone essenza e rappresentazione, oggi, con tali manifestazioni mediatiche, essa diventa autoriflessiva. Se la società dello spettacolo era già di per sé l’atto di una coazione, la società dello spettacolo che riflette se stessa, in maniera manipolativa e al tempo stesso inconsapevole (almeno nella sua struttura media di trasmissione di senso: i personaggi-ruolo dei programmi TV del teatro reale), buca il telone della virtualità per approdare nel tempo del paramoderno, e in un sito che ancora non conosciamo, che è difficile da raccontare, ma che potremmo iniziare a definire come luogo dell’apparente coattivo. In sostanza, il mezzo è diventato autoreferenziale e monodimensionale; l’occhio delle telecamere dietro gli specchi guarda se stesso, mentre in mezzo pone delle mere figure, delle silhouette di caratteri. Il trucco è antico quanto l’uomo: sviluppare attenzione e curiosità attraverso lo spazio vuoto del desiderio; si entra in quella terra di nessuno per porvi personaggi-ruolo riconoscibili nella loro medietà.

I personaggi-ruolo dalla fama modesta che vivono nel tempo del paramoderno e nel luogo dell’apparente coattivo sono esattamente formati (pur essendone inconsapevoli) sulle individualità-tipo che compongono il corpo sociale, cioè rispondono a evidenti distinzioni tipologiche. I personaggi-ruolo sono come macromolecole sistematiche,7 perché, come sostiene Dennett, «a meno che non ci sia qualche altro ingrediente segreto (che è esattamente ciò che pensavano i dualisti e i vitalisti) noi siamo fatti di robot o, il che è la stessa cosa, ciascuno di noi è un insieme di migliaia di miliardi di macchine macromolecolari». Così, dentro la macchina dello spettacolo televisivo, si attua in senso esteso la pragmatica del plagio. Si condizionano i partecipanti senza però affidare loro parti precise; si mette in atto un uso copiativo, cioè la trasposizione letterale della persona vera, tirata fuori dal corpo sociale, e immessa nel vuoto del programma-realtà con compiti precisi, ma senza densità psicologico-narrativa.

 

La macchina del successo

Certamente questo tipo di fama modesta comporta un cambiamento notevole nella vita dei partecipanti a programmi di questo tipo. Il Grande Fratello, infatti, è stata una macchina del successo, dove Aran, Endemol e Mediaset sfruttano al massimo i loro prodotti, attraverso una esaltazione del personaggioruolo come fosse una vite senza fine che gira sul posto, senza fermarsi mai. I partecipanti al Grande Fratello hanno calcato molti palchi TV e continuano a essere invitati in moltissimi programmi, ad avere servizi sui rotocalchi, a essere ospiti in molte discoteche italiane, a ricevere contratti per condurre programmi radio e TV, a fare pubblicità. Anche la satira che si è dedicata alla parodia del programma o alla mimesi di alcuni personaggi-ruolo non ha fatto altro che alimentare il loro successo.8

 

Interno-Esterno

Durante le trasmissioni del Grande Fratello, Marco Liorni conduceva spesso le interviste esterne per capire le preferenze del pubblico sui personaggi-ruolo. Le persone intervistate potevano essere definite utenti-spettatori, mentre erano trattati come gente comune interpellata per schierarsi. Questa gente comune emetteva enunciati di parte perché, come in una narrazione, sceglieva i personaggi-ruolo più affini per carattere o per sentimento. In realtà questi utenti-spettatori (che erano diventati con la loro presenza di fronte al microfono e alla telecamera, strumenti di consenso del Grande Fratello) parlavano di quelli dentro la casa né come si riferissero a personaggi, né come si riferissero a persone; parlavano di loro come fossero stati attanti. Sul concetto di dentro e fuori si è giocata buona parte della trasmissione. Nella prima edizione la conduttrice definì il suo collaboratore «il Caronte della situazione»; Liorni rispose: «Sì, devo traghettare fuori». Questa banale analogia dantesca, dimostra che l’esterno, cioè il mondo reale è equiparabile all’inferno. E sull’uso di un linguaggio simbolico e ispirato a concetti religiosi si giocava anche l’uscita dalla casa. La conduttrice diceva che «una persona che deve uscire dalla casa mette in difficoltà il gruppo, perché prima c’era un’atmosfera idilliaca». Qui, la casa è equiparata al paradiso terrestre, una specie di luogo isolato come un Eden; magari la casa non era l’Eden, ma era sicuramente isolata. Se all’inizio la casa era rappresentata dai conduttori come luogo edenico, le dichiarazioni successive dei personaggi-ruolo che uscivano dalla casa rispecchiavano una situazione emotivo-analitica differente. Forse per giustificare il fatto di essere stati buttati fuori, forse per l’impatto adrenalinico con una nuova dimensione di notorietà, comunque le dichiarazioni erano quasi tutte orientate inizialmente a descrivere l’esterno come un corpo estraneo e l’interno come un luogo duro da frequentare.

In realtà un set televisivo allestito ad appartamento, le cui pareti erano perlopiù specchi tali da permettere la ripresa di molteplici telecamere in tutti i suoi punti, in modo tale che tutto potesse essere ripreso e controllato fin nel dettaglio, è stato definito la casa. Una scelta nominalistica di sicuro effetto, un paradosso talmente assurdo che ribaltando il concetto di casa (home) come luogo intimo, ha posto comunque una questione più alta, relativa al fatto che la dittologia pubblico/privato (all’interno di uno stato di diritto) dovrebbe essere ridotta nelle sue dinamiche oppositive anche a un livello diffuso nella cultura del nostro paese. La casa diventava quindi elemento di contesa interna e giudizio esterno, portando allo scoperto la falsa intimità dei personaggi-ruolo.

 

Gladiatori

I personaggi-ruolo dei programmi TV del teatro reale, quali il «Grande Fratello», «Survivor» o «Il protagonista» sono i nuovi gladiatori, equiparabili in tutto a quelli antichi, perché come loro dipendono totalmente e semplicemente dagli umori e dalle preferenze del pubblico e devono eseguire gli ordini della produzione; il pubblico a sua volta è pilotato dalla grande narrazione interna, prodotta dagli autori, cioè la produzione stessa. Inoltre, questi nuovi gladiatori non sono come i professionisti dello sport o dello spettacolo che cambiano compagnia o produttore, che salgono e scendono, che passano da una squadra a un’altra (i calciatori, ad esempio, dipendono da un sistema industriale più complesso, e oggi hanno una forza contrattuale incredibilmente alta, tra sponsor, attività promozionali e procuratori vari), essi sono sbattuti nell’arena della fama modesta; per loro vale il motto mors tua, vita mea. Essi tentano di farsi fuori l’un l’altro (in qualche misura ne sono costretti): deve restare un solo vincitore. Chi esce per primo muore, non cambia squadra, ma torna nell’oblio del quotidiano, dal quale era uscito per un attimo.

L’esempio del gladiatore pare calzante anche per altri programmi TV che hanno avuto buoni ascolti in altri paesi. Pensiamo soltanto al format inglese «Jail Break», dove dieci prigionieri sono sorvegliati 24 ore su 24 e devono cercare di fuggire; oppure al norvegese «71 Gradi Nord», dove i partecipanti devono raggiungere il Polo Nord a piedi; o ancora «Le catene dell’amore», dove una persona è incatenata ad altre quattro di sesso opposto.

Tuttavia, è nella contemporaneità che si trovano due esempi altrettanto calzanti per le figure attanziali di questi programmi TV del teatro reale. Alcuni giovani assunti a termine attraverso la legge sui lavori socialmente utili, hanno riferito di una specie di immobilità sul posto che ricorda il far niente dei partecipanti al Grande Fratello. In sostanza questi lavoratori venivano assunti da un ente o da un’istituzione pubblici ed erano pagati con i soldi di un finanziamento statale, per cui, soprattutto nei primi mesi, non venivano impiegati in nessun tipo di lavoro o di occupazione. Erano comunque costretti a un orario fisso e a una presenza nel luogo di lavoro. Dunque, stavano in ufficio a girarsi i pollici e a discutere tra di loro del più e del meno. Stessa staticità, ma assenza di occhi esterni. Invece, la vita svolta dagli animatori dei villaggi turistici ha caratteristiche simili alle prestazioni dei personaggiruolo del Grande Fratello rispetto alla richiesta della produzione, anche se non ne rispecchia totalmente la staticità. Sugli animatori turistici vengono convogliati gli occhi di tutti i clienti di un villaggio: questi giovani semi-professionisti del divertimento devono dare un’immagine positiva, devono essere sempre sorridenti e simpatici, stimolare in ogni maniera le giornate dei clienti. Inoltre, gli animatori vivono tra di loro con orari rigidissimi e al di fuori dell’orario di lavoro non potrebbero dare confidenza al cliente. Proprio in questi nuove occupazioni a termine si identificano meglio le figure dei partecipanti al Grande Fratello. In ognuno di questi impieghi vi è una buona dose di plasticità e di «erosione del principio di realtà».9

I programmi di teatro-reale non sono nient’altro che la punta dell’iceberg di una tendenza della nostra società. La fama modesta sta mettendo radici dappertutto: essa viene stimolata dallo spazio vuoto del desiderio, nel quale agiscono, mistificando (ed eludendo ormai) il rapporto mittente-destinatario (che è stato annullato), le autorità autoriali assenti, cioè quelle produzioni narrative maturate da ciò che ho definito «inerzia del narratore». Questo tipo di «meccanica digitale», che ha reso il reale virtuale e il virtuale reale, modificando la percezione del soggetto, si iscrive nel tempo del paramoderno, cioè di un tempo mancato alla modernità, e nel luogo dell’apparente coattivo, cioè un luogo dove l’autoreferenzialità non è più una delle possibili condizioni del soggetto, ma esercizio delle strutture di senso.

 

 

Bibliografia

1 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.

2 La prospettiva dell’uomo come consumatore è fortemente centrata sulla «scala di valori» occidentale. Infatti un abitante del Congo (dell’Afghanistan o della Nigeria) non è propriamente un consumatore, pur tuttavia partecipa, suo malgrado, del sistema, perché le guerre interne o gli sfruttamenti diffusi nel suo paese (in questo periodo ci sono forti interessi economici per l’estrazione di un metallo abbondante in Africa che serve come conduttore per l’industria elettronica e spaziale) consumano la sua vita e le sue aspettative.

3 In questa drammatizzazione specifica non esistono più tradizionali forme di fabula, come per esempio quella di cui ci parla Bordwell, nel suo lavoro di sintesi attraverso le varie teorie narratologiche: «L’edificio immaginario che creiamo fu definito, progressivamente e retroattivamente, (…) la fabula (talvolta tradotta come «storia». Più specificamente, la fabula rappresenta l’azione come una catena cronologica, di eventi causa-effetto che accadono nell’arco di un dato arco spazio-temporale». D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, The University of Wisconsin, Wisconsin 1983.

4 In questo lavoro ci si riferisce alla prima edizione della trasmissione televisiva. Tuttavia l’analisi affrontata in questo testo può sicuramente adattarsi anche alle edizioni successive.

5 A. Grasso, citato in Se lo conosci lo eviti, in «Panorama» 14 settembre 2000.

6 Relativamente al concetto di personaggio-ruolo vedi A. Agostinelli, Il noir come surgenere, il detective ocme personaggio-ruolo, in «IRIDE-Filosofia e discussione pubblica», 37, XV, dicembre 2002.

7 «Queste minuscole macchine macromolecolari – impersonali, incapaci di riflessione, che agiscono come robot, automaticamente e inconsapevolmente – sono la base ultima di tutta la capacità di agire e quindi del significato e della coscienza presenti nel mondo». D.C. Dennett, La Mente e le Menti, Sansoni Milano 1997.

8 Anche altri personaggi TV, adesso colti da fama consistente, hanno ricevuto un’investitura del loro ruolo attraverso il semplice passaggio televisivo (pensiamo a Vittorio Sgarbi e Valerio Mastrandrea), ma almeno hanno elaborato il loro personaggio nel corso del tempo, attraverso una scelta di presentazione/omissione di alcuni loro caratteri.

9 G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 2000.