Potere, guerra e opinione pubblica. Falchi e colombe in Europa e Stati Uniti dopo l'Iraq

Di Ronald Asmus, Philip P. Everts, Pierangelo Isernia Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

Negli ultimi anni le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico sono state oggetto, più che in passato, di un acceso dibattito e hanno registrato importanti divergenze, non ultima quella sulla guerra in Iraq. Non sorprende quindi che si cerchi di capire la natura e le cause di tali differenze. Si sono fatte diverse ipotesi: una di queste suggerisce che le differenze siano da attribuirsi alle politiche dell’amministrazione Bush. Un’altra sostiene che le cause dell’incompatibilità siano da ricercare nel crescente squilibrio di potere tra Europa e Stati Uniti.

 

Negli ultimi anni le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico sono state oggetto, più che in passato, di un acceso dibattito e hanno registrato importanti divergenze, non ultima quella sulla guerra in Iraq. Non sorprende quindi che si cerchi di capire la natura e le cause di tali differenze. Si sono fatte diverse ipotesi: una di queste suggerisce che le differenze siano da attribuirsi alle politiche dell’amministrazione Bush. Un’altra sostiene che le cause dell’incompatibilità siano da ricercare nel crescente squilibrio di potere tra Europa e Stati Uniti. Altri ancora sostengono che le attuali differenze affondino le radici nella diversa percezione che dopo l’11 settembre americani ed europei hanno delle minacce che incombono su di loro.

È forse inevitabile che chi difende queste diverse posizioni ricerchi – e spesso effettivamente trovi – nelle indagini di opinione pubblica risultati che possono essere visti come una conferma delle proprie opinioni. Allo stesso tempo, però, alla domanda centrale – come e perché il pubblico americano e quello europeo abbiano idee diverse sui temi della pace e della guerra – non è ancora stata data una risposta adeguata. Questo saggio intende esaminare la natura e la struttura delle divisioni tra America ed Europa approfondendo i risultati dell’indagine «Transatlantic Trend Survey» di questo anno.1

Facendo un passo indietro e interrogandoci su cosa abbiamo appreso dai risultati del «Transatlantic Trend Survey» degli ultimi due anni,2 possiamo avanzare diverse considerazioni.

1. Il timore di un isolazionismo americano o europeo è totalmente infondato. Il pubblico americano è ora più disposto ad assumere un ruolo attivo negli affari mondiali di quanto non sia mai stato nel recente passato. Allo stesso modo gli europei sono favorevoli, almeno in linea di principio, a che l’Unione Europea si assuma una crescente responsabilità globale, anche se questo favore è temperato da una scarsa disponibilità a spendere di più per questo compito. 2. Americani ed europei sono ancora fondamentalmente amici, anche se il rapporto si è fatto un po’ più tiepido nell’ultimo anno, sulla scia della guerra in Iraq. Questo raffreddamento, però, avviene in una fase in cui il livello di gradimento reciproco era tra i più alti della storia ed è finora alquanto contenuto. Sebbene la guerra con l’Iraq abbia contribuito a tale deterioramento, esso è rimasto sinora abbastanza modesto. Inoltre, in certa misura il declino nella simpatia sembra appuntarsi sull’amministrazione Bush piuttosto che sugli Stati Uniti in generale.3 Sentimenti antiamericani e antieuropei possono esserci, ma non rappresentano in nessun paese analizzato l’opinione prevalente. Americani ed europei continuano ad avere un’idea chiara di chi siano i loro amici e di chi non lo siano e si considerano ancora amici fra loro. Tutto questo a testimonianza della continuità e dei duraturi legami tra i popoli delle due sponde dell’Atlantico. 3. Americani ed europei continuano a contare gli uni sugli altri come partner. È vero che tra gli europei è diminuito il favore per il ruolo globale dell’America sotto la presidenza di George W. Bush, ma la loro considerazione rimane alta. Inoltre, gli americani desiderano che l’Europa salga al rango di partner paritario. Entrambi auspicano una relazione di collaborazione e non di competizione. 4. Le difficoltà nelle relazioni transatlantiche non sembrano neppure originare da una radicale differenza nella percezione delle minacce dopo l’11 settembre. Al contrario, i nostri risultati di quest’anno evidenziano come, guardando al mondo, americani ed europei valutino le minacce di fronte a loro in modo simile. In questo senso non vivono su pianeti diversi. 5. Ciononostante le opinioni differiscono riguardo al modo di rispondere alle minacce, all’efficacia del potere militare rispetto a quello economico e al modo di definire la legittimità e di vedere il ruolo delle Nazioni Unite. Ma anche in questo caso non è del tutto chiaro in che misura le differenze riguardo all’uso della forza riflettano convinzioni profonde e questioni di principio, se siano piuttosto il frutto di valutazioni contingenti, che variano a seconda dello scenario considerato, o se non siano influenzate dal generale scetticismo verso le politiche dell’amministrazione Bush.

Ma allora, come stanno le cose veramente? Se americani ed europei vogliono entrambi impegnarsi negli affari mondiali, se si considerano tuttora amici, se vogliono lavorare insieme più attivamente, se valutano le minacce che hanno di fronte in modo simile, come è possibile che si siano create divergenze così profonde nella pubblica opinione e nel dibattito politico sulla guerra in Iraq? Perché il presidente Bush è arrivato a ottenere una netta (benché non elevata) maggioranza a favore dell’entrata in guerra, senza doversi preoccupare di ottenere l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? Perché invece ottenere una tale risoluzione era così importante per Tony Blair per convincere l’opinione pubblica britannica che questa era una guerra giusta? E perché l’opinione pubblica di alcuni paesi europei era così fortemente contraria alla guerra e così diversa da quella negli Stati Uniti? Perché alcuni dei leader alleati non hanno trovato molta opposizione da parte dell’opinione pubblica del loro paese, mentre altri hanno dovuto affrontare e superare ostacoli formidabili?

 

Comprendere la struttura dell’opinione pubblica sulle due sponde dell’Atlantico: una tipologia di politica estera

Per cominciare a rispondere a queste domande, occorre spingersi al di là di una analisi superficiale dei dati di questo anno, per cercare di individuare quali siano le convinzioni fondamentali che strutturano e formano l’opinione pubblica. Occorre perciò analizzare non solo le differenze tra Europa e America, ma anche quelle all’interno di ciascun paese e che riflettono spesso il contenuto di visioni politiche molto differenti. Per farlo, abbiamo messo a punto una tipologia delle concezioni di politica estera, basata sugli atteggiamenti verso due diverse forme di potere, specificamente il potere economico e quello militare, e sul giudizio circa la loro efficacia di impiego e sulla loro legittimità nelle relazioni internazionali. Abbiamo scelto di analizzare queste due diverse concezioni del potere in quanto esse sono, per diversi commentatori, alla radice della presunta divisione tra i due lati dell’Atlantico. Mettendo insieme queste diverse concezioni del potere economico e militare possiamo distinguere quattro tipi di orientamenti di politica estera, che per comodità analitica abbiamo chiamato falchi, colombe, pragmatici e isolazionisti.

Falchi. Costoro sono convinti che la guerra sia a volte necessaria per ottenere giustizia e che il potere militare sia più importante del potere economico. Tendono anche a essere diffidenti nei confronti delle istituzioni internazionali, particolarmente delle Nazioni Unite. Non hanno nessun interesse al rafforzamento dell’ONU e sono disposti a scavalcarlo se si tratta di usare la forza.

Pragmatici. Anch’essi credono che talvolta la guerra sia necessaria per ottenere giustizia, ma ritengono che il potere economico stia assumendo un’importanza maggiore di quello militare. Tendono a riconoscere un ruolo importante alle istituzioni internazionali, compreso l’ONU, e condividono la necessità di rafforzarle. Preferiscono agire nel quadro di una legittimazione multilaterale, ma sono disposti a farne a meno per difendere, se necessario, gli interessi nazionali.

Colombe. Sono convinti che la guerra non sia lo strumento più appropriato per conseguire la giustizia e sono persuasi che il potere economico stia assumendo un’importanza maggiore del potere militare. Come i pragmatici, vogliono il rafforzamento di istituzioni come l’ONU, ma a differenza di costoro sono molto riluttanti a usare la forza in assenza di legittimazione internazionale.

Isolazionisti. Non sono convinti che la guerra sia necessaria né che il potere economico stia assumendo maggiore importanza negli affari internazionali.

Il punto di partenza per l’elaborazione di questa tipologia è dato dalle risposte a due domande. Agli intervistati è stato chiesto di esprimere accordo o disaccordo con le seguenti affermazioni. 1) «In alcune circostanze, la guerra è necessaria per ottenere giustizia» e 2) «Il potere economico sta assumendo nel mondo un’importanza maggiore del potere militare». Combinando e incrociando le risposte ed escludendo le mancate risposte si può quantificare la consistenza di questi quattro gruppi in tutti i paesi analizzati (vedi figura 1).

Quanta fiducia possiamo avere in questa tipologia? Riesce a evidenziare le differenze tra Stati Uniti e Europa e quelle all’interno del continente europeo? Ci sono due modi di accertare la validità della nostra classificazione. Un primo controllo, chiamato tecnicamente face-value, è diretto ad accertare se questa tipologia ha intuitivamente senso e ci consente di sostenere che atteggiamenti differenti riguardo alla guerra giusta o al ruolo del potere economico riflettono convinzioni più profonde che si estendono anche ad altri problemi. Dato il peso delle considerazioni sull’uso del potere negli affari internazionali, si può dire che la distinzione in questi quattro gruppi ha una sua plausibilità.

Il secondo controllo viene chiamato in gergo «per costruzione». Ciò significa che la nostra tipologia ci aiuta a prevedere gli atteggiamenti verso altri problemi di politica estera e che queste previsioni vanno nella direzione predetta dalla nostra teoria. Per verificare la validità della nostra tipologia, l’abbiamo incrociata con un ampio ventaglio di altre opinioni di politica estera, riscontrando che essa è in grado di predire con una certa accuratezza le posizioni che i diversi tipi assumeranno sulle principali questioni di politica internazionale. Ecco alcuni esempi.

Guerra contro l’Iraq: i falchi sono i più disposti a sostenere la guerra in Iraq, giudicando che valga la pena sopportarne il prezzo, seguiti dai pragmatici e, a una certa distanza, dagli isolazionisti e dalle colombe. Il 55% dei falchi e il 48% dei pragmatici «pensano che la guerra in Iraq valesse la perdita di vite umane e gli altri costi», ma solo il 12% tra le colombe e il 15% tra gli isolazionisti la pensano così.

Nazioni Unite: i falchi sono meno favorevoli ad un rafforzamento delle Nazioni Unite e più disposti ad asserire che sia giustificato scavalcare l’ONU, se sono in ballo interessi nazionali essenziali. Pragmatici e colombe vogliono entrambi il rafforzamento dell’ONU, ma i primi sono più disposti dei secondi a scavalcarlo se ciò è necessario per difendere interessi essenziali.

Spese militari: i falchi diranno in genere che si spende «troppo poco» per la difesa (30%) o «l’ammontare giusto» (47%), mentre le colombe pensano che si spenda «troppo» (40%).

Aiuti economici: le colombe diranno che si spende «troppo poco» e i falchi che si spende «troppo» in aiuti economici. Il 48% dei falchi pensano che si spenda «troppo», mentre la pensa così solo il 36% delle colombe.

Uso della forza: i falchi sono più disposti delle colombe ad approvare l’uso della forza militare in tutte le ipotetiche situazioni prospettate nella nostra inchiesta (ad esempio l’acquisizione di armamenti nucleari da parte della Corea del Nord o dell’Iran), indipendentemente dal tipo di mandato internazionale. Sono anche più inclini a preferire l’azione militare alle sanzioni economiche. Il 58% dei falchi sono disposti a imporre sanzioni economiche in una ipotetica crisi internazionale, rispetto al 71% dei pragmatisti e al 79% delle colombe.

Internazionalismo: sia in Europa che negli Stati Uniti vi è una tendenza, più o meno inconscia, all’isolazionismo tra le colombe. Questo emerge negli Stati Uniti dove le colombe sono spesso meno internazionaliste. In Europa questo è vero in alcuni paesi come la Germania, l’Olanda, la Polonia e il Regno Unito, ma in Francia e in Italia le colombe sono più internazionaliste.

Su molti di questi argomenti i pragmatici tendono ad assumere una posizione intermedia tra i falchi e le colombe.

 

Cosa emerge da questa tipologia

La nostra tipologia è rivelatrice di alcune interessanti differenze nella struttura dell’opinione pubblica americana ed europea. Negli Stati Uniti i falchi rappresentano più di un quinto della popolazione, cioè il 22% (e raggiungono il 33% tra i repubblicani) e sono tre volte più numerosi che in Europa. I pragmatici costituiscono quasi i due terzi con il 65%. Le colombe invece sono una ristretta minoranza, solo il 10%, e gli isolazionisti il 3%. Nella maggior parte dei paesi europei in cui è stata condotta l’indagine invece i due gruppi dominanti sono i pragmatici e le colombe, che si equivalgono (43% e 42%). Falchi e isolazionisti invece sono piccole minoranze (7% e 8%), se si guarda ai dati dei paesi europei nel loro complesso.

I dati per l’Europa nel suo complesso mascherano tuttavia alcune significative differenze tra i vari paesi. Nel Regno Unito, ad esempio, la struttura dell’opinione pubblica è più simile a quella degli Stati Uniti, mentre la Germania ha la minor percentuale di falchi e di pragmatici e il maggior numero di colombe. Nel Regno Unito falchi e pragmatici insieme assommano al 77%, mentre in Germania sono meno della metà, il 39%. A parte il Regno Unito, gli altri paesi europei dove i pragmatici sono più fortemente rappresentati sono l’Olanda e la Polonia. In entrambi questi paesi, falchi e pragmatici assommano a una risicata maggioranza. In Germania e Francia invece le colombe sono la scuola di pensiero dominante.

Cosa suggerisce questa distribuzione? Negli Stati Uniti, il presidente, indipendentemente dalla sua appartenenza politica, ha un buon margine di manovra per costruire un consenso pubblico sull’uso della forza militare. Si possono ipotizzare diverse coalizioni, a seconda del problema in discussione e di chi è al potere in un determinato momento. Una prima coalizione è quella tra falchi e pragmatici. Un’altra, benché a base meno ampia, è formata dai pragmatici, o ancora, da un’alleanza tra pragmatici e colombe. In Europa le dinamiche sarebbero probabilmente molto diverse. In molti dei paesi da noi analizzati, se non in tutti, la strada per ottenere un ampio consenso andrebbe cercata in una coalizione tra i due gruppi dominanti, i pragmatici e le colombe, i primi concentrati nel centrodestra, gli altri nel centrosinistra. Data la consistenza di queste due scuole di pensiero in Europa e il modo in cui si riflettono nel panorama dei partiti politici, data la natura del pubblico dibattito e le limitazioni alla capacità di un governo di far uso della forza militare, la situazione è inevitabilmente diversa da quella degli Stati Uniti. I falchi in Europa sono troppo pochi per rappresentare una forza rilevante (l’unica eccezione potrebbe essere il Regno Unito) e in nessun paese sono in numero tale da costituire una valida risorsa di sostegno pubblico. In alcuni casi, come in Olanda o in Polonia, si potrebbe raggiungere una risicata maggioranza se si formasse una coalizione tra falchi e pragmatici, ma appunto essa sarebbe così risicata da non rendere viabile una politica di lungo termine.

Cosa si può dedurre da tutto ciò? Ovviamente, che ci sono grosse differenze nella struttura dell’opinione pubblica in America e in Europa, così come all’interno dell’Europa, per quanto riguarda l’uso della forza militare. Forse la principale è che negli Stati Uniti i pragmatici sono il gruppo dominante e i falchi sono in numero maggiore che in Europa, per cui il sostegno potenziale del pubblico americano all’uso della forza è molto superiore che non nella maggior parte dei paesi europei. Naturalmente ciò fa sì che un presidente americano abbia maggiori possibilità di ottenere il consenso del pubblico se decide di iniziare una guerra.

Questa diversità significa che Stati Uniti ed Europa siano in qualche modo incompatibili o incapaci di agire di concerto su questioni di questo tipo? È evidente che se un falco americano si dovesse incontrare faccia a faccia con una colomba tedesca, probabilmente non avrebbero molto da spartire. Potrebbero concludere che uno viene da Marte e l’altro dalla Luna. Ma lo stesso succederebbe negli Stati Uniti tra un falco repubblicano stile Bush e un democratico stile Howard Dean. Se però si mettessero insieme un pragmatico americano e uno europeo, è molto probabile che non sarebbe loro difficile trovare un accordo.

 

Come tutto ciò ci aiuta a spiegare la crisi irachena

Questa tipologia può aiutarci a capire quanto è successo sulle due sponde dell’Atlantico durante il dibattito sulla guerra in Iraq. Essa riflette non solo le fondamentali predisposizioni di ciascun gruppo, ma anche la disponibilità potenziale di questi gruppi ad ascoltare le diverse argomentazioni a favore o contro l’uso della forza. Naturalmente, la capacità di un governo di mobilitare o conquistare quel potenziale di consenso è tutta un’altra cosa. La figura 2 riporta la composizione dei favorevoli e contrari alla guerra all’Iraq secondo i quattro gruppi della nostra tipologia in alcuni paesi, mostrando come questi abbiano contribuito al sostegno per la guerra. Questa figura ci aiuta a comprendere il diverso dibattito politico svoltosi negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’Europa continentale sulla questione irachena, nonché se l’opinione pubblica abbia rappresentato una risorsa o un vincolo per i governi in carica. Dai dati della figura emergono sia l’ampio margine di manovra di cui hanno goduto alcuni governi e leader sia la difficile posizione in cui si sono trovati altri governi e leader. Vediamo più dettagliatamente la situazione in alcuni dei paesi coinvolti.

Figura 2

 

Stati Uniti

Nel caso degli Stati Uniti, il presidente Bush partiva da una base di sostegno potenziale molto più ampia, grazie all’entità dei pragmatici e dei falchi in America. La maggioranza di quel 60% di americani che credono che la guerra in Iraq valesse il prezzo pagato appartiene in gran parte a questi due gruppi. La pensano così infatti quasi tre falchi su quattro (74%) e due pragmatisti su tre. Il principale serbatoio di consenso proveniva dai ranghi dei repubblicani, ma anche in qualche misura dai democratici e non dipendeva in alcun modo dall’ottenimento di una ulteriore legittimazione internazionale tramite l’ONU né da una più convincente dimostrazione che l’uso della forza fosse inevitabile. D’altro canto, proprio la mancanza di questi requisiti, l’opposizione delle colombe americane alla guerra è stata quasi unanime.

 

Regno Unito

Sebbene la struttura dell’opinione pubblica britannica sia molto simile a quella americana, il primo ministro Tony Blair ha dovuto affrontare un fronte politico molto diverso, soprattutto in seno al suo stesso partito laburista. Avere la maggioranza dei consensi per partecipare alla guerra era potenzialmente fattibile per Blair, ma le dinamiche per raggiungerla erano molto diverse da quelle di Bush. A differenza di quest’ultimo, Blair non godeva del sostegno di una ampia coalizione di falchi e pragmatici in seno al suo partito, il cui elettorato si situa invece proprio a cavallo della linea di demarcazione tra pragmatici e colombe tipica dei paesi europei. Per ottenere l’appoggio del suo partito Blair aveva bisogno di argomenti che potessero convincere sia i pragmatici che le colombe. Il livello inferiore di consensi ottenuto da Blair riflette il modesto consenso ottenuto a destra (solo poco più della metà dei falchi e dei pragmatici britannici, rispettivamente il 55% e il 53%), insieme al fatto che solo poco più di un quarto (28%) delle colombe pensava che la guerra valesse il prezzo pagato. Lo sforzo fatto dal primo ministro per riuscire a ottenere una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anche se non riuscito, è stato un tentativo utile dal punto di vista politico per ricevere quel tipo di legittimazione internazionale che gli avrebbe assicurato un maggiore consenso tra i suoi elettori.

 

Germania

In Germania sia il punto di partenza del dibattito sia il risultato sono stati significativamente diversi dagli Stati Uniti o dal Regno Unito. Essenzialmente, la base potenziale di consenso per l’intervento militare in Iraq era molto risicata. Mentre falchi e pragmatici insieme costituiscono oltre l’80% del pubblico americano e britannico, in Germania sono meno della metà (39%). Se si considerano solo i sostenitori del cancelliere Schroeder e dell’attuale coalizione tra Socialdemocratici e Verdi, sono ancora meno. Ma ciò che colpisce in Germania è che anche alcuni falchi e pragmatici si opponessero alla guerra. Il fatto che oltre l’85% dei tedeschi fossero convinti che la guerra non valesse il prezzo pagato riflette non solo la presenza di un gran numero di colombe e il loro totale rifiuto della guerra, ma anche l’incapacità dell’amministrazione Bush di guadagnarsi un consenso appena più che tiepido da parte di falchi e pragmatici tedeschi.

 

Olanda e Italia

In Olanda il consenso alla guerra in Iraq (41%) è stato più che doppio rispetto alla Germania (15%) e tre volte maggiore che in Francia (13%). Questo maggiore livello di consenso rispecchia le differenze nella struttura della pubblica opinione di cui abbiamo parlato in precedenza e in particolare la maggiore presenza di pragmatici: di questi circa 6 su 10 (61%) erano a favore della guerra. Il caso dell’Italia è interessante: mentre il consenso globale per la guerra in Iraq è stato basso (28%), Berlusconi ha goduto del consenso di più della metà dei pragmatici italiani (il 52%) che presumibilmente sono una parte importante dei suoi elettori, anche se, nel paese, questi sono in numero di gran lunga inferiore alle colombe.

Nel caso di Francia, Polonia e Portogallo, tra i gruppi che sostengono le coalizioni attualmente al potere c’è ancor meno spazio per un solido consenso verso la politica dell’amministrazione Bush nei confronti dell’Iraq. Questi risultati indicano come, se non ci si limita all’analisi aggregata del pubblico in generale, ma ci si spinge a esaminate l’elettorato che sostiene le coalizioni al Governo, si può spiegare perché i vari leader europei abbiano potuto o dovuto seguire politiche molto diverse.

 

Uno sguardo sul futuro

L’indagine Transatlantic Trends 2003 comprendeva anche una serie di domande tendenti a misurare le opinioni del pubblico relativamente all’uso della forza militare in situazioni ipotetiche, quale quella di impedire alla Corea del Nord o all’Iran di dotarsi di armi di distruzione di massa. Agli intervistati veniva chiesto se fossero a favore dell’intervento militare con diverse modalità: un’azione unilaterale da parte degli Stati Uniti, una coalizione di paesi guidata dagli Stati Uniti, un’azione della NATO o ancora un’azione condotta sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Fermo restando che occorre sempre molta cautela nel trarre conclusioni generali da questi dati,4 l’applicazione della nostra tipologia a questi casi ci permette di esaminare come varia il livello di consenso all’uso della forza militare tra i quattro gruppi negli Stati Uniti e in Europa.

La figura 3 fornisce una prima risposta, esaminando come varia il sostegno per l’uso della forza, negli Stati Uniti e nei paesi europei, a seconda del tipo di legittimità dell’azione. Il consenso all’intervento militare aumenta se l’operazione è condotta sotto un’egida multilaterale come NATO o ONU. In Europa questo consenso va dal 36% per un intervento condotto dagli Stati Uniti da soli fino al 48% se in presenza di un mandato ONU. Per gli Stati Uniti le percentuali sono rispettivamente del 70% e 79%. In breve, si può dire che le tendenze negli Stati Uniti e in Europa sono simili ma, per le situazioni ipotizzate, i nostri dati mostrano anche come vi sia una differenza di circa il 30 punti percentuali tra le due rive dell’Atlantico per quanto attiene alla propensione all’impiego della forza militare. Questa differenza è, presumibilmente, da attribuire alla diversa consistenza dei tre gruppi principali di orientamenti in Europa e Stati Uniti.

Figura 3 

 

Le figure 4, 5 e 6 esaminano l’andamento del sostegno per l’uso della forza, in tre dei quattro gruppi che compongono la nostra tipologia negli Stati Uniti, in Europa e nel Regno Unito. Ne emergono varie interessanti conclusioni. In primo luogo, i risultati confermano che gli Stati Uniti sono un caso a sé stante: l’uso della forza è condiviso da quasi l’80% dei falchi e dei pragmatici, seppur con alcune variazioni a seconda che si tratti di intervento unilaterale, o condotto insieme ad alleati, dalla NATO o con l’appoggio dell’ONU. Inoltre, questi due gruppi dominano la scena americana. Nel caso delle colombe in America, però, il livello di consenso è molto basso per un’azione unilaterale o condotta da una coalizione di paesi alleati con gli Stati Uniti, ma sale notevolmente nel caso di azione sotto l’egida della NATO o dell’ONU. In quest’ultimo caso, il consenso passa dal 30% ad oltre 60%. È chiaro che negli Stati Uniti c’è una riserva potenziale di consenso all’uso della forza se si tratta di impedire a Corea del Nord e Iran di dotarsi di armi nucleari.

Nel caso del Regno Unito, come già abbiamo visto la struttura è molto simile a quella americana, ma con importanti differenze: qui si riscontra un consenso maggioritario all’opzione militare tra falchi e pragmatici, anche se di livello inferiore rispetto agli Stati Uniti; come nel caso dei loro cugini americani, il consenso delle colombe britanniche dipende in gran misura dal livello della legittimazione internazionale dell’azione, con un aumento di 30 punti percentuali se si passa da una azione unilaterale americana fino a una approvata dalle Nazioni Unite. Nonostante il livello del consenso tra le colombe nel Regno Unito rimanga inferiore a quello americano, esso è comunque superiore a quello riscontrato in tutti gli altri paesi europei.

Figura 4

Per quanto riguarda l’Europa in generale, si vede che il basso livello del consenso è legato agli stessi importanti fattori analizzati in precedenza: è molto scarso tra le colombe che sono una forza chiave, se non addirittura prevalente, in molti paesi. A differenza di Stati Uniti e Regno Unito, questo consenso non sale in modo significativo neppure nell’ipotesi dell’appoggio di NATO o ONU, almeno nel caso di Iran e Corea del Nord. Anche se vi è un certo potenziale di consenso tra pragmatici e falchi in Europa, il loro numero è troppo limitato perché possa raggiungere livelli vicini a quelli degli Stati Uniti.

Figura 5

Figura 6 

Ciò che non emerge con chiarezza dalla nostra analisi è se le risposte alle domande relative alle ipotesi ora citate possano fornirci un’indicazione sugli atteggiamenti verso l’uso della forza militare più in generale. Ci si può domandare se il livello di consenso in Europa possa essere maggiore quando si tratti, ad esempio, dei Balcani, come è successo in Bosnia e Kosovo. Nondimeno, questi dati dimostrano come ottenere il sostegno del pubblico all’uso della forza nel caso dell’Iran o della Corea del Nord sia un percorso tutto in salita per i governi, data la struttura dell’opinione pubblica europea. Si può prevedere un certo appoggio da parte dei falchi, ma andare oltre e ottenerlo anche dal gruppo delle colombe richiederebbe un grosso sforzo proprio per la loro riluttanza all’uso della forza e per la loro convinzione che sia necessaria una legittimazione internazionale.

Indipendentemente dal caso specifico, in Europa è evidente la convinzione che sia necessario il consenso internazionale per legittimare un intervento militare. La nostra analisi conferma che c’è una differenza significativa tra un’azione militare unilaterale da parte degli Stati Uniti e una appoggiata dalla NATO o dall’ONU. Tuttavia, accanto alla natura unilaterale o multilaterale dell’azione la nostra tipologia mantiene la sua validità predittiva degli atteggiamenti del pubblico (figure 4-6). Nelle diverse ipotesi di intervento militare – degli Stati Uniti da soli, degli Stati Uniti con i suoi alleati, con la NATO e con l’ONU – i pragmatici e i falchi sono sempre sistematicamente più disposti ad usare la forza che non le colombe e gli isolazionisti. Dalle figure 4 e 6 si deduce inoltre che la natura multilaterale dell’intervento può avere una valenza maggiore negli Stati Uniti e in Inghilterra che non nel resto dell’Europa, dove invece natura dell’intervento (unilaterale o multilaterale) e tipologie procedono di pari passo con effetti indipendenti. In Inghilterra e Stati Uniti infatti vi è un effetto di interazione tra natura dell’intervento e tipo di orientamento di politica estera. Le colombe in questi due paesi sono il gruppo più sensibile alla natura dell’intervento. Ma ciò ha implicazioni politiche diverse per Bush e Blair. Fintanto che l’amministrazione Bush non ha bisogno del loro consenso, affidandosi a quello di pragmatici e falchi può tranquillamente (dal punto di vista politico) ignorarne gli appelli alla multilateralizzazione. Blair non può permettersi di ignorarli.

Il caso del Regno Unito è, da questo punto di vista, emblematico. Esso contiene infatti sia elementi del panorama politico americano che di quello europeo. È facile capire le difficoltà che il primo ministro Blair si troverebbe a dover affrontare nel caso in cui considerasse la possibilità di unirsi agli Stati Uniti in un intervento militare di questo tipo. In primo luogo, il grado di multilateralità dell’iniziativa è determinante per ottenere il consenso dei pragmatici. A differenza del presidente americano, il premier inglese deve far appello a questo gruppo, il più vasto del suo elettorato, per avere il consenso pubblico, dal momento che i falchi britannici sono in numero ristretto nell’elettorato nel suo complesso e lo sono ancor meno all’interno del Partito laburista. Inoltre, per arrivare ad avere qualcosa di più di un’esile maggioranza in Parlamento e un più ampio consenso da parte del pubblico, Blair deve riuscire a convincere le colombe, il cui potenziale consenso è largamente influenzato dalla fonte di legittimità dell’intervento, come illustra la brusca impennata del sostegno delle colombe nella figura 6. Questo gruppo si può mobilitare per esprimere opposizione alla guerra facendo leva sull’assenza di appoggio multilaterale.

Abbiamo qui voluto evidenziare come, se non ci si limita ad analizzare i dati aggregati dell’indagine, si possano avere ulteriori indicazioni sulle differenze strutturali negli atteggiamenti del pubblico sulle due sponde dell’Atlantico. Per le ragioni illustrate all’inizio, ci siamo concentrati sulle opinioni del pubblico nei confronti del potenziale uso della forza militare, dato il ruolo primario che la questione ha avuto nei recenti attriti tra America ed Europa. Abbiamo visto che su questo, come su altri aspetti parimenti importanti, è utile capire come si strutturi e cosa influenzi l’opinione del pubblico negli Stati Uniti e in Europa. Una maggiore comprensione dell’atteggiamento del pubblico rispetto alle forme di potere, così come la diversa sensibilità alla tensione fra pace e giustizia, ci permette di generare una tipologia che a sua volta aiuta a spiegare come le opinioni sulle questioni internazionali si aggreghino in tendenze riconoscibili, che riflettono differenti scuole di pensiero politico.

La nostra tipologia segnala che il punto importante non stia tanto nel fatto che vi è un divario tra America ed Europa, quanto nella diversa struttura degli orientamenti relativi alla natura del potere, militare o economico, e nella ampiezza e rilevanza politica dei vari raggruppamenti nei diversi paesi che compongono l’Alleanza. Naturalmente queste diverse strutture di orientamenti influenzano pesantemente il dibattito politico e il modo in cui i capi dei governi devono costruire le loro strategie di costruzione del consenso su questioni come la guerra e la pace.

L’esempio dell’Iraq è una chiara indicazione dell’importanza di queste decisioni. In questo caso, il presidente Bush ha deciso di seguire una specifica strategia e di fornire una specifica serie di argomenti a sostegno della guerra. Si trattava di una strategia politicamente fattibile negli Stati Uniti, e in particolare nei confronti degli elettori del suo partito, che gli ha consentito di raccogliere un adeguato consenso del pubblico, data la composizione dell’opinione pubblica americana. Ma questa strategia aveva poche probabilità di riuscita in molti paesi europei, soprattutto nell’Europa continentale, proprio a causa della diversa strutturazione degli orientamenti del pubblico. Se una diversa strategia e una diversa giustificazione per la guerra avrebbero potuto sortire gli stessi effetti negli Stati Uniti, o se essi avrebbero ottenuto maggiore successo in Europa, è una di quelle domande alle quali spetterà agli storici del futuro rispondere.

Ciò che emerge con chiarezza è che per costruire il consenso nel proprio paese, soprattutto su questioni di politica estera e sull’uso della forza militare, i leader politici da entrambi i lati dell’Atlantico dovranno essere più attenti non solo alla composizione dell’opinione pubblica del proprio paese ma anche a quella degli alleati, se vorranno dare vita a coalizioni stabili che consentano una collaborazione fattiva. Tra le fratture che occorrerà affrontare, perché tale collaborazione sia resa possibile, vi è quella tra la struttura delle preferenze di coloro che abbiamo chiamato falchi e delle colombe riguardo a questioni come la guerra giusta, l’uso della forza militare e la legittimazione internazionale. Altrimenti differenze, anche modeste, nella composizione dell’opinione pubblica potranno avere gravi conseguenze nel dibattito politico. Le coalizioni che potranno naturalmente formarsi nell’opinione pubblica dei due lati dell’Atlantico potranno continuare ad attestarsi su opposti fronti politici, contribuendo quindi a peggiorare un rapporto che è già teso, nonostante il sostanziale accordo nella percezione delle comuni minacce.

In termini pratici, un presidente americano – soprattutto se repubblicano – potrà cercare di raccogliere una maggioranza politica per decidere l’intervento militare, anche in assenza di mandato delle Nazioni Unite, basandosi su una coalizione composta di falchi e pragmatici e ottenere un consenso pubblico maggioritario, come nel caso dell’Iraq. Ma nessun leader europeo potrà seguire la stessa strategia e sperare di ottenere un consenso adeguato, con la possibile eccezione del Regno Unito. Ciò non esclude che i leader europei possano riuscire a ottenere l’approvazione del pubblico a una guerra o all’uso della forza, ma significa che probabilmente sarà necessaria una diversa giustificazione e una diversa base di legittimazione per averla. Nella maggior parte dei paesi europei la maggioranza si potrà conseguire grazie a una coalizione tra pragmatici e colombe, come ha cercato di fare Tony Blair nel Regno Unito nel caso della guerra in Iraq.

Di qui l’importanza per gli Stati Uniti di scegliere con attenzione la strategia con cui riscuotere in Europa il consenso alle proprie politiche. Un presidente americano che segua una politica estera unilaterale, da «falco» insomma, sarà forse in grado di incassare il sostegno del pubblico negli Stati Uniti, ma avrà serie difficoltà a riceverlo dall’Europa, qualunque sia il colore politico dominante. Se Washington ha interesse a restaurare il consenso degli europei verso le proprie politiche, allora dovrà riconoscere che è necessario produrre argomenti forti che tengano conto anche del punto di vista dell’opinione pubblica europea, specialmente se essa è strutturata diversamente da quella degli Stati Uniti.

 

 

 

Bibliografia

1 Il Transatlantic Trend Survey 2003 (TTS-2003) è un progetto del German Marshall Fund of the United States e della Compagnia di San Paolo. La sezione portoghese dell’inchiesta è stata sostenuta dalla Fundação Luso-Americana. L’inchiesta è stata condotta in sette paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo) e negli Stati Uniti dalla TNS con metodo CATI in tutti i paesi a eccezione della Polonia, dove a causa della limitata penetrazione telefonica è stato necessario effettuare interviste dirette. In ciascuno dei paesi coinvolti sono state intervistate 1000 persone, uomini e donne oltre i 18 anni di età, in base a una tecnica di selezione casuale dei numeri di telefono. L’indagine sul campo si è svolta dal 10 al 25 giugno 2003. I dati riferiti all’Europa nel complesso sono ponderati in base alla popolazione adulta di ciascuno dei sette paesi coinvolti.

2 I dati comparativi sono tratti, salvo dove espressamente menzionato, dal Worldviews 2002, indagine condotta dal German Marshall Fund of the United States e dal Chicago Council of Foreign Relations nel Giugno 2002, nella quale non era incluso il Portogallo.

3 L’indagine TT 2003 non prevedeva una domanda specifica sull’argomento ma, come vedremo, vi si trovano indicatori indiretti. Altri sondaggi recenti forniscono risposte parziali. I dati dell’indagine PEW, condotta all’incirca nello stesso periodo (maggio 2003), indicano a questo riguardo che coloro che dichiaravano di avere un atteggiamento negativo nei confronti degli USA avevano in realtà un’opinione sfavorevole del presidente Bush e non dell’America in generale. Questo era vero per il 74% dei pareri negativi in Francia e in Germania, ma in altri paesi europei le percentuali sono simili: Italia 67%, Gran Bretagna 59%, Spagna 50%. (Poll for the Global Attitudes Project, The Pew Research Center for The People and The Press, maggio 2003). Anche da un’altra indagine risulta che la guerra contro l’Iraq ha avuto un effetto negativo sull’opinione che la maggioranza degli intervistati aveva nei confronti degli Stati Uniti in 38 paesi su 43 (Gallup International, aprile-maggio 2003).

4 Non bisogna dimenticare che i minori livelli di consenso all’uso della forza riscontrati in Europa sono probabilmente legati al fatto che i casi a cui si fa riferimento, Nord Corea e Iran, sono visti da molti come parte del «disegno di Bush» e come tali suscitano un immediato rifiuto a procedere all’intervento militare. Le cifre non devono essere intese come un indicatore assoluto del (basso) livello di consenso all’uso della forza in generale. Su questa questione gli intervistati sono (estremamente) influenzati dalla situazione e dalle parole usate nel formulare le domande. Si vede, per esempio, che domande più complesse, o con un maggior numero di risposte possibili, o che offrono diverse alternative politiche, tendono a diminuire il livello del consenso all’uso della forza tra gli americani e ad aumentarlo tra gli europei.