Il puzzle delle autonomie territoriali

Di Cesare Pinelli Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

La questione delle autonomie territoriali sta somigliando sempre più a un gigantesco puzzle. Al centro c’è una complessa riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione («Le regioni, le province, i comuni») approvata con legge costituzionale n. 3 del 2001. Nonostante abbia avuto un principio di attuazione con la legge La Loggia (legge n. 131 del 2003), il governo ha proposto di modificarla prima con il progetto Bossi (approvato in prima lettura dalle camere), poi con un più ampio progetto di riforma, frutto della bozza di Lorenzago (all’esame del Senato in prima lettura).

 

La questione delle autonomie territoriali sta somigliando sempre più a un gigantesco puzzle. Al centro c’è una complessa riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione («Le regioni, le province, i comuni») approvata con legge costituzionale n. 3 del 2001. Nonostante abbia avuto un principio di attuazione con la legge La Loggia (legge n. 131 del 2003), il governo ha proposto di modificarla prima con il progetto Bossi (approvato in prima lettura dalle camere), poi con un più ampio progetto di riforma, frutto della bozza di Lorenzago (all’esame del Senato in prima lettura).

Quando si approva una legge, e ancor più una legge costituzionale, è preferibile attuarla prima di pensare di modificarla. Più di un anno fa, l’allora presidente della Corte costituzionale sentì il dovere di uscire dal riserbo istituzionale per ricordare questa massima di buonsenso. Rimase inascoltato, e nella maggioranza si accese anzi la battaglia fra chi voleva portare l’autonomia regionale al livello dell’autosufficienza finanziaria (che solo alcune regioni del nord potrebbero raggiungere) e chi voleva un richiamo all’interesse nazionale come limite delle leggi regionali.

L’accordo raggiunto a Lorenzago è consistito nel non scegliere fra le due linee, e quindi nel metterle insieme fingendo che si possano equilibrare a vicenda. Ma che senso avrebbe, per esempio, ammettere venti diversi sistemi sanitari e poi prevedere un controllo statale sul rispetto dell’interesse nazionale da parte delle leggi regionali che li introducono? Per usare un linguaggio più tecnico, se la competenza legislativa regionale in materia di salute è esclusiva, fino a che punto l’interesse nazionale può funzionare ancora come limite di legittimità?

La banda di oscillazione fra unità e autonomia sarebbe troppo larga e si sovrapporrebbe all’equilibrio previsto dalla Costituzione («La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali»), che la riforma del 2001 ha confermato e sviluppato.1

Infierire sul progetto del governo sarebbe però troppo facile, e anche inutile. Vediamo piuttosto di cosa si compone attualmente il puzzle delle autonomie, e concentriamo l’attenzione sulla riforma del 2001, che da allora è sul banco dell’accusa.

Ci siamo lasciati alle spalle, non dobbiamo dimenticarlo oggi, un sistema in parte accentrato e per il resto composto da regioni simili a «pezzi sconnessi di amministrazione, cui sono assurdamente preposti organi di derivazione democratica».2

Il culto per l’uniformità è un dato profondo che accompagna tutte le vicende successive all’unificazione, anche quando il centralismo viene in parte superato con la creazione delle regioni. Un assetto formalmente ispirato al rispetto delle autonomie, che sulla carta le rifornisca di cospicui poteri, ben può svilupparsi senza apprezzabili differenziazioni nel loro esercizio. E, per come erano state pensate e soprattutto attuate, le regioni non potevano contrastare il culto per l’uniformità. Esse lo hanno anzi perfezionato, rendendolo meno evidente e perciò ancora più efficace.

Il sistema si teneva perché i partiti (ma anche sindacati di lavoratori e datori di lavoro, categorie professionali, mezzi di comunicazione) erano organizzati al centro e legittimati dal centro. Infatti, le disfunzioni e i costi dei rapporti centro-periferia vengono percepiti come un serio problema solo quando il vecchio sistema dei partiti crolla, e l’Unione europea chiede una riduzione del deficit e del debito pubblico e una liberalizzazione di imprese in mano pubblica.

La necessità della riforma dell’impianto autonomistico va perciò molto oltre la scoperta che nel Triveneto l’export di piccole imprese di enorme successo viaggia su strade intasate, o che i contadini veneti si accorgono che i loro vicini del Trentino Alto Adige se la passano molto meglio grazie alle sovvenzioni delle province autonome.

E infatti le risposte sono due, non una sola. C’è la risposta della Lega, che quando passa dalla secessione alla trattativa lo fa sempre rivendicando competenze che portino le regioni che ce la fanno al traguardo dell’autosufficienza finanziaria. E c’è la risposta di chi è convinto che il problema non è soltanto di dare più poteri alla periferia, ma è soprattutto di abbandonare l’uniformità e di scommettere su autonomie territoriali autentiche e perciò differenziate anche tra loro, e su un potere centrale concentrato su grandi scelte politiche e sulla garanzia dei diritti dei cittadini. In questo caso, si tratta di rendere credibili e responsabili le istituzioni centrali non meno delle autonomie territoriali, recuperando le intuizioni di Carlo Cattaneo e di Gaetano Salvemini sul rapporto fra democrazia e organizzazione del pubblico potere. Più che ai tanti modelli di federalismo a disposizione, è infatti a loro che i riformatori si sono ispirati.3

Il ciclo di riforme avviato con le leggi Bassanini e culminato nella revisione del Titolo V ha avuto perciò un’anima non confondibile con i progetti leghisti o con l’intenzione di catturare voti leghisti.4 Si trattava, al contrario, di un tassello essenziale di un grande disegno riformistico. Ma come tutte le riforme istituzionali, esso richiedeva il maggiore consenso politico e sociale possibile, dunque un metodo concertato, una grande determinazione e una buona presentazione. Nella prima fase, il processo di riforma fu condotto assicurando una larga concertazione con le istituzioni e le amministrazioni interessate (compresa la prima riforma dell’organizzazione dei ministeri dall’unificazione del paese, che pareva impossibile). Ma quando la Casa della Libertà decise di ritirare il suo appoggio parlamentare alla riforma del Titolo V, si capì che l’approvazione del progetto avrebbe avuto tutt’altro significato. La scelta di andare avanti potrebbe non essere stata giusta. Certo è che, una volta compiuta la scelta, l’unico modo per ridurre i guasti era  spiegare con grande chiarezza ai cittadini, chiamati oltretutto a votare sul progetto, cosa si voleva fare con la riforma e perché l’opposizione si era tirata indietro all’ultimo momento. Invece, i dirigenti dell’Ulivo non ci provarono nemmeno, lasciando che il progetto risultasse poco più che un figlio di nessuno. Così, quella che si deve considerare (qualunque giudizio se ne voglia dare) la più estesa e importante revisione della Costituzione del 1948 venne delegittimata prima di nascere.

La riforma del 2001 ha compiuto due scelte di base. Il vecchio testo riservava un certo numero di materie alle leggi regionali sulla base dei principi fondamentali disposti con legge statale, lasciando tutte le altre materie allo Stato. Il nuovo testo elenca al contrario le materie su cui lo Stato legifera in via esclusiva, poi quelle su cui può fissare solo i principi che debbono orientare la legislazione regionale, lasciando tutte le altre alle regioni. Si è cercato così di garantire in modo molto più deciso l’autonomia legislativa delle regioni.

La seconda scelta ha riguardato la distribuzione dei poteri amministrativi, che il vecchio testo distribuiva con lo stesso criterio dei poteri legislativi (criterio del parallelismo), secondo la tradizionale concezione che vedeva nell’amministrazione un’attività di pura esecuzione delle leggi. Il nuovo testo presuppone invece che l’amministrazione sia soprattutto un’attività che rende pubblici servizi ai cittadini, e che perciò la distribuzione dei poteri amministrativi fra enti territoriali privilegi i comuni, ma derivi in ogni caso dalla capacità di rendere efficacemente quei servizi (principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza).

Che cosa è mancato, da questo punto di vista? Sono mancate le giunture fra i singoli pezzi del nuovo disegno. Le giunture fra centro e periferia, attraverso la trasformazione del Senato in una camera capace di dare voce alle autonomie territoriali (che però era politicamente impraticabile, tanto da imporre ai riformatori di ripiegare sulla soluzione transitoria di una Commissione bicamerale integrata con rappresentanti delle autonomie). E sono pure mancate le giunture fra legislazione e amministrazione, perché la fine del parallelismo non può significare che, nel ripartirle, si seguano criteri (la garanzia delle competenze per la legislazione, la sussidiarietà per l’amministrazione) del tutto eterogenei e privi di corrispondenza.

La Corte costituzionale ha ora cercato di rimediare, stabilendo che, se lo Stato può assumere funzioni amministrative regionali in base ai principi di sussidiarietà e adeguatezza, potrà anche regolarle con legge in deroga al normale riparto di competenze, purché la deroga sia ragionevole, proporzionata e oggetto di un accordo con la regione interessata (sentenza n. 303 del 2003). Questa importante decisione dimostra che un rinnovato attivismo della Corte nei rapporti Statoregioni può aiutare notevolmente il decollo della riforma. Anche se, alla lunga, non può surrogare l’iniziativa politica necessaria a integrarne i pezzi mancanti. I problemi giuridici, insomma, nascono dalla necessità di assestare e completare la riforma, non di ripensarla daccapo. Tanto che, dopo qualche iniziale sbandamento, i costituzionalisti di ogni tendenza l’hanno presa sul serio, indicandone compatibilità interne e possibili percorsi di attuazione; e lo stesso progetto del governo lascia non a caso invariata la ripartizione dei poteri legislativi e amministrativi fra Stato e autonomie.

Se ci si fermasse a questo punto, si potrebbe dire che il puzzle appare irrisolvibile semplicemente perché a esso mancano alcuni pezzi. Come mai, allora, la riforma appare a molti alle origini di uno sconquasso che ci si poteva risparmiare? Qui bisogna distinguere le ragioni sistemiche dai comportamenti politici dell’attuale maggioranza.

Quando si scoperchia la pentola del centralismo per dare spazio alle autonomie, bisogna sapere che esse sono luoghi di conflitti, non di armonie prestabilite, e che questi conflitti non si possono nemmeno canalizzare subito entro argini condivisi. In Italia, poi, i protagonisti del pluralismo istituzionale sono così diversi fra loro da poter determinare un pericoloso stallo dei processi di riforma. C’è il cleavage nord-sud, che diventerà sempre più visibile man mano che le regioni raggiungeranno margini maggiori di autonomia finanziaria. C’è il nuovo contrasto fra giunte e consigli regionali, che dopo aver ritardato il varo della Commissione integrata per le questioni regionali continua a bloccare il processo di formazione degli Statuti, fra accuse di neodecisionismo dei «governatori» e di paleoassemblearismo dei Consigli. E c’è, soprattutto, la storica contrapposizione e asimmetria fra le stesse autonomie territoriali.

Dei comuni si può certo continuare a dire quanto disse Tocqueville: che la loro forza, a differenza degli Stati o anche delle regioni, nasce dall’essere un’aggregazione naturale, e perciò il luogo istituzionale più vicino ai cittadini. A questa forza, che gioca a maggior ragione da noi, bisogna aggiungere una serie di elementi che hanno rilanciato i comuni nell’ultimo decennio: l’introduzione del sistema di elezione diretta dei sindaci (con formazione di una classe politica locale ove possibile di buon livello), un sistema di finanziamento meno penalizzante di quello delle regioni, la legge elettorale maggioritaria in sede nazionale (con un disegno dei collegi alla Camera che favorisce l’ascolto degli esponenti dei poteri locali), la globalizzazione (che ha rinvigorito la dimensione locale nel campo dei servizi pubblici).

L’asimmetria di peso specifico fra comuni e regioni fa sì che i conti non tornino mai fino in fondo. La regione, cioè l’ente che dovrebbe svolgere funzioni di raccordo e di coordinamento fra gli enti che insistono sul proprio territorio, anche perché il solo dotato di poteri legislativi, è in genere più debole degli enti da coordinare. Lo stesso vale nelle sedi nazionali, ogni volta che si tratta di toccare con legge poteri, funzioni e compiti. L’associazione intercomunale vanta una tradizione e una capacità di pressione sulle decisioni a livello centrale incomparabilmente maggiori delle altre autonomie, a partire da consolidati rapporti col ministero dell’interno.5 Chi si divertisse a ricostruirne le mosse strategiche, dalla Bicamerale (compreso il fattivo concorso nell’affossamento del progetto di Camera delle regioni) fino all’attuale dibattito sulle funzioni, troverebbe ampio materiale per confermarlo.

Quanto detto aiuta a spiegare perché il processo di riforma dell’impianto autonomistico, dopo aver raggiunto difficili compromessi, rischia di ristagnare. L’impressione di sconquasso nasce anche da qui. Qualsiasi governo si trova a dover fronteggiare le difficoltà sistemiche che ho ricordato, e che sono largamente trasversali agli schieramenti politici. Ma l’attuale governo, semplicemente, non ritiene di doversene occupare. Le varie sedi di raccordo fra Stato e autonomie, le cabine di regia e le conferenze unificate, raccordano pochissimo, e infatti esplodono i conflitti sulle risorse nei dibattiti sulla finanziaria. I dorotei, al confronto, erano campioni nell’arte di governare. Per il resto la politica del governo Berlusconi si è caratterizzata per alcune mosse, tutte di corto respiro.

Intanto, da bravi comunicatori, gli attuali governanti hanno diffuso l’idea che la «riforma dell’Ulivo» fosse confusa, senza preoccuparsi di dire cose false.6 Poi hanno legiferato in una serie di settori (infrastrutture, istruzione, edilizia, beni culturali, telecomunicazioni) come se la legge costituzionale del 2001 non avesse ripartito le competenze statali con le regioni e con le altre autonomie. Infine, dovendo cercare una sede dove scaricare i costi derivanti dagli sgravi fiscali, l’hanno trovata nei tagli ai trasferimenti a regioni ed enti locali, soprattutto per quel che riguarda la spesa sanitaria.7

Le risorse della comunicazione, però, si sono esaurite nel momento in cui la presentazione del progetto Bossi sulla devolution ha scatenato una sollevazione generale: sindacati, Confindustria, associazioni del volontariato si sono espresse contro il progetto, e le stesse regioni rette dal centrodestra lo hanno digerito malissimo. Riuscirà ora il progetto di Lorenzago, che aggiunge alla devolution la clausola dell’interesse nazionale, a convincere di più gruppi sociali e opinione pubblica? L’indifferenza per la discontinuità provocata dal nuovo Titolo V fa poi sì che il centro torni a caricarsi di tutto in nome dell’uniformità, compresi certi micro-interventi richiesti da gruppi cui la maggioranza non sa resistere, come nel caso del collegato alla finanziaria 2002.8 Ma anche l’arrogante pretesa di ignorare i vincoli costituzionali ha avuto i primi contraccolpi. La sezione consultiva sugli atti normativi del Consiglio di Stato ha rilevato che l’attività regolamentare del governo incontra ora nuovi limiti costituzionali a favore della potestà regionale, e la Corte costituzionale, chiamata a giudicare leggi varate in settori su cui vi è un intreccio di competenze statali e regionali, ha subordinato all’intesa fra Stato e regione interessata ogni deroga al riparto di competenze legislative.

Infine, se teniamo conto che l’ingerenza del centro nella sfera delle autonomie ha riguardato grandi opere pubbliche e quindi grandi affari,9 e senza mascherare noti conflitti d’interesse, mentre la periferia è chiamata a sopportare i costi degli sgravi fiscali nei servizi che toccano più da vicino le tasche della generalità dei cittadini, viene fuori il volto di una politica reazionaria. Atro che Colbert, qui siamo a Luigi Filippo d’Orleans. I tagli alle spese regionali e locali sono stati così forti e generalizzati da aver riunificato tutto il fronte delle autonomie contro il governo. Ma è una consolazione politica che vale poco, di fronte al fatto che a pagare scelte del genere saranno gli strati più poveri della popolazione italiana.

Ilvo Diamanti ha notato che il pendolo dell’opinione pubblica, che nell’ultimo decennio si era mosso verso la periferia, si sta nuovamente spostando verso il centro, perché quando le autonomie diventano un lusso tutti ricominciano a guardare allo Stato per risolvere i  problemi. L’immagine del pendolo descrive bene le periodiche infatuazioni collettive degli italiani: già negli anni Settanta del secolo scorso, all’enfasi sul ruolo delle regioni era seguita una fase di riflusso. Dobbiamo allora rassegnarci a una convivenza fra Stato e autonomie in cui la forza dell’uno è la debolezza delle altre, e viceversa? E che il pluralismo istituzionale italiano, che è nella storia del paese prima che nei disegni delle sue leggi, è una condanna all’inefficienza anziché una risorsa?

Queste sono le domande che l’opposizione dovrebbe porsi. Non è difficile prevedere che un governo di centrosinistra gestirebbe la partita delle autonomie in modo più decente dell’attuale governo. Ma per sollevarsi dal pantano di istituzioni rissose, di leggi inapplicate, di diffuse incertezze e ingiustizie, la decenza non basta. Bisognerebbe capovolgere l’approccio corrente, che vede nelle autonomie un settore dell’azione pubblica, con i suoi problemi più o meno prioritari da risolvere, e fare del pluralismo autonomistico una specie di griglia attraverso cui impostare tutte le iniziative dei riformisti. Un approccio del genere non solo corrisponde allo spirito del nuovo Titolo V, ma consentirebbe anche di mettere in pratica l’idea, ripetuta ma non praticata, che la politica del nostro tempo è più chiamata ad accompagnare i mutamenti e a canalizzare i conflitti che a guidare la società dall’alto, e dunque dal centro.

La promessa di una rivoluzione liberale, nei fatti subito archiviata, è rimasta uno slogan che ormai ha stancato anche quanti ci avevano creduto. Ma senza un’altra visione del paese, una buona gestione e i possibili aggiustamenti tecnici dei problemi delle autonomie non basterebbero a ridare un minimo di fiducia agli italiani.

 

 

 

Bibliografia

1 Lo ha affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza 106 del 2002.

2 G. Amato, L’autonomia rafforza l’unità nazionale, in «Regione e governo locale», 13/1991.

3 G. Amato, Presentazione a V. Cerulli Irelli, Costituzione e amministrazione. Documenti di un itinerario riformatore (1996-2002), Giappichelli, Torino, 2002.

4 Come scrive invece A. Barbera, Il nuovo Titolo V e la trilogia di Italo Calvino, in «Le Istituzioni del Federalismo», 455/2003.

5 F. Merloni, Intervento in Riforma senza bussola: dove vanno le Regioni italiane?, in «Le istituzioni del federalismo», 417/2003.

6 Come quella che la potestà legislativa concorrente avrebbe aumentato il contenzioso costituzionale, dimenticando che si tratta di una potestà prevista dalla Costituzione del 1948.

7 P. Onofri e S. Toso, Riforma del welfare: una legislatura persa, in «Italianieuropei», 4/2003.

8 M. Cammelli, Federalismi virtuali e tiepide autonomie, in «Le Istituzioni del Federalismo», 433/2003.

9 In modo peraltro maldestro, come ha documentato A. Tamburrino, Grandi lavori italiani, in «Il Mulino», 4/2003, pp. 689 e sgg.