De Gaulle, il suo e il nostro tempo

Di Marco Gervasoni Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

Un recente sondaggio indica che, per la maggior parte dei francesi, De Gaulle è il personaggio più importante del XX secolo. Qualche anno fa, un libro dello scrittore Régis Debray spiegava come De Gaulle fosse un personaggio la cui attualità è ancora tutta da scoprire, un protagonista del XXI secolo. In questi anni, tuttavia, si sono intensificate, e non solo da sinistra, le critiche alla creatura di De Gaulle, la Costituzione della V Repubblica e, per un certo periodo, nel dibattito pubblico il tema, inimmaginabile fino a cinque anni fa, è stato: «è necessaria una VI Repubblica?».

 

Gaetano Quagliariello, De Gaulle e il gollismo, Il Mulino, Bologna 2003

 

Un recente sondaggio indica che, per la maggior parte dei francesi, De Gaulle è il personaggio più importante del XX secolo. Qualche anno fa, un libro dello scrittore Régis Debray spiegava come De Gaulle fosse un personaggio la cui attualità è ancora tutta da scoprire, un protagonista del XXI secolo.1 In questi anni, tuttavia, si sono intensificate, e non solo da sinistra, le critiche alla creatura di De Gaulle, la Costituzione della V Repubblica e, per un certo periodo, nel dibattito pubblico il tema, inimmaginabile fino a cinque anni fa, è stato: «è necessaria una VI Repubblica?».

La figura di De Gaulle, come sempre, divide. Per il suo carattere sfuggente, che richiede allo studioso desideroso di avvicinare la figura del generale una notevole dose di duttilità e una capacità di ricorrere al chiaroscuro. Tutti elementi abbondanti nello studio di Gaetano Quagliariello. Nell’introduzione al volume, l’autore spiega come il suo lavoro sia una «biografia politica sui generis», perché mantiene sì un ritmo cronologico e biografico, ma è attenta ad alcune questioni che investono la storia del Novecento, e non solo di quello  francese. Per l’autore, De Gaulle è una figura interessante perché nella sua vicenda si incrociano svariati temi, dalla quello della transizione dei regimi a quello del carisma, investigando la figura del politico sia come creatore di leadership sia come riformatore istituzionale. Quagliariello, pur non credendo nei modelli e nella storia magistra vitae, è convinto che la riflessione su De Gaulle possa offrire elementi per il dibattito sulle riforme istituzionali nel nostro paese. È già chiaro da questi pochi accenni come l’attenzione di Quagliariello sia portata verso alcune questioni ben precise. Il De Gaulle di Quagliariello è, prima di tutto, un politico carismatico e un riformatore delle istituzioni, i due aspetti non potendo andare separati. Pur condividendo nelle sue linee generali questa interpretazione, mostreremo più avanti come esista un De Gaulle più sfuggente.

Non è facile classificare De Gaulle. Prima di narrarne la vicenda politica, Quagliariello dedica il primo capitolo alla ricerca di una definizione del gollismo. Secondo l’autore, il gollismo come ideologia e pratica politiche scaturite dalla persona del generale e poi interpretate dai suoi seguaci nel corso del tempo, sarebbe: a) un nazionalismo; b) che sfugge al clivage destra-sinistra; c) aperto e cosmopolita; d) in cui l’azione politica si configura come un agire nell’emergenza; e) tendente alla costruzione di uno Stato limitato e alla depoliticizzazione delle istituzioni; f ) ispirato da una «mistica del progresso» e indirizzato verso la modernizzazione.

Una volta collocato De Gaulle nelle diverse tradizioni e tendenze politiche francesi dal 1870 agli anni Trenta, Quagliariello procede a narrarne la vicenda. Si comincia dagli anni della prima guerra mondiale quando, fatto prigioniero dai tedeschi, il giovane ufficiale avvia una riflessione sui limiti istituzionali della III Repubblica, che si arricchirà tra le due guerre con la pubblicazione di volumi di teoria militare (il più noto è «Au fil de l’epée»), che parlano di esercito per indicare la necessità della riforma delle istituzioni, in direzione del rafforzamento dell’esecutivo. A ragione, tuttavia, l’autore mostra come il De Gaulle di questi anni non sia spinto da particolare interesse per l’agire politico e non si senta portato a un tale ruolo. Nel governo Reynaud, in piena drole de guerre, nel 1940, De Gaulle diventa sottosegretario al ministero della guerra, eppure tale incarico è ancora concepito come quello di un tecnico. È l’emergenza (tuttavia prevedibile) della sconfitta della Francia a far emergere il De Gaulle politico e a trasformarlo nel leader di tutto coloro che si oppongono all’armistizio, alla capitolazione della Francia e a Vichy. Qui De Gaulle si rende conto del proprio carisma o, per meglio dire, adatta il proprio carisma al ruolo che egli deve giocare. L’autore mostra con molta dovizia documentaria come il gollismo e la sua identità politica si compongano e si modifichino nel corso di pochi mesi, con la capacità di De Gaulle di costruire attorno al proprio carisma una rete ampia e vasta di alleanze.

Ma il carisma di De Gaulle, un modo di praticare l’azione politica fortemente ancorato al quid dell’individualità, non è in sintonia con la vita politica organizzata in Francia dopo la liberazione. La IV Repubblica si definisce fin dall’inizio come regime dei partiti e assembleare e De Gaulle, in coerenza con le sue posizioni del periodo prebellico e con la lezione appresa dalla sconfitta e dalla Resistenza, ritiene che un regime di tale tipo sia nocivo alle sorti della nazione. Egli non si limita alle prese di posizione, come nel celebre discorso di Bayeux del 1946, ma organizza un partito, il Rassemblement pour la France (RPF). In ragione dell’alto numero di deputati che porta all’Assemblea nazionale e del suo essere antisistema, l’RPF, scrive Quagliariello, agisce come distruttore della Repubblica dei partiti, scompone il patto tripartito tra comunisti, socialisti e democratici cristiani del MRP, mette in difficoltà le successive coalizioni di Troisième force. Una volta superati i problemi della ricostruzione e stabilizzata la Repubblica, almeno sul piano interno, l’RPF comincerà però a perdere voti, e a dividersi tra gollisti che desiderano entrare nel gioco parlamentare e gollisti fedeli al generale, contrari anche solo ad appoggiare i vari governi. Con lo scioglimento del RPF, i primi fonderanno i Repubblicani sociali, creatura gollista da cui però De Gaulle prenderà le distanze. Egli ormai gioca la parte di Cincinnato: è convinto che la Repubblica dei partiti non potrà durare a lungo, si ritira dalla vita politica e pone in atto una strategia del silenzio, fondamentale per un nuovo rafforzamento del suo carisma.

Sono gli anni del governo Mendès France. De Gaulle considera Mendès in qualche modo un suo allievo, è stato per poco tempo ministro delle finanze nel suo governo del 1944-1945, e ha nel frattempo sviluppato una diagnosi sui mali della IV Repubblica per tanti versi convergente con quella del generale. Le differenze tra i due sono tuttavia notevoli, come spiega con gran lucidità Quagliariello. Mendès è un «repubblicano di tradizione», legato all’idea della priorità del parlamento e diffidente nei confronti della personalizzazione carismatica del potere, anche se questa, come in De Gaulle, deve operarsi sempre attraverso l’elezione popolare. De Gaulle, dal canto suo, vede in Mendès colui che potrebbe riformare la IV Repubblica mantenendone però proprio quei caratteri per il generale massimamente dannosi. Ciò nonostante, il partito dei Repubblicani sociali, composto da gollisti ma senza l’adesione di De Gaulle, entra nel governo Mendès France, soprattutto per l’opposizione del presidente del consiglio alla CED, la Comunità europea di difesa. Nello stesso tempo, i Repubblicani sociali, nei loro congressi e convegni, delineano proposte di riforma costituzionale che anticipano quella che sarà la Costituzione della V Repubblica.

Nel 1958 la questione algerina diventerà talmente incandescente da mettere definitivamente in crisi il sistema politico e De Gaulle rientrerà in gioco. Quagliariello dedica pagine di grande finezza ad analizzare le plurime tattiche e strategie del generale: il comportamento di De Gaulle nella crisi del 1958 è un esempio di come lo storico della politica contemporanea debba intrecciare un approccio dedotto dall’individualismo metodologico, in cui ogni attore è studiato nella sua specificità, con il riconoscimento dell’eterogenesi dei fini e delle intenzioni non volute. Dal reticolo di decisioni dei vari attori politici durante la crisi di maggio 1958 scaturisce l’arrivo al potere di De Gaulle e la scrittura di una nuova Costituzione, a cui contribuiscono i socialisti di Guy Mollet. Per l’autore, Mollet è una delle pedine indispensabili alla strategia del generale, serve a fare apparire il suo governo d’emergenza, a cui si oppongono fin da subito Mendès France,  Mittterrand e i comunisti, come una riedizione dei governi d’unità antifascista contro il pericolo di un golpe dei militari ribelli ad Algeri. Dalla crisi del maggio 1958 esce una Costituzione che, secondo Quagliariello, ha il suo fulcro nell’idea della «depoliticizzazione delle istituzioni» e che ispirerà le riforme costituzionali nei decenni successivi in Europa. Essa è il frutto di una lunga tradizione nella vita politica francese, quella del «partito inglese», che guarda al bipolarismo britannico e alle sue capacità di assicurare la governabilità assorbendo le tendenze nuove che si affacciano nel panorama politico e mettendo ai margini le ali estreme.

Nei capitoli successivi, l’autore racconta un De Gaulle che risolve la questione algerina, fornisce di una nuova politica estera la Francia, modernizza il paese e pur tuttavia non si adagia sull’esistente. Prevalgono anzi gli atti di rottura, in politica estera soprattutto, ma anche in quella interna, con proposte di legge assai avanzate sul piano sociale e che prevedono la partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Giustamente, Quagliariello mostra l’inanità e l’irrealizzabilità di queste riforme, ritenute però fondamentali da De Gaulle in vista del passaggio a una società in qualche sorta post-capitalistica. Le prese di posizione antiamericane in politica estera e le richieste di misure «sociali» all’interno del paese sono la causa e, al tempo stesso, l’effetto della solitudine del generale, che non comprende più larghi strati dell’opinione pubblica e, soprattutto, non sembra riconciliato con quella «secolarizzazione» del gollismo, come la chiama Quagliariello, portata avanti dal primo ministro Pompidou.

La crisi di maggio (questa volta del 1968) fa entrare diversi attori in campo, non ultimi naturalmente gli studenti e i sindacati, ma larga parte della vicenda vede contrapporsi da un lato De Gaulle e la sua idea di poter affrontare la crisi ricorrendo al proprio carisma, dall’altro Pompidou per il quale, come scrive Quaglieriello, salvare le istituzioni della Repubblica fondata dal generale vuol dire abbandonare la via del governo carismatico e intraprendere procedure tacciate da De Gaulle di essere politiciennes, non ultima quella della costruzione di una solida macchina politica gollista che funga da partito del presidente. Per il controllo delle fonti, per la vastità degli sguardi e delle interpretazioni, per la capacità di dipanare questioni di enorme complessità, il volume di Quagliariello si pone come un’opera di referenza nella pubblicistica storicopolitica non solo su De Gaulle, ma sulla vita politica francese dagli anni Quaranta ai Sessanta. L’originalità del volume spicca non solo al confronto con la pubblicistica italiana ma anche con quella, ben più nutrita, d’oltralpe. Quest’ultima, oltre che a concentrarsi sulla eccezionalità biografica e sull’interiorità dell’uomo (come nella biografia di Eric Roussel),2 si è divisa tra coloro che ritengono De Gaulle l’autore del compimento dell’idea repubblicana originaria del 1877 (Odile Rudelle)3 e coloro, come René Remond, che vedono nel gollismo il continuatore della tradizione della destra bonapartista.4 Quagliariello si confronta con queste interpretazioni, riconosce la valenza delle une e delle altre, poi però fornisce una lettura di De Gaulle e del gollismo del tutto specifica. Per l’autore, De Gaulle e il gollismo sfuggono alla distinzione destra-sinistra, sia perché vi confluiscono elementi ideologici e culturali caratteristici della sinistra repubblicana e anche socialista francese, sia perché il gollismo si definisce come ideologia minima, capace di trasformarsi e di recuperare elementi estranei che poi finiscono per arricchirlo.

Nello studio di Quagliariello si vede bene come il gollismo nei suoi elementi ideologici sia assai meno un agglomerato argomentativo proveniente dal verbo di De Gaulle e assai più il prodotto di una riflessione teorica da parte dei vari compagnon di De Gaulle, quali André Malraux, René Capitant, Jacques Soustelle, Michel Debrè, René Cassin, Jacques Chaban-Delmas. Se già si prendono questi nomi, molti di loro, prima di «creare» il gollismo, provengono dalla sinistra: Malraux è stato un compagno di strada del Fronte popolare negli anni Trenta, Chaban-Delmas un leader della sinisrta radicale, Soustelle e Capitant sono stati vicini ai socialisti. Grazie a loro De Gaulle assorbe elementi ereditati da quelle famiglie politiche. Con grande finezza, il generale sa utilizzare e fare propri questi apporti, e aggiornare la sua cultura politica che, all’inizio degli anni Trenta, non era niente più che un nazionalismo democratico con forte aperture al sociale per la denuncia del capitalismo come società del «macchinismo». Tutte queste tendenze nutrono De Gaulle in senso ideologico, ma acquisiscono legittimità solo attraverso De Gaulle e solo quando è lo stesso generale a sostenerle. In altre parole, nel gollismo non è possibile una dialettica politica specifica, in cui linee realmente alternative possano contrapporsi, perché l’azione politica procede dal carisma ed è definita dall’individualità del capo. Solo il capo può essere alternativo a se stesso. Giustamente i Mendès France e i Mitterrand vedevano in questa tendenza la tradizione del bonapartismo, ma tale democrazia carismatica è pure presente nell’immaginario della sinistra francese dal 1870.5 La grandezza di De Gaulle è stata quella di far uso durevole di questa visione carismatica di politica, di costruire un sistema istituzionale in cui il carisma è regolarizzato e trasformato in procedure.

Secondo Quagliariello, in quest’ultima operazione – rendere durevole il carisma – avrebbe dato, assai più che De Gaulle, Pompidou, il quale per questo si sarebbe scontrato con il generale. Probabilmente le fonti della divisione furono anche altre. Esse andrebbero ricercate nelle diverse strategie di fronte alle riforme sociali. Le frizioni tra i due cominciano ben prima del 1968, come mostra Quagliariello esaminando il dibattito sull’emendamento Vallon, una proposta di legge voluta dal presidente della Repubblica che, se attuata, avrebbe portato alla rappresentatività dei sindacati nei consigli di amministrazione delle imprese. Vi è qui, in De Gaulle, soprattutto nell’ultimo, e soprattutto in politica estera, una forza di visione, si potrebbe dire una tensione utopistica, tanto più forte quanto il generale eccelleva in realismo e in capacità tattiche, votata non alla difesa dell’ordine ma alla sua continua rimessa in discussione. Certo, nell’idea di De Gaulle chi deve rimettere in discussione un ordine, sia pure quello proprio, è lo stesso leader, il capo, che incarna fisicamente e sente intuitivamente la propria nazione nelle sue varie parti sociali. Si capisce che, nella visione di Quagliariello, si tratta del De Gaulle più caduco, frutto di una cultura arcaica, fondata su una lettura del sociale paradossalmente anti-moderna, laddove invece, per molti altri aspetti, il gollismo reca una tendenza modernizzatrice notevole.

Quagliariello ha ragione a vedere nell’ultimo De Gaulle, sia in politica estera che in quella interna, uno statista le cui proposte non trovano spazio nel quadro istituzionale da lui creato. Dopo le elezioni presidenziali del 1965, in cui De Gaulle entra in ballottaggio al secondo turno contro Mitterrand (esito che il presidente giudica come uno schiaffo dei francesi poco riconoscenti) e, soprattutto, dopo quelle legislative del 1967 (quando l’alleanza gollista-giscardiana per un soffio non perde la maggioranza dell’Assemblea nazionale), si stratifica di nuovo il clivage destra-sinistra, con una sinistra social-comunista e un centrodestra gollista-liberale. De Gaulle non sembra accettare questo ruolo.

Forse qui però l’autore avrebbe potuto fornire più credito a De Gaulle, che aveva capito come questo bipolarismo fosse ancora provvisorio e come la crisi del 1968 fosse assai più radicale di quanto non pensasse Pompidou. Si può affermare che l’ultimissimo De Gaulle vedesse la crisi del 1968 come un nuovo inizio, come una situazione di emergenza per tanti versi simile a quella del 1940 o a quella del 1958. In tale situazione di emergenza il dovere del capo era quello di intervenire per allargare l’area della democrazia. Da molti punti di vista si può criticare il referendum sulla «partecipazione» indetto da De Gaulle nel 1969, il cui rigetto da parte dei francesi sarà la causa delle sue dimissioni, ma non si può accusarlo di essere privo di una finalità democratica, federalista e sociale.

In quest’ottica si scopre come mai Quagliariello dedichi poco spazio a far emergere tale sensibilità politica inquieta, imprevedibile, se si vuole anche estetizzante, certo ambigua, ma anche ricca di stimoli, presente nello stesso De Gaulle e soprattutto in Andrè Malraux (a cui, tra i principali compagnon del generale, Quagliariello si interessa meno). Il De Gaulle di Quagliariello è infatti un costruttore, lucido, razionale, coerente, pur se capace di affrontare le intenzioni non volute, il cui progetto tuttavia negli ultimi anni si offusca.

Esiste tuttavia anche un altro De Gaulle, sulfureo, imprevedibile, visionario, se si vuole frutto di una cultura «arcaica» del generale, risalente addirittura all’inizio del XX secolo (anche se la comprensione del 1968 è difficile trovarla in esponenti di governo francesi e di altri paesi più «aggiornati» del generale), ma la cui analisi potrebbe far capire altre cose. Razionalismo e utopismo convivevano abbastanza armonicamente nel generale, perciò sarebbe interessante indagare questo secondo volto anche per comprendere i vuoti e le falle di una Costituzione non così perfetta come potrebbe sembrare, come del resto le vicende dei decenni successivi hanno mostrato.6 Dopotutto, lo stesso Quagliariello ci ricorda come De Gaulle fosse assai poco legato a una visione giuridica della storia, e si potrebbe affermare che il suo costituzionalismo è prima di tutto il risultato dell’azione carismatica: dall’incontro dell’individuo con la storia deriva poi il testo, che potrà e dovrà essere modificato quando le circostanze lo richiederanno, fatto salvo che il timing sarà deciso dal leader. Questo antiproceduralismo gollista, che rende arduo il suo inserimento a pieno titolo nelle famiglie dei diversi liberalismi moderni, spiega le ambiguità della carta costituzionale. Si aprirebbe però qui un discorso complesso.

Un De Gaulle (anche) di sinistra? La storia del rapporto tra De Gaulle e la sinistra è ancora tutta da scrivere. Certo è comprensibile che i Mendès France e i Mitterrand si siano opposti al generale, tuttavia con differenze rilevanti tra i due e sfumature importanti secondo i periodi e le fasi.

Mendès France, che pure condivideva con De Gaulle la lettura negativa dei difetti della IV Repubblica e dei regimi assembleari, più dottrinario di Mitterrand, sarà fino alla fine un avversario tenace della Carta del 1958 e del sistema di potere presidenziale derivato dalla sua interpretazione in De Gaulle e nei suoi successori. Mitterrand, più duttile, negli anni Sessanta e Settanta criticherà non tanto la Costituzione del 1958 e le sue modifiche del 1962 (l’elezione diretta del presidente della Repubblica), quanto la sua attuazione da parte di Pompidou e di Giscard, in una piena direzione presidenziale. C’è da chiedersi tuttavia se Mitterrand, una volta eletto presidente, non abbia messo in atto, da un punto di vista istituzionale, una sorta di «gollismo di sinistra».

Bisognerebbe domandarsi, allora, se la provocazione di Régis Debray, su De Gaulle uomo del XXI secolo, un visionario che avrebbe intuito con decenni di anticipo le trasformazioni del mondo, non sia più fondata di quanto a prima vista possa apparire. In ogni caso, il dibattito sull’eredità di De Gaulle nell’Europa del XXI secolo è tutt’altro che concluso.

 

 

 

Bibliografia

1 R. Debray, A demain De Gaulle, Gallimard, Parigi 1996.

2 E. Roussel, De Gaulle, Gallimard, Parigi 2002.

3 O. Rudelle, Mai 1958. De Gaulle et la République, Plon, Parigi 1988.

4 R. Remond, Les droites en France, Aubier-Montaigne, Parigi 1982.

5 M. Gervasoni, Il richiamo della Bastiglia. La sinistra francese e le immagini del potere, Unicopli, Milano 1997.

6 M.Gervasoni, Storia d’Europa nel secolo XX. La Francia, Unicopli, Milano 2003.