Elogio della manipolazione politica

Di Massimiliano Panarari Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

È invalso da tempo (soprattutto in un paese come il nostro di «santi, poeti, navigatori e… sportivi», purtroppo il più delle volte passivi) applicare la metafora calcistica a ogni pie’ sospinto e a ogni ambito della vita quotidiana. Abitudine che, notoriamente, non risparmia neppure la politica. Se, per una volta, si prova però a cambiare disciplina sportiva, appare per molti versi evidente come la politica postmoderna assomigli a un tennis court assai più che a un campo da calcio.

 

È invalso da tempo (soprattutto in un paese come il nostro di «santi, poeti, navigatori e… sportivi», purtroppo il più delle volte passivi) applicare la metafora calcistica a ogni pie’ sospinto e a ogni ambito della vita quotidiana. Abitudine che, notoriamente, non risparmia neppure la politica. Se, per una volta, si prova però a cambiare disciplina sportiva, appare per molti versi evidente come la politica postmoderna assomigli a un tennis court assai più che a un campo da calcio. Il teatro di un «gioco» fatto di accelerazioni e decelerazioni improvvise, «strappi», estenuanti scaramucce e guerre di posizionamento tra maggioranze e opposizioni (analogamente a quelle tra tennisti «pallettari», come si dice in gergo, incollati a fondo campo), individualismo marcato, tie-break per conquistare un punto – pardon, un voto – in più in condizioni di estrema volatilità e volubilità dell’elettorato e nell’occorrenza di votazioni con il sistema maggioritario.

E, dunque, anche in politica vale l’elogio, senza se e senza ma, dello spin, termine intraducibile propriamente in italiano, ma che indica, grosso modo, l’effetto impresso alla palla colpita di rovescio e di taglio. Ossia, secondo il lessico del giornalismo e della politologia anglosassoni, la manipolazione che può venire attivata dalla comunicazione politica quando si rivela in grado di attribuire alla notizia o al fatto una rotazione e una torsione che vanno a beneficio di una delle parti in conflitto; quell’«interpretazione autentica» del pensiero del leader, che lo spin ricostruisce per influenzare i media a vantaggio del personaggio per il quale presta servizio e lavora. Fornendo quelle opinioni e «presentazioni favorevoli» dell’operato del soggetto beneficiato che, in suolo di Albione, detengono abitualmente una completa legittimità morale, e su cui non ricade lo stigma che una certa anima profonda del nostro paese – cattolico (o meglio cattocomunista) e barocco – ha sinora riservato a queste pratiche.

Da qualche tempo a questa parte, secondo i più, sembra essere scoccata l’ora del tramonto per i massimi interpreti e profeti di tale versione «spinta» della political communication, gli spin doctors di Tony Blair, divenuti intanto ormai una delle numerose (anche se, probabilmente, la meno rassicurante) istituzioni britanniche. Evento in cui risiederebbe anche, a dimostrazione di quanto abbiano segnato la vita pubblica e persino l’immaginario dell’opinione pubblica d’Oltremanica, uno dei segni dell’annunciata fine della Cool Britannia, come ha titolato a più riprese, negli ultimi tempi, il «Guardian», quotidiano simbolo della sinistra anglosassone. A giudicare dalle reazioni, e dal clima di resa dei conti, che hanno circondato le ultime vicissitudini del secondo governo di segno neolaburista, facendo rotolare, in relazione alla morte di David Kelly e allo scontro con la veneranda BBC, l’ennesima testa, quella del potentissimo ex direttore della comunicazione (e grande sodale del premier), Alastair Campbell, parrebbe proprio di sì. Una «decapitazione», all’insegna del «recupero di tempo per gli affetti e qualità della vita» come ha dichiarato lo stesso ex capo del servizio politico del «Daily Mirror», che ha seguito quella, precedente, di Peter Mandelson, l’inventore del New Labour (o l’«anima nera» e il Rasputin del premier, nel giudizio dei suoi detrattori che gli hanno appiccicato la tutt’altro che invidiabile etichetta di «uomo più detestato d’Inghilterra»). Anche se il sofisticato e machiavellico stratega di Blair, dalla personalità indubbiamente di grande fascino, sembra pronto a ritornare in pista, richiamato dal primo ministro per la prossima, piuttosto complicata, campagna elettorale.

Ma le difficoltà vissute dallo spin-doctoring non mutano l’esigenza per la politica contemporanea e, in particolare, per quella progressista e di centrosinistra, di avvalersi significativamente e intelligentemente di strumenti di immagine, comunicazione e, absit iniuria verbis, di manipolazione. «Attrezzi» e skills che si trovano ancora oggi, incomprensibilmente, a scontare gli inutili pregiudizi, imbevuti di una certa arretratezza culturale, di una componente della sinistra di derivazione neomarxista e «francofortese» e di un’altra del cattolicesimo sociale anticapitalistico, rivedute e corrette in salsa radicaleggiante e antiglobalista, le quali trovano nella rivendicazione di un moralismo dai toni apocalittici e, a tutti i costi, una delle proprie bandiere. Facendo scivolare così nel dimenticatoio un filone della stessa pratica politica marxista, solitamente poco incline ai «fronzoli», che individuava nella «propaganda » (e nei relativi dipartimenti che si occupavano di questo ambito e delle tematiche della stampa) un pilastro e un fondamento essenziale dell’attività dei partiti comunisti occidentali nello svolgimento della propria attività di «avanguardie rivoluzionarie» a caccia di proseliti (o di elettori, come diremmo di questi tempi…).

Naturalmente non tutto è «rose e fiori» e qualità nell’ambito della comunicazione politica,1 ma di «purezza ideologica» per sgravarsi la coscienza e di demonizzazione della cultura mediatica i progressisti e i riformisti non hanno certamente alcuna necessità. Non per vincere e governare le nostre società complesse, ovviamente, ma neppure per dormire tra due guanciali il «sonno dei giusti», che rimane evidentemente il supremo degli ideali per un certo massimalismo e radicalismo di sinistra alquanto rétro e per il suo inutile snobismo intellettualistico. E, allora, approcci e valutazioni critiche sì (da trarre, tra gli altri, dai contributi della sociologia americana sulle società di massa e i meccanismi di persuasione, come pure dalla stessa Scuola di Francoforte),2 ma anche sperimentazione, modernità e un po’ di sana spregiudicatezza. Una ricetta che non può far male alla sinistra, e che si è già rivelata vincente nel passato (da Blair a Clinton, passando per Schröder e per i socialisti francesi), soltanto bisognosa al momento, questo sì, di alcuni correttivi e revisioni.

 

L’irruzione della comunicazione in politica

Dal momento che i fulmini usualmente non cadono a ciel sereno, anche l’ingresso – talora prepotente, talvolta più suadente – della comunicazione e dell’ampio catalogo delle sue tecniche in politica nasce da una successione di fenomeni storici e dal concludersi della fase novecentesca della politica, fatta di grandi passioni e di autentiche tragedie, di slanci generosi e del «ferro e fuoco» della volontà di potenza, delle gabbie di ferro della razionalità weberiana e delle scogliere di marmo jüngeriane, della prometeica utopia emancipatoria comunista e, in versione più modesta e a misura d’uomo, socialdemocratica e dell’epopea di Mr. Smith, l’incarnazione del common sense della liberal-democratica società di massa statunitense degli anni Venti e Trenta.

E proprio di qui, dall’esigenza delle élites di Washington di misurarne, monitorarne e classificarne le opinioni, e dalla contemporanea esplosione dei massmedia (in particolare, con una televisione che, insieme alla diffusione dell’aria condizionata, come dimostrò la sociologa Jane Jacobs, ha spinto gli americani a stare sempre più in casa, abbandonando i luoghi pubblici e della comunità), parte un pezzo della storia che stiamo tutti vivendo. Nonché la necessità per la politica, per quanto questi fenomeni sociali possano venire criticati, di farci i conti, aprendo uno spazio significativo alla figura, inedita, del consulente politico. La cui prima comparsa documentata avviene nel 1934, per l’appunto negli USA, in occasione della campagna per il governatorato della California (sempre lo Stato avanguardia e laboratorio, nel bene come nel male), allorché l’intervento dello studio di relazioni pubbliche Whitaker & Baxter si rivelò decisivo nel prevalere del candidato repubblicano su quello democratico.3 A distanza di svariati decenni l’elezione del «Conan» repubblicano Arnold Schwarzenegger a governatore dello «Stato del Sole» della West Coast, all’insegna di una piattaforma che mescola spregiudicatamente e dosa oculatamente tematiche conservatrici (a partire dall’eterna promessa di riduzione delle tasse) e aperture liberal in ambito di costume e diritti civili, ha rappresentato il culmine del dispiegamento di agenzie di PR e marketing politico. La storia è ciclica, diceva un tal Vico, decisamente più popolare nei dipartimenti di Humanities delle università a stelle e strisce che in quelle patrie.

E così i consulenti politici – espressione resa famosa, negli anni Ottanta, con il suo The Rise of Political Consultants da Larry Sabato (figura talmente leggendaria da avere costituito la fonte di ispirazione di Richard Gere per il personaggio da lui interpretato nel film Power) – si impongono, in qualità di campaign managers, media advisers e, giustamente, spin doctors, all’attenzione di partiti, leader e cronache pubbliche. Con le loro competenze trasversali e le loro provenienze plurime – sempre esterne alla politique politicienne, dalla pubblicità al marketing, dal giornalismo e dal mondo dei media alla demoscopia e sondaggistica d’opinione, dall’accademia alla ricerca sociale sino alle vere e proprie public relations – essi finiscono per presentarsi in parte come effetto e in parte come causa di un processo combinato di professionismo e professionalizzazione della politica che, da un lato determina l’ingresso via via più massiccio di specialisti esterni accanto ai tradizionali organismi dirigenti dei partiti e, dall’altro, prevede il cambiamento progressivo degli stessi, i quali assumono connotati e caratteristiche mutuati da altre organizzazioni complesse (in primo luogo dall’universo aziendale ed economico, ma pure da quello militare).4 Segno dei tempi e di quel processo di secolarizzazione della politica cui si deve in gran parte imputare l’affermazione e l’imporsi sempre più irresistibile, a partire dagli anni Sessanta, della «rivoluzione comunicativa». Naturalmente egemonizzata, dal momento che le tecniche mediatiche e di comunicazione costano e richiedono risorse ingenti, dalla destra e dagli ambienti conservatori, rintuzzando e scalzando così quella «rivoluzione organizzativa» di cui si erano fatte promotrici, dall’ormai lontano Ottocento, le strutture del movimento operaio e dei lavoratori (in una parola, la sinistra), a partire dall’intuizione della forza del numero e dell’aggregazione per rivendicare diritti e affrancamento dalla subordinazione.

Un lungo pellegrinaggio e una relazione tormentata quella tra progressismo e innovazione massmediatica che sembra trovare un’oasi fortunata, anzi, letteralmente, la «Mecca», nella Gran Bretagna postmoderna di Blair, dove gli spin doctors e i maghi della comunicazione intuiscono con lungimiranza le dinamiche di una società ormai compiutamente postpolitica;5 un sistema sociale «senza classi» e impregnato di un populismo soft nel quale – malinconicamente, va da sé, ma, come insegnava Marx, è con il piano del reale che si devono fare i conti – la capacità di regalare suggestioni e la sostituzione del modello dell’infotainment all’approfondimento culturale determinano inesorabilmente il predominio senza eguali dell’immagine. Su queste premesse nasce la Terza via e lo sforzo di pensare – in termini, se vogliamo dire così, di «pensiero debole» (ma non fragile né tanto meno fievole), perché non è più tempo di ideologie – le nuove tendenze e tensioni dell’Inghilterra cosmopolitica e postindustriale (dall’Anthony Giddens «oltre la destra e la sinistra» a Geoff Mulgan, dal primo William Hutton sino a Ian Hargreaves e Andrew Adonis).

 

Perché la sinistra ha bisogno di manipolazione politica

Non servono operazioni di maquillage, ma contenuti; è questa, notoriamente, una delle obiezioni più frequenti indirizzate contro la presunta fascinazione eccessiva esercitata dalla manipolazione mediatica sui riformisti. Naturalmente, come in tutte le cose, c’è del vero; ma la situazione, per riesumare un ritornello molto diffuso in seno alla sinistra di qualche tempo fa, appare più complessa.

Il sociologo Colin Crouch, non molto tenero con il blairismo, intravede nel neolaburismo l’epitome del passaggio a quella che chiama la postdemocrazia,6 lo stadio odierno della storia delle democrazie rappresentative, che coinciderebbe con il loro tramonto e muterebbe pesantemente il volto dei partiti di centrosinistra. Il disgregarsi di un referente sociale definito (il lavoro dipendente e subordinato irreversibilmente modificato dall’economia postfordista e dalla globalizzazione) porta all’irrimediabile consunzione dell’identità politica tradizionale di cui i progressisti fecero il loro vessillo, nella lotta infinita tra revisionismi e ortodossie, per tutto il corso del XIX e XX secolo. L’esito, sotto gli occhi dei contemporanei, diviene una marmellata centrifugata e indistinguibile e, soprattutto, pericolosa per la democrazia (al punto da proiettarci in un’epoca giustappunto postdemocratica), intrisa di populismi, dittatura dell’industria pubblicitaria, strapotere delle multinazionali e delle loro «braccia armate» (le lobbies) sondocrazia, spettacolarizzazione «senza rimedio» della politica.

Analisi ben documentata e precisa. E infatti, anche da qui, sia pur non soltanto, vengono la sconfitta del ciclo dei governi di centrosinistra degli anni Novanta del Novecento e le tribolazioni attuali delle forze progressiste, le quali testimoniano l’indiscutibile esigenza di risintonizzarsi sulla società e sui suoi bisogni, manifestando altresì, con tutta la forza dell’evidenza, la necessità di tornare a fare politica.

Ad averlo sottolineato a più riprese e con determinazione, non sono stati unicamente quelli che Crouch chiama i «democratici egualitari» o gli esponenti più colti e preparati del movimento new global, ma gli stessi «detestati» portabandiera della manipolazione politica. E, in particolar modo, proprio quel Philip Gould che ha fatto parte del ristrettissimo drappello di happy few (un vero e proprio club di sodali e di «cavalieri della tavola rotonda») all’origine del New Labour. Precisamente il consigliere strategico per eccellenza dell’attuale Mr. Prime Minister, già titolare di un’agenzia di pubblicità e marketing (la Brignull Lebas Gould), ieri teorico della centralità dei ceti medi nella costruzione di una «coalizione progressista» e oggi alfiere della cosiddetta new politics. Il «primato della comunicazione» (la communication d’abord) rivendicato da Gould, difatti, non passa esclusivamente per gli exit polls e i monitoraggi d’opinione, ma si nutre di analisi, pensieri, teorie; in poche parole, ricerca, e punta a far prevalere, nuovi paradigmi politico-culturali. Recentemente,7 il «consulente globale» delle campagne elettorali del centrosinistra mondiale (non solo Blair, ma anche, in passato, Clinton, le socialdemocrazie nordiche e i partiti socialisti dell’Est europeo) ha introdotto nel discorso politico anglosassone l’idea della «rivoluzione a tre facce» per connotare lo Zeitgeist odierno, nella quale si mescolano, complicando maledettamente la vita alle sinistre, l’ormai permanente sensazione di insicurezza degli individui, la potenza dei consumatori (una nota speranzosa per i progressisti, effetto benefico del dilagare e del successivo consolidamento dei valori postmaterialisti nell’esistenza quotidiana dei cittadini dell’Occidente) e la «comunicazione contaminata». Vale a dire, la rifondazione delle tecniche comunicative – anche, quindi, in un ambito politico che mostra comunque le maggiori difficoltà ad adattarsi e a riciclarsi al riguardo – nella direzione della personalizzazione, del permission marketing e dell’abbandono della dimensione dell’indistinzione di massa dei target e dei messaggi. D’altronde, non è stato proprio David Miliband, un altro dei consiglieriprincipi di Blair, a scrivere: «una volta espresso il giusto plauso per la professionalità e l’organizzazione mediatica del New Labour, (...) le idee contano, perché senza di esse nessuna campagna politica avrà successo»?8

La Big Conversation9 lanciata dalla Policy Unit del primo ministro (eredità, non casualmente, dell’era Gould, e ora capitanata da Matthew Taylor) sarà certamente infarcita di sondaggi e focus group, ma in essa si avverte in ogni caso ben più di un eco e di una risonanza con la sfera habermasiana dell’opinione pubblica, all’insegna di un mix di «ascolto» della civil society, «scambio di chiacchiere» o, più nobilmente, dialogo illuministico e sensibilità neocomunitaria, che rappresenta, soprattutto se confrontato con la desolante difficoltà di produrre idee innovative e competitive in campo progressista, un indiscutibile sforzo creativo e un contributo alla ricerca di senso della sinistra riformista internazionale (persino per chi ha maggiori propensioni o inclinazioni per il modello franco-tedesco). Per non parlare dell’attenzione riposta sulle virtù benefiche della comunicazione dall’ultimo Giddens (quello di The Progressive Manifesto) e dagli altri intellettuali riformisti impegnati nella definizione di un vocabolario del «Neoprogressismo», da Gøsta Esping-Andersen a Folke Schuppert, da Patrick Diamond a Wouter Bos, sino all’italiano Nicola Rossi.

Per fugare i timori di chi paventa un’involuzione degenerativa del centrosinistra, risucchiato irresistibilmente nelle spire della Circe postdemocratica, pensiamo basti ricordare che non esiste comunicazione in assenza di contenuti da comunicare: ça va sans dire, e gli spin doctors sono i primi a nutrirne la consapevolezza.

Non ha molto senso, né utilità, confondere il moralismo con la morale, l’integralismo rigorista con l’etica, perché questo genere di atteggiamento non porta la sinistra a fare passi avanti; anzi, non la porta proprio da nessuna parte. Del resto, quella praticata dalle rainbow coalitions della storia americana del dopoguerra – in materia di diritti civili, affirmative actions per gli afroamericani, rispetto delle minoranze sessuali, pacifismo e tutela dei consumatori – non è una sacrosanta forma di «lobbismo democratico», che si è avvalsa di manifestazioni e dimostrazioni di piazza (componente certamente irrinunciabile dell’armamentario dei progressisti), ma pure di autentiche e sfavillanti offensive di public relations e di una frequentazione intelligentemente strumentale dei corridoi dei palazzi della politica e di Capitol Hill?

E non è forse vero che esiste sempre più un’affinità di fondo e di vedute – come mostra l’esempio anglosassone, contemplabile, per una volta, come positivo anche dalla sinistra più incrollabilmente antiamericana – per cui il comunicatore politico oppure l’esperto della «manipolazione democratica» (secondo la felice formula di Roberto Bertinetti) lavora solamente per una delle parti? Non rivelandosi, pertanto, un cortigiano, né una «puttana». Si passi il termine, desunto, peraltro, dal fulminante motto (o slogan, se si preferisce) del grande pubblicitario francese (e inventore delle campagne elettorali di François Mitterrand) Jacques Séguéla, il quale, in un celebre libro, invitava gli amici a non svelare mai alla madre la sua vera professione, essendo lei ancora «innocentemente» persuasa che il figlio svolgesse il «ben più onesto mestiere» di pianista all’interno di un bordello. In questi termini, la consulenza politica appare annoverabile alla stregua di una forma, naturalmente retribuita (e, nel caso delle stars, assai lautamente pagata, nessuno lo nega, ma si chiama meritocrazia, il che dovrebbe essere una battaglia di principio dei progressisti) di professionismo, che si può persino configurare quale evoluzione, riveduta e corretta, della militanza.

Pensare all’esistenza di una sorta di relazione di proporzionalità inversa tra comunicazione ed etica rappresenta, dunque, il modo sbagliato di porre i termini della questione. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, a sinistra è di più etica e più comunicazione al tempo stesso. E di una comunicazione di qualità diversa, migliore, maggiormente dinamica e in grado di «annusare» e intercettare le veloci modificazioni delle società occidentali complesse e globalizzate, svolgendo anche, quanto meno parzialmente, una funzione di surrogato di quelle antenne ricettive dei sommovimenti, piccoli o grandi, del corpo sociale che la forma-partito classica della sinistra sapeva egregiamente attivare.

 

Una breve postilla

Riformismo non è una parola passepartout, né una panacea, ma un sistema di pensiero che si fonda sul riconoscimento dell’ambiente e del contesto in cui agire e, quindi, sulla volontà di trovare le soluzioni più appropriate ai problemi che di volta in volta si presentano. Un paradigma flessibile e adattabile, nel senso alto delle parole, mai dogmatico né rigido. Il riformismo contemporaneo, come afferma Giulio Sapelli,10 esige un profondo rinnovamento intellettuale, che sappia scrollarsi di dosso le incrostazioni negative del passato e i fallimenti di alcune delle sue classi dirigenti per inventarsi un solidarismo responsabile, popolato di nuovi diritti e doveri, sociali e individuali. Si tratta, ancora una volta, di incamminarsi verso una «società di liberi ed eguali». Per arrivarci la sinistra continua, e continuerà sempre (per fortuna), ad avere bisogno di militanti, e di un «blocco sociale», sia pur rinnovato, su cui far leva. Ma oggi, più che mai e molto più di quanto accadeva ieri, quell’obiettivo richiede competenze e professionismi.

Ora, non sappiamo, come disse una volta Tony Blair, se sia vero che il Partito laburista inglese non sarà migliore fino a che non avrà imparato ad amare l’amico Mandelson. Ma certamente la sinistra non sarà matura sino a che non riuscirà a rispettare e ad apprezzare l’importanza del mestiere svolto dagli stregoni della notizia, questi eredi di Gorgia e Baltasar Gracián (come pure dei retori classici, degli scettici seicenteschi, dei philosophes e degli enciclopedisti illuministi, e di tanti altri ancora), per il conseguimento delle sue sempiterne finalità ideali.

 

 

Bibliografia

1 Basti citare l’inaccettabile (questo sì) e gratuito cinismo (pagato con le dimissioni) di Jo Moore, direttrice della comunicazione del ministro dei trasporti inglese, Stephen Byers, la quale suggerì ai propri collaboratori di sfruttare l’evento dell’11 settembre e, successivamente, quello della morte della principessa Margaret, per diffondere, in modo «indolore» e alla chetichella, alcuni dati disastrosi sulle ferrovie britanniche.

2 Ovvero dagli studi di figure come Charles Wright Mills, Vance Packard, Neil Postman, come pure da quelli sulla pubblicità «nemica del mercato» di economisti quali John K. Galbraith e Nicholas Kaldor. E persino dalle impietose analisi sui media, insuperabili nella loro pars destruens, di Pierre Bourdieu.

3 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, il Mulino, Bologna 1998.

4 P. Mancini, Il professionismo della war room: come cambiano i partiti politici, in «ComPol», 1/2001.

5 Per comprendere le mutazioni genetiche dell’Inghilterra post-thatcheriana e la rivoluzione sociomediatica che vi soffia senza sosta, si legga l’articolo, decisamente ricco di spunti, di R. Bertinetti, Manipolazioni democratiche. Stregoni mediatici nella Britannia postmoderna, in «il Mulino», 6/2003.

6 C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

7 In occasione di un convegno organizzato a Roma, nel novembre 2003, dalla società di comunicazione politica Running, sul tema Making People Enjoy Politics.

8 D. Miliband, La forza delle idee è la chiave del successo laburista, in «Italianieuropei», 3/2002.

9 D. Bessarione, Fra leader giovane e leader inconsistente il passo è breve, in «Il Riformista», 1 dicembre 2003.

10 G. Sapelli, Sul riformismo, Bruno Mondadori, Milano 2003.