Dall'altro al pubblico. Considerazioni critiche sulla filosofia di Martin Buber

Di Alessandro Marini Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

La società occidentale odierna è definita comunemente società della comunicazione. Il verbo «comunicare» apre vasti spazi che si perdono nell’anonimato di una pluralità indefinita; la comunicazione è divenuta la finestra principale dalla quale ognuno volge il proprio sguardo sull’umanità. Tuttavia, la comunicazione in se stessa – il «dire pur di dire», si potrebbe affermare parafrasando Heidegger – ha assunto maggiore importanza rispetto ai contenuti e al destinatario a cui la comunicazione medesima si rivolge.

 

La società occidentale odierna è definita comunemente società della comunicazione. Il verbo «comunicare» apre vasti spazi che si perdono nell’anonimato di una pluralità indefinita; la comunicazione è divenuta la finestra principale dalla quale ognuno volge il proprio sguardo sull’umanità. Tuttavia, la comunicazione in se stessa – il «dire pur di dire», si potrebbe affermare parafrasando Heidegger – ha assunto maggiore importanza rispetto ai contenuti e al destinatario a cui la comunicazione medesima si rivolge. Questa constatazione evidenzia un paradosso: la possibilità di comunicare a, e con il mondo intero si accompagna a una scarsità d’argomenti e a un’insufficiente considerazione dell’altro. Detto altrimenti, una società, quale è la nostra, che vanta il superamento d’ogni forma d’isolazionismo – ne è un esempio l’annullamento dell’isolamento nazionale attraverso l’abbattimento delle frontiere e l’apertura al mercato globale – deve fare i conti con gli spettri dell’isolamento che in essa si generano. Il problema che a questo punto si pone è se sia possibile parlare di «pubblico» (dimensione pubblica) a prescindere dall’«altro» (alterità). Immediatamente, e a ragione, verrebbe da rispondere di no; eppure, l’occidente contemporaneo, con la pubblicizzazione dei prodotti industriali, con le nuove tecnologie della comunicazione, cerca la dimensione pubblica nell’annullamento dell’alterità d’altri.

La questione posta sopra, se sia possibile parlare di pubblico prescindendo dall’altro, è affrontata da Buber, il quale, nel definire una filosofia dialogica orientata alla scoperta di Dio come «tu» eterno a cui l’uomo si rivolge, delinea la possibilità di una vita comune che si dispieghi nella verità, fino al riconoscimento di Dio, senza trascurare l’altro.

Prima di entrare nel dettaglio, è opportuno esporre in breve il punto di partenza di Buber. La sua analisi procede dall’assunto secondo il quale è impossibile porre l’«io» a prescindere da un rapporto relazionale originario, prescindendo cioè dalle parole fondamentali, che di fatto designano delle relazioni, «io-esso» e «io-tu»: «Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso».1 Il dire l’una o l’altra parola fondamentale non si risolve nell’immediatezza del puro enunciato, poiché «chi dice una parola fondamentale entra nella parola e la abita».2 La parola sancisce dunque un abitare dell’uomo nella sua stessa dimora. La posizione di Buber è lontana dalla tradizione soggettivistica cartesiana e proprio da tale lontananza scaturisce la possibilità della costituzione di una dimensione pubblica autentica. Sicuramente questa possibilità non è scontata. Non basta, infatti, porre le due parole fondamentali senza chiarirne il significato e comprendere il processo che conduce Buber alla scoperta del pubblico nello svelamento dell’altro.

L’«io-esso» costituisce la relazione spazio-temporale dell’esperienza, dove si collocano, ad esempio, le scienze: «Il mondo dell’esso trova connessione nello spazio e nel tempo».3 Pertanto, il mondo dell’esso è il mondo della causalità e dell’esperienza. La causalità domina incontrastata nel mondo dell’esso. Ogni processo fisico percepibile sensibilmente, ma anche ogni processo psichico incontrato o trovato nell’esperienza del sé, vale necessariamente come causato o come causante. Non ne sono esclusi neanche quei processi a cui si può attribuire il carattere di finalità, come parti costituenti del continuum del mondo dell’esso, che tollera certo una teleologia, ma solo come rovescio indotto in un aspetto della causalità, che non intacca la completezza del concatenamento causale.4

Buber descrive il mondo dell’esso come il mondo dell’esperienza, dove, in una serie di rapporti causali, ci si orienta verso l’uso degli oggetti. Egli, tuttavia, ritiene che nell’esso si collochi una forma di relazione con altri che ne esclude, paradossalmente, l’alterità. Nell’esso Buber riconosce l’esistenza di due forme caratteristiche della vita in comune: lo Stato e l’economia. Entrambi rappresentano due aspetti della vita pubblica dell’uomo moderno e, a tal proposito, Buber avanza la seguente questione: «Ma il vivere in comune dell’uomo moderno non è necessariamente inabissato nel mondo dell’esso?».5 Più precisamente, la domanda cruciale riguarda l’operato dello statista e quello dell’imprenditore: la grandezza plasmatrice dell’uomo di Stato e dell’imprenditore di primo piano non sono proprio legate al fatto di non guardare gli uomini con cui hanno a che fare come portatori del «tu» che non si lascia sperimentare, ma come centri di produzioni e aspirazioni che vale la pena tenere in conto e utilizzare nelle loro specifiche capacità?6

Le successive frasi di Buber chiariscono che economia e Stato instaurano rapporti di dominio dove l’elevazione dell’«io» a signore e padrone vela la libertà del «tu» altrui. «Tu che parli, parli troppo tardi. Appena poco fa avresti potuto credere al tuo discorso, adesso non più. Poiché un istante fa tu, come me, hai visto che lo Stato non è più governato; i fuochisti ammassano ancora carbone, ma i conducenti dirigono solo in apparenza la macchina che corre all’impazzata. E in questo istante, mentre parli, tu, come me, puoi dire che la leva dell’economia inizia a vibrare in modo inconsueto; i suoi artefici ti sorridono con aria di superiorità, ma la morte è nei loro cuori. Ti dicono che adeguano l’apparato alle circostanze; ma tu noti che da questo momento possono solo adeguare se stessi all’apparato, fintanto che questo lo permetta. I loro portavoce ti addottrinano, dicendoti che l’economia ha assunto l’eredità dello Stato; tu sai che non c’è null’altro da ereditare che la pullulante tirannia dell’esso, sotto la quale l’io, sempre più impotente contro la violenza, sogna ancora sempre di essere il signore».7

Pur escludendo una fondazione di stampo soggettivistico che spieghi i rapporti dell’uomo con il mondo, Buber riconosce che nel mondo dell’esso l’attenzione alla funzionalità degli apparati – siano essi statali o economici – svela la pretesa dell’«io» di erigersi a signore del mondo. Questo «io» impotente contro la violenza evoca l’opprimente violenza levinasiana della totalità, rispetto alla quale qualunque spiraglio d’alterità resta inesorabilmente soffocato. Tale violenza – in Levinas – è la violenza del pensiero teoretico, la violenza posta in atto dalla filosofia occidentale che, privilegiando la teoresi al dialogo, il pensiero alla parola, «è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo».8 In ciò si ravvisa un unico filo conduttore, a cui s’affianca l’appartenenza comune alla tradizione ebraica, che unisce, per alcuni aspetti, Buber, Levinas e Rosenzweig.9 Proprio quest’ultimo scriveva ne «La stella della redenzione», «nessuno percepiva nell’altro l’umano come tale, ciascuno lo percepiva immediatamente soltanto nel proprio “sé”. Il “sé” rimaneva incapace di gettare lo sguardo oltre le proprie mura, il mondo intero rimaneva fuori. Se lo aveva in sé, non lo aveva come mondo, ma solo come un suo possesso. L’umanità di cui sapeva qualcosa era solo quella compresa dentro le sue quattro mura. Egli stesso rimaneva l’unico “altro” che riusciva a scorgere, ed ogni altro che volesse essere visto da lui doveva entrare in questo suo campo visivo e così rinunciare ad essere visto come “altro”».10

Questo «sé» è il «sé» dell’arte, degli eroi tragici, ma anche dei sofisti che, insieme alla tragedia greca, costituiscono, per Rosenzweig, i fondamenti della metafisica occidentale. In «Io e Tu», l’«io» impotente alla violenza, padrone del mondo dell’esso – dominatore dell’esperienza e del mondo – è l’«io» figlio della tradizione metafisica che, per Rosenzweig e Levinas, opprime l’altro. Così, nell’idea buberiana dell’economia non c’è alcuna alterità. Buber parla di coloro che «addottrinano», cioè impongono dogmi, come se la lacità dello Stato sia inaspettatamente messa in discussione da un sistema economico che eleva il «mercato» a suprema guida divina delle sorti dell’umanità. L’economia appare, allora, nelle vesti dell’esito della metafisica, dove – con un nuovo riferimento a Heidegger – non si consuma soltanto il dominio dell’uomo sull’ente attraverso la tecnica, ma si inscena tragicamente il dominio dei pochi sui molti. Stato e, soprattutto, economia si presentano nelle righe di Buber come i risultati di una tradizione filosofica che pretende di promuovere una vita pubblica a partire dalla singolarità globalizzante dell’ego. Di fatto, non c’è alterità in una visione del mondo incentrata sulla signoria dell’ego.

Il tentativo buberiano di pensare il fondamento dei rapporti col mondo non nei termini di «egoità», ma nei termini di «relazione» posta dalle due parole fondamentali, trova un’affinità col tentativo di Levinas di pensare la soggettività come «passività», pensare cioè una soggettività capace di ospitare l’altro come volto che apra l’infinito, l’al di là della totalità ontologica imposta dalla metafisica occidentale. Si evince che per entrambi gli autori una considerazione adeguata dell’alterità richieda un atteggiamento critico verso la tradizione soggettivistica occidentale; l’opera di Buber da questo punto di vista collega, allora, idealmente Rosenzweig a Levinas sia per l’affinità di determinati contenuti, come quelli brevemente illustrati, sia da un punto vista cronologico («La stella della redenzione» è pubblicata nel 1921, «Io e Tu» nel 1923 e la prima edizione di «Totalità e infinito» nel 1961).

Buber presenta, dunque, in «Io e Tu», Stato ed economia come forme di vita comune dove, però, sia l’uomo di Stato che l’imprenditore misconoscono l’altro come portatore del «tu». Se si considera una parte di un altro saggio di Buber – «La domanda rivolta al singolo» – intitolata «Il singolo e la dimensione pubblica» si scopre che con ogni probabilità l’idea di Stato e di economia tracciata in «Io e Tu» è riconducibile al concetto di «massa», che Buber così illustra: «Ma certamente la massa è il contrario della libertà. Come sia il contrario della libertà, sotto il peso di una fatalità, derivi essa dalla costrizione di un bisogno o dagli uomini, non lo si può ben capire, perché ci resta pur sempre l’intima ribellione del cuore, l’appello senza parole al mistero dell’eternità; lo si può ben capire solo quando si è affastellati nella massa e si crede ciò che essa crede, si vuole ciò che essa vuole, e si percepisce ancora solo ottusamente di essere così».11

Buber traccia due atteggiamenti particolari attraverso i quali il singolo viene inghiottito nella massa, prendendo parte passivamente alla vita pubblica: «Tuttavia ci sono due atteggiamenti fondamentali in cui l’identificazione con la dimensione pubblica della concretezza respinge l’attenzione verso le persone e, provvisoriamente o per sempre, s’impone; pur così diversi fra loro, essi producono spesso lo stesso effetto. Il primo deriva dall’entusiasmo per il momento “storico”: la massa si attualizza, entra in azione e in essa si trasfigura, e la persona, sopraffatta da un’estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica. Qui non c’è conoscenza dell’alterità dell’altra persona che agisca in senso contrario e sia d’ostacolo (…). Il secondo è un atteggiamento passivo e costante; è l’usuale “stare dalla parte” dell’opinione pubblica e del pubblico. “Prendere posizione”. Qui la massa resta latente, non appare in quanto massa, e, come è noto, si limita ad agire in modo tale che o vengo del tutto destituito dalla possibilità di formarmi un’opinione e di decidere, oppure, in un’offuscata interiorità, vengo per così dire convinto della non validità delle mie opinioni e decisioni, e al loro posto vengo fornito di un’opinione convalidata e autenticata. E con ciò non mi accorgo affatto degli altri, perché essi sono nella mia stessa condizione e la loro alterità è stata velata».12

Questa concezione buberiana della massa non si discosta molto dal «Si» pubblico heideggeriano. Come dimostra il seguente passo tratto da «Essere e tempo», anche Heidegger ritiene che nella pubblicità del «Si» – ovvero nella quotidianità pubblica in cui primeggia la «chiacchiera» – l’altro sia annullato da una moltitudine indistinta che nell’anonimato smarrisce ogni possibilità di esistenza autentica. Heidegger sottolinea infatti che nell’inautenticità pubblica «l’Esserci non ha trovato, o ha perduto, il proprio Esserci e l’autenticità degli Altri».13 In ciò si ravvisa indubbiamente un punto di contatto tra Buber e Heidegger, poiché per entrambi la moltitudine comporta il rischio del velamento dell’altro. Purtroppo, però, in questa sede, non è possibile sviluppare un confronto critico tra i due autori che possa rilevarne le macroscopiche differenze.

Nel saggio «Elementi dell’interumano» (1954), Buber sostiene che la conversazione comune tra gli uomini sia da designare come «chiacchiera», evocando di nuovo la visione heideggeriana della quotidianità comune: «Sarebbe più giusto, e più preciso, chiamare chiacchiera la maggior parte di ciò che oggi tra gli uomini ha nome di conversazione ».14 Si può ritenere che il termine «chiacchiera», con cui Buber nel 1954 designa il conversare ordinario degli uomini l’uno con l’altro, sia di fatto riferibile al concetto di «massa» presente in «La domanda rivolta al singolo»; se a ciò si aggiunge il fatto che in «Io e Tu» Stato ed economia sono descritti come forma di vita comune in cui il «tu» altrui resta velato, si può allora ricavare che Stato ed economia riguardano la massa e si alimentano di «chiacchiere». La chiacchiera penetra così nella reclamizzazione dei prodotti, nella propaganda politica15 e nei dibattiti pubblici.16 Si può dunque affermare che proprio il misconoscimento dell’«altro» lega, per Buber, Stato, economia, massa e chiacchiera. Quest’ultima, in particolare, alimenta l’ego mediante il potente strumento della falsità: «Se, anziché dire quel che ho da dire, mi accingo a dar voce a un io che vuol farsi valere, ho irreparabilmente fallito ciò che avrei avuto da dire; la mia parola entra nella conversazione in modo falso e la conversazione diventa falsa».17

Nell’inganno Buber scorge lo spazio in cui l’interumano soccombe di fronte alle pretese dell’«io»; l’altro è allora soggiogato, annullato, svilito come «tu». Secondo Heidegger – che a tal proposito è esplicito quanto Buber – la chiacchiera alimenta e richiede necessariamente la falsità, poiché nella chiacchiera l’ente di cui si parla è destinato inesorabilmente al velamento. Si consideri, infatti, quanto Heidegger espone nelle lezioni estive del 1925: la «chiacchiera, che predomina nell’essere l’un con l’altro dell’esser-ci, è una funzione dello svelare, ma solo nella maniera notevole del velamento».18 Se ne ricava una comune visione della quotidianità pubblica tra Heidegger e Buber, visto che per entrambi la conversazione comune è inficiata dalla chiacchiera, dove s’annidano inganno e menzogna.

Dalla considerazione generale di alcune pagine di «Io e Tu», di «La domanda rivolta al singolo», e di «Elementi dell’interumano», si evince che per Buber alcune forme di vita comune della modernità, come Stato ed economia, sono forme di esistenza di massa che, come tali, negano l’alterità dell’altro e alimentano la signoria dell’«io», anche attraverso la falsità.

Come si spiegherà meglio nelle righe seguenti, dal punto di vista buberiano ciò ha un significato teologico, dal momento che il velamento del «tu» altrui comporta inevitabilmente il rifiuto del «Tu eterno», cioè di Dio.

La parola fondamentale «io-tu» scopre l’altro uomo come autentico «tu»: «Se sto di fronte a un uomo come al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose. Non è un lui o una lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definite. Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce».19

Per Buber è quindi la relazione aperta dalla parola «io-tu» a dissolvere la singola «egoità», chiusa in se stessa, a favore del volto. L’«io-tu» offre una relazione in cui l’uomo abita e a partire da cui il «tu» altrui è sottratto al velamento.

Buber chiarisce che ad essere annullato di fronte al «tu» è l’«io» che pretende di essere il dominatore, mentre un altro «io» – un «io rinnovato» – si genera: secondo Buber questo «io» aperto al dialogo è l’«io» socratico, il quale non pretende di dominare il mondo, ma, nel riconoscimento del «tu», favorisce la situazione dialogica. Buber traccia, allora, una distinzione tra «io individuale», «io goethiano» e «io socratico». Il primo suscita una grande compassione, quando proviene da una bocca tragica, serrata dall’occultato segreto di un’autocontraddizione. Suscita orrore, quando proviene da una bocca caotica, che selvaggiamente, senza preoccupazione e senza averne idea, mostra la contraddizione. È penoso o sgradevole, quando proviene da una bocca vanitosa che appiattisce la contraddizione.20

D’altra parte, se l’«io» di Goethe «è l’io del puro rapporto con la natura»,21 l’«io» di Socrate è l’«io» dialogico, ossia quell’«io» privo di individualità che accoglie la pluralità umana. Quest’ultimo non è, quindi, l’«io soggetto», l’ego della tradizione cartesiana: «Ma l’io socratico, così vivo, così espressivo, come suona bello e legittimo! È l’io del dialogo senza fine, l’aria del dialogo lo avvolge per tutte le sue vie, persino davanti ai giudici, persino nell’ultima ora di prigionia. Questo io viveva nella relazione con gli uomini, attualizzata nel dialogo. Credeva nella realtà degli uomini e andava loro incontro. Era con loro nella realtà, e la realtà non l’abbandona più. Persino la sua solitudine non può mai essere abbandono e, se il mondo degli uomini non gli parla più, ode il demone dire tu».22

Socrate incarna l’«io» dialogico, l’«io» che accoglie la parola fondamentale «io-tu» ed entra nella relazione autentica che essa schiude. Egli non solo accoglie la pluralità nelle relazioni dialogiche con altri uomini, ma vive un momento d’alterità anche in solitudine quando ode il demone dire «tu».

Una considerazione simile a quella di Buber la offre Arendt nel saggio, tardo e incompiuto, «La vita della mente». Arendt commenta la parte finale del dialogo platonico «Ippia Maggiore» in cui Socrate si congeda dal suo interlocutore Ippia confessando a quest’ultimo che, una volta tornato a casa, deve fare i conti con «qualcuno» che lo interroga: questo «qualcuno» è il demone. Secondo Arendt, il caso di Socrate – il pensatore che non rifiuta la vita pubblica – rappresenta l’insinuarsi della differenza, della dualità, nell’identità dell’«io» con se stesso. Ciò è quanto avviene nella completa solitudine: «Persino Socrate, così innamorato dell’agorà, deve fare ritorno a casa, dove sarà solo, in solitudine, per poter incontrare l’altro».23 Viceversa, «quando Ippia torna a casa rimane uno poiché, sebbene viva solo, non cerca di tenersi compagnia».24 Sia Buber che Arendt, entrambi autori di origine ebraica, si concentrano sulla solitudine di Socrate per illustrare la presenza di una relazione profonda nell’«io» umano che esperisce la presenza di un «tu».

La presenza di una situazione dialogica in solitudine è riconosciuta anche da Nietzsche in «Così parlò Zarathustra» (nel capitolo su «La visione e l’enigma»), sebbene il «tu» incarnato nella figura del nano non sia un «tu» amichevole, ma una sorta di avversario, una figura ostile nella sua irriverenza. Zarathustra, dopo aver narrato le provocazioni del nano, riferisce che «il nano tacque; e ciò durò a lungo. Il suo tacere però mi opprimeva; e l’essere in due in questo modo è, in verità, più solitudine che l’essere solo!».25 Heidegger, ad esempio, riconosce in questa situazione una relazione dialogica, dove la presenza del nano, per Heidegger, è messa in discussione da Zarathustra stesso «Zarathustra, colui che sale, contro il nano, che tira giù». Così, salendo, si giunge al problema: «Nano! O Tu! O io!». Dalla maniera in cui è qui posta la decisione, sembra ancora che il nano (che viene nominato per primo, con il «Tu» in maiuscolo) debba continuare a prevalere. Ma ben presto, con un rovesciamento è detto: «Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo, tu non potresti sopportarlo!».26

Questi riferimenti hanno lo scopo di porre le parole di Buber a confronto con altri testi filosofici, che pure individuano nella solitudine la presenza di un momento di alterità. Per Arendt, la dualità, che si segnala nell’esempio di Socrate (il «due-in-uno»), «fa segno alla pluralità infinita che è la legge della terra».27

Se si fa attenzione a quanto scrive Buber, si può notare che soltanto un’esperienza autentica di alterità, che non misconosca la situazione dialogica (come nel caso dell’«io» socratico), è in grado di condurre a una vera scoperta della dimensione pubblica, che non sia semplicemente «massa». Buber affronta il tema in «La domanda rivolta al singolo», dove si legge che «la struttura fondamentale dell’alterità (…) è la dimensione pubblica»:28 «Completamente diverso è l’uomo che vive con la dimensione pubblica. Non è un affastellamento, ma un legame. Egli è legato, promesso, è un vincolo nuziale con la dimensione pubblica, di cui quindi condivide il destino (…). L’alterità si distende intorno a lui, l’alterità alla quale è promesso; ma solo nella forma dell’altro, del rispettivo altro, dell’altro cercato e incontrato, tratto dalla massa, del “compagno”, egli accoglie l’alterità nella sua vita».29

La «dimensione pubblica» non è la «massa» perché non riconosce l’«io» come unico signore. Buber presenta questa distinzione mediante un confronto critico con Kierkegaard. Negando che si possa scoprire Dio nell’isolamento, Buber spiega che la filosofia della rinuncia di Kierkegaard comporta un’esclusione dell’altro – e quindi della dimensione pubblica – da cui non scaturisce una considerazione adeguata del «Tu eterno». La conclusione di Buber è che «Kierkegaard scambi la dimensione pubblica con la massa».30 In definitiva, secondo Buber, Kierkegaard nega che un incontro con l’altro conduca a Dio perché egli pensa esclusivamente all’altro incontrato nella «massa», a colui, cioè, che non essendo riconosciuto come «tu» non può lasciar svelare il «Tu eterno». La filosofia della rinuncia non conduce a Dio perché il singolo è impossibilitato a esperire il «tu» senza l’altro. Pertanto, in Buber, riconoscere l’altro come «tu», più che esiti politici, comporta conseguenze in ambito teologico. La dimensione pubblica – che per Arendt è invece il cuore della vita politica da cui l’uomo emerge come autenticamente uomo – si costituisce come l’ambito dell’interumano capace di aprire una fessura da cui Dio possa fare il suo ingresso nella comunità. A ciò orientano le seguenti affermazioni: «Ogni singolo tu è una breccia aperta sul Tu eterno»;31 «il singolo è colui per il quale la realtà della relazione con Dio, quella esclusiva, abbraccia e comprende la possibilità di relazione con ogni alterità, è colui al quale l’intera dimensione pubblica, magazzino dell’alterità, offre sufficiente alterità per trascorrere con essa la sua vita».32 Ne scaturisce un pensiero che non presenta Dio e «dimensione pubblica» lontani l’uno dall’altra, ma li concepisce legati reciprocamente: la «dimensione pubblica», al contrario della «massa», si lascia raggiungere dal «Tu eterno»: Dio non è più separato dal mondo, ma è nel mondo con gli uomini. Pertanto cercare Dio non consiste in una rinuncia del mondo, ma nel riconoscere l’altro nella dimensione pubblica: «La categoria del singolo si è trasformata. Non può essere che la relazione della persona umana con Dio nasca dal trascurare il mondo».33 In ciò Buber ricalca S. Paolo, che nella «Prima lettera ai Corinzi» scrive: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero, profitta piuttosto della tua condizione!» (I Cor., 7, 20-21). A ciò si può aggiungere che Heidegger, nelle lezioni del semestre invernale 1920/1921, commentando il passo paolino citato, spiegava proprio che la fede non comporta alcun abbandono del mondo, bensì una sua trasfigurazione sul fondamento dell’esperienza temporale aperta dalla stessa esperienza di fede.34

Nella prospettiva buberiana la sfera pubblica riconosce l’altro come «tu» e non rifiuta l’ingresso di Dio nel mondo. Se, allora, la massa è il luogo del dominio sull’altro, dell’adesione passiva a ciò che si dice e si racconta, della falsità e dell’inganno, il pubblico, viceversa, è il luogo della verità, dove la verità non consiste in uno strumento di dominio sugli altri. La «dimensione pubblica», poiché ognuno riconosce l’altro come «tu» e si prepara così ad accogliere il «Tu eterno», è il luogo della verità, la quale, non essendo dominio di pochi, riguarda tutti.

 

 

Bibliografia

1 M. Buber, Ich und Du, Insel, Lipsia 1923, (trad. it.) A. M. Pastore, Io e Tu, in A. Poma (a cura di), Il principio dialogico e altri saggi, S. Paolo, Milano 1993, p. 59.

2 Ivi, p.60.

3 Ivi, p. 83. In realtà Buber non concepisce «esso» e «tu» come assolutamente separati. Egli aggiunge, infatti: “«Il mondo del tu non trova connessione nello spazio e nel tempo. Una volta iniziato il processo di relazione, il singolo tu deve diventare un esso. Entrando nel processo di relazione, il singolo esso può diventare un tu». Quindi, «esso» e «tu» non si escludono a vicenda, ma possono coesistere.

4 Ivi, pp. 94-95.

5 Ivi, p. 91.

6 Ivi, p. 92.

7 Ibid.

8 E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; (trad. it.) A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano 1980, p. 41.

9 Il legame tra Buber, Levinas e Rosenzweig – con le opportune differenze tra i tre autori – è chiaramente illustrato da Baccarini, il quale ne discute i nessi assumendo come unico filo conduttore la presenza di un pensiero capace di concepire una relazione dialogica con la trascendenza. Cfr. E. Baccarini, Dire «Tu» a Dio. Approccio dialogico alla trascendenza, in M. Martini (a cura di), La filosofia del dialogo da Buber a Levinas, Cittadella Editrice, Assisi 1995, pp. 127-167.

10 F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Martinus Nijhoff, The Hague, Netherlands 1981; (trad. it.) G. Bonola, La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, p. 86.

11 Buber, Die Frage an den Einzelnen, Schocken, Berlin 1936; (trad. it.) A. M. Pastore, La domanda rivolta al singolo, in Poma (a cura di), Il principio dialogico e altri saggi, S. Paolo, Milano 1993, p. 255.

12 Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 254.

13 M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; (trad. it.) P. Chiodi, Essere e tempo, UTET, Torino 1969, p. 217. Non è inoltre da escludere un contributo di Husserl nella concezione heideggeriana del «Si» pubblico. Si consideri a tal proposito quanto Husserl scrive nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica: «Accanto alle tendenze che promanano da altre persone stanno le pretese che si presentano nella forma intenzionale della generalità indeterminata, del costume, degli usi, della tradizione, dell’ambiente spirituale: “si” giudica così, “si” tiene la forchetta così e così, ecc., le esigenze del gruppo sociale, del ceto, ecc. Anche nei loro confronti si può aderire passivamente oppure prendere attivamente posizione, decidersi liberamente». (E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Kluwer Academic Publishers B. V. 1952; (trad. it.) E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965, volume II, pp. 268-269).

14 Buber, Elemente des Zwischenmenschlichen, in «Merkur», VIII, 2/1954; (trad. it.) Pastore, Elementi dell’interumano, in A. Poma (a cura di), Il principio dialogico e altri saggi, S. Paolo, Milano 1993, p. 303.

15 Nella Vita activa Arendt afferma che la chiacchiera subentra quando l’autentico essere insieme degli uomini viene a mancare, come in caso di guerra: «In questi casi, che ovviamente sono sempre esistiti, il discorso diventa “mera chiacchiera”, un semplice mezzo in più per raggiungere un fine, sia che serva ad ingannare il nemico o stordire con la propaganda». Cfr. H. Arendt, The human condition, The University of Chicago, USA 1958; (trad. it.) S. Finzi, Vita Activa, Bompiani, Milano 1964, p. 131.

16 A tal proposito, si tenga presente che proprio la caratterizzazione heideggeriana dell’inautenticità pubblica come «chiacchiera» ha alimentato critiche che individuano in ciò una tentenza antidemocratica tale da giustificare l’adesione di Heidegger al nazismo. In particolare, scrive Illuminati: «la critica [di Heidegger] al loquace anonimato del «si», in cui l’Io è intercambiabile con gli Altri, alla banalizzazione ripetitiva del discorso (Rede) in Gerede, non vuole essere moralistica, anzi è pronta a capovolgersi (come avverrà per la tecnica) in un nuovo accesso all’essere. Ma al momento suona condanna della democrazia weimariana e dell’impotente borghesia liberale». Cfr. A. Illuminati, Del comune. Cronache del general intellect, manifestolibri, Roma 2003, p. 114.

17 Buber, Elementi dell’interumano, cit., p. 312.

18 Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (1925), Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt am Main 1979; (trad. it.) R. Cristin, A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova 1999, p. 338.

19 Buber, Io e Tu, cit., p. 64.

20 Buber, Io e Tu, cit., p. 106.

21 Ibid.

22 Ibid.

23 Arendt, The Life of the Mind, New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1978; (trad. it.) G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 285.

24 Arendt, La vita della mente, cit. p. 284.

25 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in G. Colli e M. Montinari (a cura di), Kritische Gesamtausgabe, Berlin 1967; (trad. it.) M. Montinari, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p. 182. Biondi ha individuato una somiglianza tra il nano nietzscheano e il demone socratico: «Il nano è, dunque, uno spettro e riveste le sembianze di uno spirito demonico: è forse un fantasma o un folletto dell’immaginazione di Zarathustra, un demone simile a quello di Socrate o, anche, al genio maligno di Cartesio. È la deformità stessa di Zarathustra, dell’uomo riuscito, che si specchia nella propria parvenza imperfetta, nell’immagine che di lui danno gli altri, i quali lo vedono più piccolo, quanto più vola in alto, al di sopra degli uomini terreni: è il piccolo uomo che porta al disgusto. È lo spettro e l’ombra di Zarathustra». Cfr. G. Biondi, L’enigma della serpe secondo Nietzsche. Guida ai simboli dello Zarathustra, manifestolibro, Roma 2001, pp. 126-127.

26 Heidegger, Nietzsche (1936-1946), Verlag Günther Neske Pfullingen 1961; (trad. it.) F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 247-248. Contrariamente a quanto si possa pensare, la filosofia heideggeriana non trascura il tema del «tu». A parte questo riferimento a Nietzsche, sono da segnalare le lezioni heideggeriane del 1928 (Principi metafisici della logica) in cui Heidegger sviluppa la possibilità di scoprire l’altro come autentico « tu-stesso» in relazione allo schema temporale dell’avvenire (in vista di), la cui rilevanza nella filosofia heideggeriana è stata evidenziata da Biondi. Cfr. G. Biondi, La ricerca di Heidegger sulla temporalità. Un’ipotesi sul contenuto e i temi della terza sezione della prima parte di «Essere e tempo», Edizioni Guerini e Associati, Milano, 1998. Ho affrontato l’argomento nella mia tesi di laurea, cercando di dimostrare la presenza del tema dell’altro in Heidegger, sebbene quest’ultimo non abbia costruito una filosofia dell’alterità. Cfr. A. Marini, Il problema dell’alterità nel pensiero di Heidegger, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo» 2003.

27 Arendt, La vita della mente, cit., p. 283.

28 Buber, La domanda rivolta al singolo, cit.,p. 252.

29 Ivi, pp. 255-256.

30 Ivi, p. 255.

31 Buber, Io e Tu, cit., p. 111.

32 Buber, La domanda rivolta al singolo, cit., p. 256.

33 Ivi, p. 257.

34 Cfr. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, Vittorio Klostermann