Una politica forte per un'Italia smarrita

Di Massimo D'Alema Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Le prossime settimane possono segnare una svolta cruciale per l’avvenire dell’Europa e del nostro paese. La posta in gioco è molto alta, innanzitutto per l’Europa. L’Unione europea viene da un periodo difficile di sconfitte e di delusioni. Ci siamo divisi di fronte alla tragedia dell’Iraq. E dinanzi alla grave crisi internazionale segnata dall’avvento del terrorismo fondamentalista e dalla strategia della destra americana l’Unione è apparsa spesso impotente a far pesare le sue ragioni. L’Europa è ancora priva di una Costituzione, non approvata dopo una lunga e faticosa preparazione.

 

Le prossime settimane possono segnare una svolta cruciale per l’avvenire dell’Europa e del nostro paese. La posta in gioco è molto alta, innanzitutto per l’Europa. L’Unione europea viene da un periodo difficile di sconfitte e di delusioni. Ci siamo divisi di fronte alla tragedia dell’Iraq. E dinanzi alla grave crisi internazionale segnata dall’avvento del terrorismo fondamentalista e dalla strategia della destra americana l’Unione è apparsa spesso impotente a far pesare le sue ragioni. L’Europa è ancora priva di una Costituzione, non approvata dopo una lunga e faticosa preparazione. Mentre vi sarebbe bisogno di imprimere un salto di qualità al processo di unità europea per avere istituzioni forti in grado di assicurare il futuro dell’Unione allargata.

L’Europa appare bloccata nello sviluppo economico, vede ridursi la sua capacità produttiva ed eroso quel patrimonio di qualità della vita, di civiltà e di ricchezza che costituisce il frutto della sua storia. Eppure più che mai ora vi sarebbe bisogno di un’Europa unita e forte, in un momento così drammatico nel quale appare evidente che l’idea di un dominio solitario del mondo da parte degli Stati Uniti è una pericolosa utopia, pericolosa per il mondo intero e per gli stessi interessi di Washington.

Le prossime settimane saranno importanti anche per l’Italia. Il nostro paese appare – in una crisi tanto grave – privo di una guida autorevole e credibile in grado non soltanto di rappresentare la volontà di pace degli italiani e di rilanciare lo sviluppo, ma di rimettere in movimento speranze, di ricreare fiducia e coesione sociale per affrontare le sfide difficili che abbiamo di fronte in questo momento storico. In questo paese avvilito e preoccupato, che ha perduto fiducia – nella sua grande maggioranza – nel «sogno» berlusconiano, ancora non si avverte nel modo che sarebbe necessario la forza di un progetto alternativo e credibile di governo. Anche per questo lo scontro sarà particolarmente aspro e, paradossalmente, Berlusconi potrà contare su quella stessa sfiducia qualunquista nelle istituzioni che egli ha contribuito a seminare. E la sua campagna già si annuncia come una campagna populista e di opposizione: contro l’Europa, contro l’euro, contro i vincoli e le regole imposti dai «lumaconi» di Bruxelles che ostacolerebbero la crescita e il «bengodi» universale. Sullo sfondo si ripropone lo stesso miraggio della riduzione generalizzata e miracolistica delle tasse che esalta le pulsioni individualistiche, populiste e antistatali di una parte della borghesia italiana. Tornano a sventolare le bandiere di un certo liberismo nostrano, particolarmente pericoloso perché disgregante della comunità nazionale e del senso di appartenenza a una comunità appunto di tutti gli italiani e di tutti gli europei.

L’esito della difficile sfida che si è aperta dipenderà innanzitutto dalla capacità dell’insieme delle forze democratiche e di centrosinistra di porre al centro della campagna elettorale europea il progetto e la speranza di un’Europa unita e forte: capace innanzitutto di imprimere una svolta profonda nella lotta per la pace e contro il terrorismo. Sarebbe un grave errore da parte della sinistra considerare il terrorismo fondamentalista soltanto come il frutto avvelenato degli errori dell’Occidente: e da qui ripiegare in un impotente senso di colpa, incapace di impegnare le nostre forze nella difesa dei valori di civiltà, libertà e democrazia. Valori universali, che non appartengono solo all’Occidente anche se si sono formati nella storia dell’Europa. Il terrorismo fondamentalista è un nemico della civiltà umana e come tale dobbiamo combatterlo rafforzando una coalizione di popoli, di paesi e di Stati intorno a una rinnovata centralità delle istituzioni internazionali. È indispensabile ripetere che dopo l’11 settembre e dopo la strage di Madrid sarebbe un tragico errore non comprendere che la lotta politica, culturale e anche l’uso intelligente della forza contro il terrorismo sono e saranno un banco di prova imprescindibile per le classi dirigenti europee. Ma lo scenario disastroso della guerra in Iraq dimostra che la risposta della destra americana è stata completamente sbagliata e ha favorito un’espansione del terrorismo, portandoci di fronte al rischio concreto di quello scontro di civiltà tra Occidente e mondo islamico che è proprio lo scenario che era stato evocato dai leader di Al Qaeda. Il conflitto in Iraq sembra progressivamente estendersi. E oggi l’insurrezione di una parte del mondo sciita si aggiunge allo scontro con i gruppi sunniti che erano più legati alla dittatura di Saddam Hussein e alla minaccia del terrorismo islamico che – grazie alla guerra – si è installato in Iraq. A testimonianza di quanto fosse illusoria l’idea di una pacificazione imposta dalle truppe americane di occupazione affiancate dai soldati della coalizione dei «volenterosi». È evidente che la guerra è stata un errore e che la gestione solitaria e arrogante del dopoguerra ha drammaticamente aggravato quell’errore. È altrettanto evidente che avevamo ragione quando sin dal luglio dell’anno scorso chiedemmo, con l’Internazionale socialista, una svolta radicale che ponesse la transizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e che aiutasse a costituire un governo provvisorio iracheno effettivamente rappresentativo e in grado di giocare un ruolo effettivo nella gestione del paese. Si è pagato un prezzo molto alto e oggi tutto appare più difficile. Ma più che mai appare necessaria la battaglia della sinistra europea perché la svolta vi sia entro il 30 giugno, con il passaggio dei poteri agli iracheni e con una nuova risoluzione delle Nazioni Unite che ponga fine allo stato di occupazione militare e quindi al potere dell’autorità militare occupante. Solo in questo quadro – come ha giustamente sostenuto l’Ulivo in parlamento – può avere senso il permanere di una presenza italiana in quel drammatico scenario. Il governo italiano deve assumersi le proprie responsabilità in questo senso. È evidente che il permanere di uno scenario come l’attuale è incompatibile con la presenza italiana, e che l’abbandono precipitoso del campo appare impraticabile e rischioso per la situazione dell’Iraq. Così come è evidente che il governo Berlusconi ha condotto l’Italia, sotto la guida di Bush, in una trappola. Ma si deve cercare di offrire una prospettiva possibile di pacificazione, di libertà e di speranza a quel paese.

Il tema dell’Iraq è strettamente intrecciato a quello del Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese. L’escalation militare nella regione – con un susseguirsi di attentati terroristici palestinesi e assassinii e rappresaglie da parte dell’esercito israeliano – sembra avere spezzato ogni possibile sviluppo positivo e bloccato sul nascere il processo di pacificazione auspicato dalla cosiddetta Road Map. Sembra difficile che senza una rinnovata iniziativa internazionale la situazione possa sbloccarsi e lo stesso annuncio del ritiro unilaterale da Gaza appare assai ambiguo e aperto ad esiti tra loro molto diversi. Potrebbe trattarsi di un primo passo verso la pace ma anche, al contrario, condurre a un aggravamento drammatico del conflitto. Questo per due ragioni: la prima è che senza un negoziato e senza una forte garanzia internazionale il rischio è di lasciare quella parte del territorio palestinese in una situazione di caos e di anarchia; tanto più che negli ultimi mesi il governo Sharon ha operato solo per delegittimare e indebolire l’Autorità nazionale palestinese. Il secondo motivo è che – non senza una qualche ragione – i palestinesi hanno la sensazione che Israele voglia ritagliare a suo piacimento i confini delle aree palestinesi, a prescindere dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e compromettendo qualsiasi soluzione negoziale. D’altro canto Sharon non ha mai nascosto la diffidenza sua e del suo partito verso la prospettiva di uno Stato palestinese e, al massimo, la disponibilità ad accettare che possano esservi delle aree autonome – una sorta di riserve indiane – destinate ai palestinesi all’interno dei confini di Israele e sotto il suo controllo militare. È evidente che una prospettiva di questo tipo non potrebbe che alimentare per generazioni il virus dell’odio, del fondamentalismo e del terrorismo. Ecco perché occorre una nuova iniziativa internazionale per rilanciare la Road Map e offrire una prospettiva di speranza, di pacificazione, di stabilità. In questo senso è andata anche l’iniziativa dell’Internazionale socialista che propone di coinvolgere l’Unione europea e la NATO per offrire ai paesi della regione una garanzia di sviluppo, di integrazione economica, di sicurezza.

Con una svolta nel segno dell’ONU in Iraq e una rinnovata iniziativa internazionale in Medio Oriente si dovrebbe imprimere un nuovo corso alla lotta contro il terrorismo. Si potrebbe così cercare di coinvolgere in questo impegno una larga parte del mondo islamico mettendo in primo piano non l’uso delle armi, ma la politica, il dialogo culturale e religioso, il coinvolgimento delle istituzioni e delle alleanze internazionali, nella logica del rispetto dei diritti di tutti i popoli. Questo è il compito dello schieramento progressista e democratico europeo: trasformare i sentimenti pacifisti che hanno animato i grandi movimenti dei mesi scorsi in una politica per la pace e la sicurezza dopo che le scelte della destra hanno precipitato il mondo nel rischio di uno scontro di civiltà che genera violenza e paura. Questa paura attraversa le nostre società anche perché il confine tra l’Occidente e l’Islam non passa solo attraverso il Mediterraneo, ma è nelle nostre città dove vivono quasi due milioni di persone di religione islamica, in Spagna, in Francia, in tutta l’Europa.

La vittoria di José Luis Rodriguez Zapatero, il successo dei socialisti in Francia nelle elezioni regionali sono nuovi segnali di speranza e di cambiamento. Lo stesso Tony Blair sembra alla ricerca di una via d’uscita, dopo avere pagato un prezzo alto per essersi accodato alla guerra e alla politica di Bush. Il socialismo europeo e le altre forze progressiste del vecchio continente dimostrano di essere vitali e in movimento. Ci si deve guardare tuttavia dal rischio di un facile ottimismo o dalla convinzione che, nel segno del movimento per la pace, la sinistra sia in procinto di vincere ovunque in Europa le elezioni. Perché i risultati manifestano anche un altro fenomeno: una generale difficoltà dei partiti al governo, in qualche caso indipendentemente dal loro essere di destra o di sinistra. È questo il caso, ad esempio, dei socialisti greci battuti dopo avere ben governato il loro paese facendo compiere alla Grecia un grande passo storico sul terreno della modernizzazione e della integrazione europea. C’è un’evidente debolezza dei governi europei, quasi un senso di impotenza: tanto più accentuato perché in assenza di un progetto europeo ciascun governo nazionale non appare in grado di rilanciare lo sviluppo e di accrescere la competitività economica.

Questo è il tema che la sinistra dovrebbe mettere al centro della campagna elettorale europea: l’idea che l’Europa non soltanto non è un vincolo o un impedimento ma è, al contrario, la fondamentale opportunità per poter promuovere innovazione e crescita e per poter concorrere a quel governo della globalizzazione senza il quale la stessa esigenza di pace e di sicurezza è destinata a rimanere senza una risposta.

Questo progetto passa innanzitutto attraverso il rafforzamento delle istituzioni europee e in particolare di quel governo dell’Europa cui dovrebbe spettare il compito di coordinare la politica estera, di sicurezza e la politica economica dell’Unione. Alla forza delle istituzioni deve corrispondere il rilancio di un progetto riformista. La carta più significativa del riformismo europeo rimane nel documento del Consiglio europeo di Lisbona, quando di fronte alla sfida americana proponemmo l’idea che la qualità sociale, civile e culturale delle società europee potessero essere non un peso ma una risorsa per competere nell’epoca dell’economia e della conoscenza. Naturalmente a condizione di investire su questa risorsa e di rimuovere ostacoli burocratici e corporativi restituendo così slancio vitale alla nostra economia e alle nostre società. Questo richiede una politica per la crescita e non soltanto la garanzia della stabilità monetaria. Noi non siamo per l’ortodossia monetarista, ma vi sono due modi di interpretare il Patto di stabilità. Si può andare nel senso di un’Europa più debole e di una rinazionalizzazione delle politiche economiche con l’effetto di favorire la crescita dei deficit pubblici attraverso misure assistenziali o favori fiscali magari ai ceti sociali più ricchi. Oppure si può favorire una politica europea di investimenti per l’innovazione, per le grandi infrastrutture moderne e per la formazione: scelte tanto più efficaci in quanto coordinate a livello continentale e non affidate soltanto alle decisioni dei singoli governi.

Insomma abbiamo bisogno di più Europa: senza un’Unione più forte l’Italia non ce la farà a vincere la sua sfida. Il fallimento del governo Berlusconi sta lì a dimostrarlo. L’idea di rilanciare il vecchio meccanismo di sviluppo con qualche regola in meno, allargando le maglie con condoni, regalie e illegalità o riducendo i costi del lavoro e della tutela dell’ambiente si è rivelata soltanto fonte di nuove ingiustizie e di conflitti. Perché muoveva da una idea sbagliata del paese e da una incomprensione della portata radicale della crisi. Quella di un vecchio modello incalzato dalla crescita di nuovi protagonisti sulla scena mondiale in grado di produrre a costi più contenuti e competitivi. Mentre, dall’altra parte, il livello d’innovazione e la qualità di servizi del nostro paese rimangono al di sotto dei grandi paesi più sviluppati e moderni del mondo.

Non c’è una ricetta facile per rimettere in movimento e restituire slancio al nostro paese. L’Ulivo vincerà se saprà presentarsi come una grande forza di cambiamento, dopo che Berlusconi ha svelato il volto conservatore della sua politica tradendo quella domanda di innovazione che pure lo aveva premiato contro una sinistra che egli seppe presentare (anche per responsabilità nostra) come conservatrice. Il problema è che la destra ha difeso un vecchio sistema economico e una vecchia gerarchia di privilegi sociali, quando il vero problema è quello di attivare una mobilità che faccia leva sulle grandi risorse non valorizzate del nostro paese: le donne, i giovani e il Mezzogiorno. Una politica che consideri la cultura e l’ambiente non come impedimenti e vincoli ma come nuove leve di sviluppo, che punti sulla qualità del lavoro con la consapevolezza che difficilmente la si può ottenere comprimendo i salari e i diritti dei lavoratori.

L’Ulivo deve quindi rivolgersi alle forze vive e alle forze nuove del paese e non soltanto al tradizionale mondo del lavoro. Abbiamo ragionato in passato – giustamente io credo – sui momenti di subalternità della sinistra a una cultura neoliberista. Ma questo non significa rinunciare a una battaglia anticorporativa e a un impegno per liberalizzare il paese che è rimasto incompiuto in tanti settori importanti (penso ad esempio a quello delle professioni) a danno soprattutto dei più giovani.

Un progetto di cambiamento richiede infine il ritorno al dialogo e alla collaborazione tra le grandi forze sociali produttive e moderne dell’Italia. La destra ha lacerato il paese e ha generato con la sua politica una crescita abnorme della conflittualità. Torna oggi anche all’interno delle grandi forze sociali organizzate un bisogno di dialogo e di coesione. Basta pensare al ritorno a una collaborazione positiva tra le grandi organizzazioni sindacali o alla svolta nella direzione della Confindustria con l’elezione di Luca Cordero di Montezemolo. Questo bisogno di ritornare al dialogo deve essere da noi raccolto. È l’Ulivo, il centrosinistra, la forza in grado di ricostruire quel clima di concertazione e di collaborazione che consentì all’Italia di affrontare con successo la sfida del risanamento dei conti e dell’euro e che oggi deve aiutarci a rilanciare la crescita, l’occupazione, la competitività.

Questa prospettiva richiede una politica forte. C’è un grande bisogno di ritorno alla politica, alla statualità, alla capacità di guidare processi sociali ed economici sulla base degli interessi generali della comunità. Questo bisogno di politica si manifesta a livello mondiale e anche nel nostro paese. Ne ha scritto in un saggio interessante Ilvo Diamanti a proposito dell’eclisse del «mito dell’imprenditore». D’altro canto il fallimento di una concezione aziendalistica della politica, il disastro etico e pratico dell’accavallarsi fra interessi privati e interessi pubblici sono sotto gli occhi di tutti. Persino con l’effetto di diffondere un certo rimpianto della tanto vituperata prima repubblica. Una delle ragioni del possibile successo della lista unitaria dell’Ulivo è che essa interpreta proprio questo bisogno, presente in tanti cittadini italiani, che la politica torni a essere una guida forte del nostro paese. Perché se da una parte c’è l’arroganza e l’incapacità di Berlusconi, dall’altra parte vi è lo spettacolo di una politica frammentata e litigiosa, di partiti, partitini, gruppi, correnti, capi e capetti con tutto il senso di sgomento e di fastidio che suscita nella pubblica opinione. La lista dell’Ulivo si presenta oggi come un’alternativa all’una e all’altra prospettiva, come la possibilità di una politica forte perché in grado di unirsi, in grado di disciplinare le sue forze per un progetto di governo dell’Italia, in grado di rimettere radici nel paese e nelle sue grandi culture popolari. Solo una politica forte può offrire una risposta al bisogno di sicurezza e al senso di smarrimento che si vanno diffondendo in tanta parte della società italiana.

È evidente che la lista unitaria non costituisce in modo già predefinito il primo passo della costruzione di un nuovo partito. Questo processo rimane aperto e spetterà alle centinaia di migliaia di militanti e di cittadini senza partito (oltre un milione) impegnati in questo progetto decidere, all’indomani delle elezioni, quale futuro dovrà avere l’esperienza che si è avviata. Io sono fra quanti si impegnano fin d’ora perché, a partire da questa campagna elettorale, si possa dare vita gradualmente a una nuova formazione politica. Non mi riferisco a un partito di tipo tradizionale ma, appunto, a una formazione politica di tipo nuovo che abbia un carattere federativo e aperto, pluralistico e «multiculturale». Ma che tuttavia sappia esprimere un progetto politico e programmatico unitario, una rappresentanza comune nelle istituzioni, un solo gruppo dirigente disciplinato e unito pure nel pluralismo delle opinioni politiche. Non ci si può nascondere che il sorgere di una formazione politica di questo tipo segnerebbe in modo significativo il passaggio a una nuova fase della vita democratica del nostro paese, così come grandi partiti di massa costruiti intorno alle «ideologie» del secolo scorso sono stati i pilastri della democrazia italiana nel dopoguerra. Dovrebbe guardare con interesse a questa prospettiva quella sinistra – di cui io mi sento parte - che guarda con preoccupazione al rischio di una deriva personalistica e plebiscitaria della politica italiana. Pur ritenendo che la personalizzazione della politica attraverso l’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia e della regione o l’indicazione del capo del governo abbiano rappresentato uno sviluppo positivo del nostro sistema istituzionale, io ritengo tuttavia che questo modello sia debole e rischioso se non si accompagna alla crescita di grandi forze politiche radicate nel paese, in grado di selezionare classi dirigenti e di controbilanciare i pericoli di un personalismo plebiscitario.

C’è una seconda ragione «di sinistra» che alimenta la speranza che la lista unitaria produca un nuovo grande soggetto politico. Essa nasce dalla convinzione che il governo nel nostro paese richieda il coraggio di un profondo rinnovamento sociale e politico. Abbiamo misurato la debolezza di «un riformismo dall’alto» che ha prodotto tante buone cose e riforme, senza tuttavia saper suscitare nel paese passione e partecipazione che non vi sono se non alimentati da grandi e radicate organizzazioni democratiche. L’Italia ha bisogno di una sorta di «partito nuovo» della sinistra che governa ed è evidente che esso non nascerà se non dall’incontro fra la tradizione laica e socialista della sinistra italiana e la tradizione cattolica democratica e progressista. È evidente che questa prospettiva incontrerà molti ostacoli anche perché minaccia equilibri di potere, non solo a destra, e consolidate rendite di posizione. Ma è anche evidente che dal successo di questa sfida a partire dalle prossime elezioni europee dipende in gran parte la credibilità di un progetto di governo alternativo alla destra e a Berlusconi. Sarebbe ingenuo pensare che ciò che deciderà sarà soltanto la somma dei voti raccolti dalle opposizioni. Quella somma potrebbe voler dire ben poco se non vi sarà al centro una grande forza di governo, in grado di presentare una prospettiva convincente e rassicurante e di costruire una unità che vada oltre la semplice sommatoria di gruppi diversi.

Non si capisce davvero come la prospettiva di una grande forza riformista e di governo possa essere vissuta da una parte della sinistra come timore di una perdita di identità e di visibilità politica e culturale o come – peggio – il riconoscimento di una sorta di fallimento del processo di trasformazione condotto dall’89 fino a oggi. È vero il contrario e cioè che oggi appare possibile portare a compimento quel processo, nel senso cioè della costruzione di un sistema politico compiutamente rinnovato. E appare evidente anche che questa possibilità si collega a un processo di allargamento dei confini e delle alleanze del socialismo europeo nel senso auspicato da Giuliano Amato e da me nella lettera ai socialisti europei che pubblicammo sulle pagine di questa rivista alla fine del 2002. D’altro canto da diverse parti in Europa si guarda con interesse e curiosità al nostro esperimento. E se esso avrà successo non mancherà di essere accolto come una grande novità positiva per tutto lo schieramento progressista e di sinistra. Mai come in questo momento occorre coraggio se si vuole imprimere quella svolta profonda al corso degli avvenimenti che da tante parti viene giustamente richiesta.