Prepararsi a governare. La crisi del berlusconismo e il futuro della lista unitaria

Di Redazione Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

Il voto di giugno ci ha consegnato un quadro molto problematico dello stato dell’Unione europea. Un quadro nel quale è complicato individuare un’unica chiave di lettura per l’intero continente. Colpisce la percentuale molto bassa di votanti, così come il dominio di logiche nazionali. E nell’insieme si ha l’impressione che il processo di integrazione europea sia scontando una difficoltà evidente, che renderà particolarmente impegnativo il compito del prossimo parlamento di Strasburgo: essere il luogo nel quale il processo di integrazione si realizza attraverso l’azione di soggetti politici continentali, rendere più leggibile il sistema politico europeo non più come semplice sommatoria di realtà nazionali ma come contesto rappresentativo dell’insieme dell’opinione pubblica europea.

 

una discussione tra Giuliano Amato, Enrico Boselli, Massimo D’Alema, Piero Fassino e Francesco Rutelli

 

Massimo D’Alema

Il voto di giugno ci ha consegnato un quadro molto problematico dello stato dell’Unione europea. Un quadro nel quale è complicato individuare un’unica chiave di lettura per l’intero continente. Colpisce la percentuale molto bassa di votanti, così come il dominio di logiche nazionali. E nell’insieme si ha l’impressione che il processo di integrazione europea sia scontando una difficoltà evidente, che renderà particolarmente impegnativo il compito del prossimo parlamento di Strasburgo: essere il luogo nel quale il processo di integrazione si realizza attraverso l’azione di soggetti politici continentali, rendere più leggibile il sistema politico europeo non più come semplice sommatoria di realtà nazionali ma come contesto rappresentativo dell’insieme dell’opinione pubblica europea. Certamente l’idea di avere finalmente nella Commissione una sorta di governo europeo a base parlamentare – secondo una prospettiva che Jacques Delors aveva reso in modi particolarmente suggestivi con l’invito ai partiti politici europei ad esprimere candidature contrapposte per la guida della Commissione – sembra farsi più appannata. Su questo esito ha continuato a pesare la frattura determinatasi in Europa a partire dalla vicenda irachena, ancora molto forte a distanza di tempo anche perché essa continua a dividere trasversalmente le famiglie politiche europee (compresa quella socialista). È in questo quadro che dobbiamo collocare il risultato elettorale della lista Uniti nell’Ulivo. Un risultato molto significativo, che fa della nostra lista il secondo raggruppamento europeo per numero di voti raccolti (dietro la CDU/CSU), e che ci consegna una importante responsabilità nei confronti dei nostri elettori e del paese. La mia convinzione è che tale responsabilità non possa essere elusa, anche qualora i nostri eletti al parlamento europeo scegliessero di aderire a gruppi politici diversi. Personalmente non ne farei un dramma, dovendo guardare con realismo alla geografia politica dell’Europarlamento. Anche perché credo che la nostra forza unitaria potrebbe utilmente svolgere un ruolo di cerniera tra raggruppamenti politici diversi. Le formule organizzative attraverso le quali questo ruolo potrebbe essere realizzato possono essere diverse. Si può immaginare, ad esempio, una sede permanente di confronto che prenda le forme di un forum dei parlamentari progressisti ed europeisti. Ma è naturale che questa funzione di cerniera da svolgere in Europa non deve essere disgiunta dal consolidamento della nostra prospettiva unitaria in Italia. Esiste un nesso molto chiaro tra la ricerca di una missione comune in Europa e il nostro lavoro unitario qui, anche se al Parlamento europeo ci collocheremo in famiglie politiche diverse.

 

Giuliano Amato

Credo anch’io che sia assai difficile individuare una tendenza univoca nel voto di giugno, se non in termini negativi. Nelle urne europee hanno largamente prevalso motivazioni politiche nazionali. E anche i partiti di ispirazione europeista hanno raccolto i propri voti in chiave di politica interna. D’altra parte su questo esito ha pesato la convergenza tra il richiamo dei partiti apertamente antieuropeisti e il modo in cui alcune forze politiche anche importanti hanno ceduto alla tentazione di presentare l’Europa in termini esclusivamente difensivi, come se il loro compito fosse quello di proteggere i propri elettori dall’insidia europea. È un errore che è stato commesso in primo luogo dai laburisti britannici. Sembrò due anni fa che avessero imboccato una strada per loro finalmente nuova, invitando gli inglesi non più a difendersi dall’Europa, ma a riconoscersi nei benefici dell’integrazione. Oggi sono ricaduti su uno scivolo su cui più forti di loro diventano gli euroscettici. E si ritrovano così in compagnia con molti partiti della sinistra centrorientale, in paesi che talvolta fanno fatica a capire che Bruxelles non sarà mai uguale a Mosca e che la sovranità da poco ritrovata non sarà mai minacciata dall’integrazione comunitaria. In ogni caso, è sempre più evidente la compresenza e la contrapposizione di due visioni dell’Europa futura: l’una che la vede come un benefico strumento per realizzare obiettivi comuni, l’altra che la vede come una sovrastante presenza intrusiva che può fare solo dei danni. Ma se è vero che queste due visioni sono compresenti in tutte le principali famiglie politiche europee, compresa quella socialista, ci si accorge quanto sia grande e impegnativo il compito di queste forze per il radicamento democratico e il buon funzionamento delle istituzioni europee. Se esse dovessero fallire, la ridefinizione dei contorni istituzionali dell’Unione non sarebbe servita a molto. La costituzione europea, pur con tutti i suoi limiti, ha certamente contribuito a rendere l’Europa più leggibile. Ma il funzionamento della macchina europea rischia comunque di essere offuscato dal continuo rinnovarsi del confronto-conflitto fra le due visioni di Europa che convivono per ora al suo interno. È su questo sfondo che dobbiamo interrogarci sulle prospettive della lista unitaria in Europa oltre che in Italia. La lista, al di là delle residue differenze interne, ha un grande patrimonio, che è il nostro comune sentire europeistico. Ed è un patrimonio da spendere anche al di fuori dei nostri confini nazionali, per quanto sia realisticamente impossibile immaginarsi di confluire subito in un unico gruppo parlamentare. D’altra parte sapevamo già che questa confluenza non sarebbe stata possibile nell’immediato, anche in ragione della perdurante prevalenza tra i socialisti europei di una visione di sé classicamente socialista e socialdemocratica. Ma non c’è da farne una tragedia. Tra il gruppo socialista e il gruppo che potrà includere i non socialisti della nostra lista sono possibili varie forme di collaborazione, che via via potranno diventare qualcosa di più. Disponiamo insomma di un potenziale, che dovrà concorrere allo sforzo – non solo nostro – per dare alle istituzioni europee le fondamenta politiche di cui hanno bisogno.  

 

Francesco Rutelli

Abbiamo salutato l’approvazione della costituzione europea come uno scampato pericolo, ma non possiamo evitare l’interrogativo: stiamo entrando nella stagione dell’Europa bloccata, dopo avere vissuto quella dell’Europa divisa nella grave crisi globale? Gli osservatori più avveduti sanno che l’Europa ha dato spesso l’impressione di trovarsi in una fase di stallo, mentre in realtà il processo di integrazione avanzava in modo irreversibile. Ma non c’è dubbio che il dato elettorale di giugno – innanzitutto la bassa partecipazione – indichi l’assenza di una condivisione del processo europeo tra gli elettori. Il voto tenutosi contemporaneamente in venticinque paesi del nostro continente avrebbe potuto segnare la nascita di un «demos» europeo, che invece non c’è stata. E la discussione a cui assistiamo in questi giorni sulla possibilità che il trattato costituzionale venga sottoposto a referendum in alcuni paesi compreso il nostro – con il rischio che il momento del coinvolgimento popolare possa essere utilizzato dagli euroscettici piuttosto che dagli eurounionisti – segnala che non esiste tra gli europei una percezione sufficientemente chiara e condivisa del processo di integrazione. Dobbiamo anche ricordarci che, ammesso che tutto sia destinato a svolgersi nel verso giusto, la costituzione entrerebbe in vigore solo nel 2009. Un periodo molto lungo, durante il quale l’Unione europea continuerà ad avere un presidente di turno a rotazione invece che un vero capo di governo europeo e un «mister Pesc» invece di un vero ministro degli esteri. Ma è pensabile che di qui al 2009 l’Europa non venga chiamata ad altre drammatiche sfide internazionali? E come potrebbe gestirle all’unanimità, se non al ribasso? È uno scenario critico. Ed è per questo che il nostro lavoro deve svolgersi su due piani. Quello interno, dove puntare sul ruolo riformatore del centrosinistra. per ricostruire una autorevolezza e un’iniziativa europeista dell’Italia. Siamo noi che dobbiamo riaprire per l’Italia una nuova stagione di dialogo con i principali partner, per riannodare quel filo della responsabilità e della visione europea che Berlusconi ha interrotto. Ciò significa spingere affinché si aprano altri cantieri di cooperazione rafforzata, dopo quelli della moneta unica e di Schengen, con l’obiettivo di rivitalizzare lo spirito dei padri fondatori dell’Europa comunitaria. Siamo noi a dover essere un motore europeista, anche nel Parlamento. È ovvio che sarebbe stato preferibile procedere a forme di integrazione politica nell’Assemblea di Strasburgo, come per «trascinamento» sul modello della nostra lista unitaria. Ma sappiamo anche che non possiamo procedere in Europa in maniera del tutto autosufficiente e che dobbiamo tener conto realisticamente della storia delle famiglie politiche esistenti. Ciò non toglie che il nostro obiettivo sia quello di arrivare a risultati di valore altrettanto significativo con i nostri venticinque eletti in Europa, che possono diventare un «motore creativo» pro-europeo capace di portare uno scompiglio benefico e costruire una collaborazione progettuale influente e solida nella vita del Parlamento.

 

Enrico Boselli

Se è vero che il dato elettorale di giugno ci racconta di una difficoltà a mobilitare la maggioranza delle opinioni pubbliche intorno alla nostra idea d’Europa – e d’altra parte difficoltà di questo tipo erano già state messe in luce dal cammino della costituzione europea – è sempre più urgente riflettere sui modi nei quali possiamo spendere il patrimonio acquisito dalla lista unitaria. È molto utile l’idea di un forum che riunisca innanzitutto i nostri venticinque europarlamentari, anche perché essi rappresentano l’unico vero soggetto che cumula in modi trasparenti e coerenti i caratteri di forza progressista ed europeista. Il problema non è rappresentato dalla nostra collocazione fisica all’interno del parlamento europeo, ma dall’esistenza di una direzione di marcia comune. L’interrogativo a cui dobbiamo rispondere è se sia possibile arrivare prima o poi ad una casa comune dei riformisti europei. Sappiamo che sull’opposto versante politico esiste qualcosa di simile: i conservatori europei sono riusciti a riunire nella stessa famiglia le varie espressioni del centrodestra e con il Congresso di Berlino del PPE è nata la casa comune dei conservatori europei. Ma i riformatori non hanno ancora saputo riunire le forze che in Europa si oppongono ad una visione scettica del processo di integrazione. Dobbiamo prendere atto che su questo punto la famiglia politica del socialismo europeo sconta un ritardo evidente, anche rispetto a quanto accade nell’Internazionale socialista (dove sono stati fatti alcuni importantissimi passi avanti nel dialogo con realtà politiche fino a poco tempo fa assai lontane, come i Democratici americani). Se da questo punto di vista il congresso di San Paolo dell’Internazionale aveva fatto registrare novità significative, dobbiamo ammettere che l’ultimo congresso del PSE non ha mostrato la stessa spinta. La convergenza tra i diversi riformismi europei, d’altra parte, potrebbe rappresentare un contributo fondamentale all’avanzamento del cantiere comunitario. Ed è per questo che molto più che una semplice proiezione dei nostri dibattiti nazionali, l’obiettivo della casa comune del riformismo europeo rappresenta un passaggio fondamentale per far nascere davvero quell’Europa politica di cui si sente il bisogno.

 

Piero Fassino

L’Europa è ad un passaggio cruciale: dopo la lunga fase di costruzione dell’integrazione europea – dai Trattati di Roma del 1957 alla moneta unica – con l’allargamento e la nuova architettura istituzionale si è aperta una nuova stagione costituente dell’Unione europea. Per questo l’approvazione della Costituzione europea è un momento fondamentale nella definizione della soggettività dell’Unione: una soggettività assolutamente indispensabile nel momento in cui l’Unione ha bisogno di essere non solo gigante economico, ma anche attore politico capace di incidere sulla scena mondiale; una soggettività necessaria per passare dal mercato unico alla effettiva convergenza nelle politiche per la crescita e nel welfare; una soggettività essenziale per ridefinire il rapporto transatlantico, fondato per quarant’anni sull’esistenza di un nemico comune che oggi non c’è più, mentre altre sfide – dalla lotta al terrorismo alle dinamiche della globalizzazione - stanno di fronte a Europa e Stati Uniti. E, infine, una soggettività capace di rispondere alle preoccupazioni dei nuovi paesi membri dell’Unione timorosi di perdere una sovranità da poco riconquistata. Per tutte queste ragioni il Parlamento europeo eletto il 13 giugno ha particolari responsabilità da onorare. Anche per questo dobbiamo essere pienamente consapevoli dell’importanza della lista unitaria, che ha messo insieme le migliori tradizioni dell’europeismo italiano e che ha l’ambizione di portare in Europa l’Italia che nell’Europa crede. E in questo senso persino il fatto che gli eletti della lista non siano in un unico gruppo parlamentare può addirittura rappresentare un’opportunità, permettendo alle forze migliori dell’europeismo italiano di far valere la propria influenza anche su altri gruppi. Naturalmente a patto che la diversa collocazione sia ispirata da un’azione comune che sarà tanto più possibile se si darà vita a un «intergruppo» degli eletti della Lista, che consenta di muoversi in modo coordinato e per comuni obiettivi.

Guardando ai risvolti nazionali del voto di giugno non possiamo fare a meno di notare il cambiamento radicale nella nostra geografia politica. Per la prima volta dal 1994 il centrodestra non è maggioranza nel paese, né nel voto europeo, né in quello amministrativo. Su quest’ultimo piano, in particolare, il nostro risultato è veramente straordinario: il 65% delle amministrazioni provinciali è oggi governato dal centrosinistra. E tra queste tutte le grandi aree metropolitane del paese. Possiamo affermare che il voto di giugno ha segnato la crisi del «berlusconismo» sia come progetto – perché Silvio Berlusconi intendeva guidare un processo di modernizzazione del paese che in realtà non c’è stato – sia come metodo di direzione politica con il fallimento di un leaderismo populistico che non ha trovato consenso e sia come sistema di relazioni con la società, i cui principali attori – dal mondo imprenditoriale, a quello sindacale, ad altri soggetti professionali e sociali – stanno maturando un atteggiamento sempre più critico verso il governo. Il voto di giugno sancisce dunque la crisi di Berlusconi e della sua leadership e allo stesso tempo richiede da noi una risposta politica innovativa, per evitare che altre componenti del centrodestra possano assumere loro un ruolo di leadership. Insomma la spirale involutiva del berlusconismo non ci consegna automaticamente una prospettiva di governo per il paese; ma certamente ce ne apre la possibilità. E dunque da questo scenario siamo spinti ad accelerare la definizione delle condizioni in base alle quali possiamo essere percepiti dagli italiani come alternativa credibile di governo. È questo il quadro nel quale dobbiamo valutare il risultato della Lista unitaria. Il dato percentuale dal quale partiamo – 31,5% - è soddisfacente, se consideriamo che l’alleanza è stata lanciata solo dieci mesi fa, che il simbolo era del tutto nuovo e che in molti casi la sovrapposizione tra voto europeo e voto amministrativo non ha favorito l’impegno nella campagna elettorale europea. Oggi rappresentiamo dieci milioni di elettori, un terzo del paese. Si tratta di uno straordinario punto di partenza, da cui muovere per perseguire un progetto politico ancora più espansivo. Nello stesso tempo la fotografia che esce dal voto di giugno descrive un quadro equilibrato nel complesso del centrosinistra italiano: i nostri voti rappresentano il settanta per cento dell’insieme del centrosinistra, laddove l’altro trenta per cento è pienamente gestibile nel quadro di un’alleanza ampia. Un risultato soddisfacente, dunque, che nel successo più ampio del voto amministrativo indica anche la possibilità di un’ulteriore espansione sia della lista unitaria, sia di tutto il centrosinistra. Il punto è oggi come acceleriamo la costruzione di un’alternativa al centrodestra. Rispondendo alle due esigenze che abbiamo di fronte. In primo luogo costruire un’ampia alleanza di centrosinistra, al cui interno sia ben riconoscibile un nucleo dirigente coerentemente riformista: quel timone che la nostra lista unitaria ha saputo dare al centrosinistra. Per questo è necessario consolidare la nostra esperienza unitaria trasformando la lista nella federazione dell’Ulivo: una formula realistica che non costringe nessuno dei nostri partiti ad annullarsi, ma rende più vincolante ed organico il rapporto di cooperazione e azione comune tra le forze riformiste che si sono riconosciute nella lista. Parallelamente la federazione dell’Ulivo deve promuovere con tutte le altre forze di centrosinistra un «cantiere programmatico» per l’alternativa di governo, a partire dal programma elaborato da Giuliano Amato per il voto europeo. Credo che questo nostro lavoro programmatico non possa prescindere da alcuni snodi fondamentali: l’Europa come chiave per il futuro dell’Italia, di contro all’euroscetticismo del centrodestra; il rilancio di una strategia di crescita che ci permetta di rispondere alle sollecitazioni che vengono dal mondo del lavoro e dall’imprenditoria e che permetta all’Italia di scommettere sulle sfide alte della competizione quali la ricerca e l’innovazione, il sapere e la conoscenza, l’internazionalizzazione, la modernizzazione strutturale e ambientale; restituire un ruolo forte alle politiche pubbliche e sociali, affrontando – con una nuova politica dei redditi e del welfare – una domanda redistributiva sempre più evidente; il tema delle regole da ristabilire dopo la stagione degli strappi istituzionali – dalla giustizia all’informazione – prodotti dal berlusconismo. È attorno a questi punti che il nostro lavoro si dovrà orientare a definire una strategia di governo per l’Italia. E il prossimo rientro di Romano Prodi, che potrà così assumere effettivamente la guida della federazione e dell’intera coalizione, potrà dare solidità e ulteriore slancio al nostro lavoro.

 

Enrico Boselli

Il colpo più visibile dato dal voto di giugno non è stato quello diretto al centrodestra, ma quello che ha ricevuto Silvio Berlusconi. È lui che si era esposto ed è stata la sua leadership ad essere penalizzata. Penso che si possa dire che un ciclo politico si è chiuso con la sconfitta di Forza Italia poiché sempre in questi dieci anni il partito del presidente del Consiglio ha rappresentato la vera forza propulsiva del centro destra e Berlusconi (il «turbo») e nessuna innovazione politica è avvenuta senza vederlo protagonista. Oggi l’Onorevole Berlusconi rischia di essere un peso e non più una risorsa per la sua coalizione. Dopo di che, come afferma Fassino, questo risultato non ci consegna automaticamente la vittoria politica. La lista unitaria ha conseguito un risultato straordinario – se lo consideriamo nei pochi mesi che abbiamo potuto usare e se aggiungiamo che il leader Romano Prodi non ha potuto né guidare fino in fondo la campagna elettorale né candidarsi – ed è da qui che dobbiamo muovere, lungo un percorso realistico di carattere federativo tra partiti che mantengono la propria identità ma che si impegnano di fronte agli italiani a proseguire fino al 2006 il cammino appena avviato. Voi conoscete la mia opinione riassunta nella parola d’ordine del nostro Congresso di Fiuggi: oggi la lista e domani il partito. Ho sempre considerato indispensabile dare al riformismo quella vocazione maggioritaria che in Italia e soltanto in Italia non ha mai avuto. Penso però che in questa direzione – e dunque per far nascere quel forte e moderno partito riformista – dovremmo tenere conto delle condizioni concrete e dei passi avanti che si possono fare. L’importante è che la direzione di marcia resti chiara. In questo senso il principale problema che abbiamo di fronte è come costruire un soggetto che sia capace di vincere ma soprattutto di governare il paese. È un problema per niente semplice, perché incrocia il nodo dell’equilibrio tra le nostre forze e le altre componenti del centrosinistra (in modo particolare quelle della sinistra più radicale). Ma possiamo risolverlo con un confronto programmatico che coinvolga tutte le componenti del centrosinistra, mantenendo ben chiara l’esigenza di conservare l’omogeneità programmatica, l’impronta riformista e riformatrice che ha segnato sino ad oggi l’esperienza della lista unitaria. Tale omogeneità costituisce un valore straordinario a tal punto da considerarci oggi ancora divisi più per le nostre storie del passato che non certo per le idee circa il futuro del nostro paese.

Sarebbe un errore accantonare questa omogeneità per seguire il disegno di una formazione eterogenea e per di più non unica: poiché, da quello che capisco, non dovrebbe comprendere Rifondazione Comunista. Ecco perché il nostro compito, oggi, è quello di permettere alla futura federazione dell’Ulivo di condurre un confronto programmatico con le altre formazioni del centrosinistra per definire una seria e credibile proposta di governo.

 

Giuliano Amato

È proprio questa la cosa da fare. Senza disperderci in discussioni, incomprensibili ai più, sulle formule organizzative. Tanto lo sappiamo tutti che, al di là dei distinguo, la lista possiamo rassodarla nell’immediato futuro con un patto federativo fra i partiti che la compongono. Di ciò ci dobbiamo avvalere per dare un solido nucleo riformista all’insieme del centrosinistra Ma evitiamo di concentrare l’attenzione su di noi per questi aspetti e facciamo in modo che gli italiani si occupino di noi perché noi ci occupiamo di loro e non di noi stessi.. E lo facciamo costruendo la nostra coesione attraverso visioni, politiche e progetti. È un terreno, questo, sul quale le esperienze già fatte ci dicono che se quel nucleo c’è e se esso elabora un impianto di partenza, diviene possibile arrivare a prospettive comuni nelle quali quell’impianto rimane e tuttavia anche altri, della più larga famiglia di centrosinistra, sono in grado di riconoscersi. E costruire l’impianto, così come concorrere alla messa a fuoco delle prospettive comuni finali, è e deve essere un impegno di tutti, non di «specialisti» da una parte dell’elettorato intermedio, dall’altra di quello di sinistra. Nel 2001 chi vinse le elezioni aveva una più percepibile visione del futuro, giusta o sbagliata che fosse, mentre noi eravamo, o eravamo visti, in relazione alla passata esperienza di governo. Ora il centrodestra ha smarrito la sua visione del futuro, tant’è che ancora oggi, in un mondo tanto cambiato da tre anni fa, è alle prese con l’adempimento delle promesse di allora. Con il paradosso che da un lato le imprese, dall’altro i sindacati gli dicono che oggi è altro ciò che si dovrebbe fare.

Il paese ha un bisogno inappagato di ritrovare il proprio futuro, così come sente che su questioni cruciali dobbiamo, insieme ad altri e in primo luogo attraverso l’Europa, riacquistare il controllo di un mondo che ci è sfuggito di mano. È su questi terreni che possiamo costruire la nostra coesione ed entrare allo stesso tempo in sintonia con ciò che chiedono gli italiani. In più, è ancora su questi terreni che possiamo meglio distanziare il centro-destra nella competizione politica, perché è proprio su di essi che è più palpabile la sua crisi. Avviamoci allora, e al più presto, su questa strada. Ci aiuterà non poco a risolvere i problemi organizzativi, evitando che questi diventino un’ossessione a sé stante.

 

Francesco Rutelli

La crisi di Berlusconi è destinata a produrre effetti molto ampi. Non è più lui il titolare della maggioranza assoluta delle azioni del suo schieramento, su cui aveva costruito il dominio della coalizione, ma non per questo dobbiamo dimenticarci della estrema professionalità politica del centrodestra. La loro strategia mediatica e comunicativa, in particolare, riesce ad imporsi sulla nostra grazie al pieno controllo delle fonti di informazione televisive che si traduce nell’artificiosa definizione e imposizione dell’agenda di discussione pubblica. Prendiamo ad esempio l’associazione dell’immigrazione clandestina al tema della criminalità, che nel 2001 la destra riuscì ad affermare nell’attenzione pubblica e che poi è stato fatto sparire nonostante l’emergenza sicurezza sia ben lontana dall’essersi attenuata. Allo stesso modo il centrodestra impone al paese una pittura politica dell’opposizione in negativo esasperando al massimo le nostre divisioni interne ed attenuando le divisioni che si stanno facendo sempre più evidenti nel loro campo. Impedisce – e qui c’è stata una nostra insufficiente iniziativa – che le televisioni affrontino i temi reali dell’economia, della perdita di potere d’acquisto delle nostre famiglie, del rallentamento grave del sistema produttivo e della sua competitività. Per questo il nostro dato elettorale nelle europee acquista un valore ancora più positivo. Siamo riusciti ad evitare la competizione interna, che avrebbe potuto avere risultati devastanti, e nelle amministrative è l’insieme del centrosinistra ad avere registrato un successo davvero notevole facendo emergere il nucleo di forti classi dirigenti territoriali. Ma il nostro risultato ci pone un interrogativo di carattere strutturale, visto che non siamo riusciti ad espanderci negli spazi aperti né in quelli intermedi tra i due schieramenti. L’interrogativo riguarda in modo particolare la Margherita, ma è tutta la lista dell’Ulivo ad esserne interessata. Credo che su questa mancata espansione abbia pesato un nostro deficit di contenuti, rispetto ai progressi fatti nella forma unitaria della nostra alleanza. Su questo dovremo lavorare e costruire progressivamente la nostra federazione come baricentro riformatore dell’alleanza di centrosinistra. Certo, è anche necessaria la riduzione dell’eccessiva frantumazione politica che si registra alla nostra sinistra (credo che la Margherita abbia dato per parte sua in questo senso un contributo significativo, che talvolta si dà troppo per scontato): occorre una maggiore responsabilizzazione dei nostri partner verso la prospettiva di un governo dell’Italia. È anche sulla responsabilizzazione di tutti i soggetti del centrosinistra che a Romano Prodi, nostro candidato premier, spetta un compito fondamentale: quello di dare obiettivi progettuali e modi di lavoro più coerenti all’intera alleanza.

 

Massimo D’Alema

Gli ampi effetti della crisi di Berlusconi, a cui faceva riferimento Rutelli, segnalano un vero e proprio mutamento di crinale nel clima politico del nostro paese. Tendenze che erano già visibili in passato appaiono oggi molto più evidenti. Ma nello stesso tempo sono molto meno ottimista sul fatto che la crisi del berlusconismo dia all’Italia una destra finalmente normale. Se si segnala una crescita, peraltro modesta, di consensi ad AN e all’UDC, lo è molto meno la certezza che da questi due partiti possa emergere una strategia alternativa a quella attuale. L’indebolimento della guida nel centrodestra segnala persino un rischio di instabilità per tutto il paese, perché questo centrodestra non appare affatto conquistato ad una serena logica dell’alternanza: la recente discussione sulla possibilità che le elezioni regionali possano essere rimandate di un anno con un atto normativo indica la sopravvivenza di un certo avventurismo politico nelle file del centrodestra, così come la tentazione di dare una spallata al bipolarismo e alla logica del maggioritario. E invece dobbiamo guardare a questa logica anche per comprendere meglio il senso del voto di giugno. Se il voto proporzionale permette una maggiore «fantasia» nei comportamenti di voto, il sistema maggioritario costringe a scegliere coalizione e leadership. In questo senso possiamo legittimamente interpretare una parte del voto finito ad AN e all’UDC (con il quale al sud si è inteso colpire l’asse Tremonti-Lega) come un’espressione perfino antigovernativa. Per questo la mia convinzione è che se in giugno avessimo votato per il parlamento italiano il centrosinistra avrebbe ricevuto una maggioranza molto chiara.

 

Francesco Rutelli

Non sono del tutto convinto che il voto di giugno sia proiettabile direttamente su uno scenario di elezioni politiche: non si è trattato di un voto per il governo. Quando si voterà per il governo, dovremo dimostrare coesione e condivisione anche con le forze più radicali dell’alleanza.

 

Massimo D’Alema

Può darsi che non sia proiettabile, ma resto convinto che vi sia stato un passaggio di scenario indiscutibile per quanto non irreversibile. Tocca a noi indicare ora una alternativa convincente. Il consolidamento e lo sviluppo del processo politico avviato con la lista unitaria è una delle condizioni per rendere appunto convincente l’alternativa. L’altra è un serio e approfondito confronto programmatico di tutto il centrosinistra che produca un programma di governo condiviso. Non c’è un prima e un dopo, in mancanza di questi passaggi il rischio maggiore è che la crisi del berlusconismo conduca ad una crisi del bipolarismo, come segnalano alcune polemiche giornalistiche sulla «doppia crisi di leadership» o la tentazione di tornare al proporzionale. Ha ragione Rutelli quando mette in evidenza la nostra insufficiente capacità di sfondamento al centro. Ma mi domando se a questa insufficienza sia più giusto rispondere delegando questo compito ad una specifica forza «centrista», o se invece non sia necessario rispondervi con una maggiore credibilità complessiva della nostra coalizione di centrosinistra. Credo infatti che sia fondamentale, anche per superare questa nostra debolezza, dare alla proposta di governo del centrosinistra un segno di affidabilità tale da attrarre e convincere il voto in libera uscita dal centrodestra. Anche perché oggi il paese – che fino a qualche tempo era diviso tra coloro che temevano il regime e coloro che seguivano con entusiasmo Berlusconi – è attraversato da una sensazione di smarrimento. L’Italia chiede con insistenza una leadership capace di governare. Se è difficile prevedere cosa accadrà nel centrodestra, è certo che la nostra coalizione dispone davvero di poco tempo per consolidare il nostro lavoro unitario. Ma siamo già ad un punto avanzato, molto più avanzato anche rispetto allo stato della coalizione prima delle politiche che vincemmo nel 1996. Abbiamo alcune fondamentali certezze: da Mastella a Bertinotti siamo tutti convinti di voler dar vita ad una grande alleanza che, pagando ciascuno qualche prezzo, ci porti al governo nell’interesse dell’Italia. Inoltre siamo tutti convinti, da Mastella a Bertinotti, che alla guida di questa alleanza ci sia Romano Prodi. Vi pare poco? In questo quadro si colloca il percorso federativo come uno dei passaggi essenziali per riorganizzare al meglio il campo del centro sinistra. Ma cosa significa in concreto un patto federativo? Significa definire un gruppo dirigente attorno a Romano Prodi. Significa definire un metodo chiaro, che non ci impedisca persino di decidere tutti insieme di conservare le nostre sigle di partito nel voto regionale se questo si rivelasse più utile nei diversi sistemi elettorali regionali. Ma è fondamentale decidere un metodo, perché la nostra credibilità di governo si costruisce sulla capacità di decidere insieme una direzione di marcia per sviluppare l’alleanza e costruire il programma di governo. Questo sforzo dovrà vedere la partecipazione di movimenti e soggetti associativi, che sono emersi con prepotenza negli ultimi anni e che in alcuni casi rivelano una forza anche elettoralmente significativa come le tante liste civiche del Mezzogiorno. Pensate che a Bari la lista Emiliano, che non è un partito, è la prima forza in Consiglio Comunale per numero di voti e ovviamente di consiglieri. Ma insisto nel sottolineare che l’esistenza di un soggetto che ha raccolto oltre il trentuno per cento dei voti e staccato di oltre dieci punti il partito di Berlusconi è l’elemento di positiva novità che può segnare la nuova stagione politica. Gli italiani hanno capito che oggi si candida alla guida dell’Italia il leader di un soggetto nuovo e federativo, che rappresenta la maggioranza relativa del paese. È questa la differenza fondamentale rispetto al 1996 ed è nostro dovere lavorare su questa novità.