Al mondo serve un'alleanza paritaria tra Europa e USA

Di Giuliano Amato Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

Fino alla caduta del Muro di Berlino la relazione transatlantica era stata fuori discussione. La guerra (fredda) comune contro un comune nemico era il più solido dei legami fra le due sponde dell’Oceano. L’Europa, e in Europa la Germania, erano il cuore e il teatro della guerra. Era quindi tanto essenziale quanto ovvio per l’Europa mantenersi fermamente vicina agli Stati Uniti, così come lo era per gli Stati Uniti concentrare attenzione e risorse sugli alleati europei.

 

Fino alla caduta del Muro di Berlino la relazione transatlantica era stata fuori discussione. La guerra (fredda) comune contro un comune nemico era il più solido dei legami fra le due sponde dell’Oceano. L’Europa, e in Europa la Germania, erano il cuore e il teatro della guerra. Era quindi tanto essenziale quanto ovvio per l’Europa mantenersi fermamente vicina agli Stati Uniti, così come lo era per gli Stati Uniti concentrare attenzione e risorse sugli alleati europei.

Dopo il 9/11 (la caduta del Muro di Berlino) molte cose sono cambiate. Gli orizzonti geo-politici degli americani si sono allargati, l’Asia e il mondo arabo sono diventati per loro sempre più importanti e l’acquisito monopolio di unica superpotenza militare ha inevitabilmente attenuato la loro lealtà alle alleanze esistenti (non c’è monopolio che non induca chi lo possiede a pensare di fare a meno degli altri, qualunque cosa intenda intraprendere). La stessa Europa ha cominciato a guardare verso Est da una prospettiva completamente nuova. La prima a sentirsi libera di farlo è stata la Germania, mentre per la Francia si sono rinnovate le opportunità per rinvigorire le sue mai spente inclinazioni gaulliste. Né si può ignorare il cambio generazionale che è intervenuto con l’arrivo a ruoli di leadership, di qua come di là, di uomini che non hanno vissuto l’età dell’oro della relazione transatlantica, dalla corrente di fratellanza che intercorse fra i soldati americani e la nostra gente in Europa alla fine della seconda guerra mondiale alla successiva vicenda del piano Marshal. La guerra impressa nella memoria di questi nuovi leaders è quella del Vietnam e il Vietnam parla di un’altra America, sia agli americani che agli europei. E pochi di loro hanno ancora la profonda lealtà alla nostra relazione reciproca, che ha reso così giustamente popolare il presidente Clinton fra di noi in Europa.

L’incrinatura prodotta dal 9/11 è diventata vera e propria divisione dopo l’11/9 (l’abbattimento delle Torri gemelle). Non immediatamente, per la verità, giacché la reazione militare in Afghanistan fu condivisa da (quasi) tutti in Europa. «Siamo tutti Americani» scrisse «Le Monde» e fu unanime l’accordo europeo sul ricorso alla clausola di solidarietà prevista dallo statuto della NATO per il caso di aggressione militare nei confronti di uno dei membri. È stato poi l’Iraq che ci ha diviso, dividendo i paesi europei fra di loro e molti di loro dagli Stati Uniti. E va anche aggiunto che, negli stessi paesi schieratisi con Washington, tanto i principi quanto i dubbi fatti valere dagli altri sono al fondo condivisi. Gli europei sono tutti più rispettosi di quanto non lo sia la superpotenza americana delle istituzioni internazionali e più attenti di lei alla legittimazione che tali istituzioni possono offrire. L’intervento militare preventivo è visto, se non con aperta ostilità, quanto meno con forte preoccupazione in tutta Europa, specie quando è concepito in chiave di autodifesa unilaterale. E la dottrina del grande Medio Oriente, se non per i suoi fini di sicuro per i mezzi a cui la si è inizialmente legata, è fondamentalmente estranea alle prospettive europee. Ci si può obiettare che noi abbiamo più predicato che praticato le nostre dottrine (e l’obiezione di sicuro non sarebbe infondata). È un fatto che le nostre dottrine puntano in primo luogo sulle risorse economiche e culturali, lasciando a quelle militari il ruolo di extrema ratio e solo in presenza di un pericolo chiaro e imminente.

A farla breve, non sono molti gli europei che si sentono in sintonia con i neoconservatori oggi al potere in America e sino a quando sarà così la relazione transatlantica sarà non solo in difficoltà, ma addirittura a rischio. Inoltre, a leggere i critici americani dei neoconservatori, la relazione transatlantica si starebbe indebolendo più per responsabilità degli stessi neoconservatori che non nostra. L’attuale Amministrazione – essi dicono – sta esercitando un «dominio assertivo» che è del tutto controproducente nel mondo interdipendente di oggi, perché finisce per provocare maggiore ostilità e quindi maggiori minacce. La realtà con cui fare i conti è che nei paesi arabi anche i moderati ci dicono che, quella che loro stessi percepiscono come la minaccia maggiore non è Al Quaeda, ma è la propensione americana per le guerre preventive. Occorre più cooperazione e occorre che il miglioramento delle condizioni del mondo sia sentito come una missione davvero comune, da condividere con altri. Di un tale miglioramento di sicuro fanno parte il rafforzamento della democrazia e l’affermazione dei diritti fondamentali. Ma democrazia e diritti si possono promuovere e sostenere, non esportare o imporre manu militari là dove essi non abbiano un pre-esistente radicamento popolare.

È difficile non constatare la profonda somiglianza fra queste posizioni e quelle prevalenti fra noi europei, così come è difficile non prendere atto delle conclusioni a cui esse portano. Se le vogliamo tradurre concretamente e se vogliamo che gli Stati Uniti siano meno dominanti e più cooperativi, la cornice essenziale per farlo è proprio una rivitalizzata partnership atlantica. E non soltanto perché essa è, per definizione, una cornice cooperativa, ma anche per l’ineguagliabile dotazione che può offrire alla missione di fare del mondo un luogo migliore e più sicuro per tutti. Come hanno scritto Madeleine Albright, Harold Brown, Zbigniew Brzezinski e altri nella loro Dichiarazione Comune sul rinnovamento della partnership transatlantica nel maggio 2003: «non c’è nulla che possa essere fatto più efficacemente e con maggiore successo di ciò che possono fare gli Stati Uniti e l’Europa agendo in armonia e d’accordo».

La questione arabo-israeliana è di sicuro la più difficile fra quante ne abbiamo davanti. E tuttavia non abbiamo mai sperimentato l’impatto che potremmo avere su di essa con una equilibrata posizione comune, sostenuta insieme dagli Stati Uniti e dall’Europa con forza e con continuità. Pensiamo inoltre alle grandi sfide del XXI secolo: lo sradicamento della povertà, la lotta per la salute e per l’istruzione, il miglioramento delle condizioni ambientali del pianeta, la difesa delle bio-diversità e delle risorse naturali, l’apertura del libero commercio soprattutto per coloro che ne hanno più bisogno. Se su questi fronti Stati Uniti ed Europa proponessero uniti le soluzioni necessarie, i passi avanti potrebbero essere moltiplicati. E in conseguenza della loro unità, le stesse istituzioni internazionali che concorrono al governo globale migliorerebbero di molto la loro capacità di decidere e la qualità delle loro decisioni. Insomma, né gli Stati Uniti né l’Europa sono onnipotenti, ma la loro partnership potrebbe avere una grande e positiva influenza sul mondo, liberando allo stesso tempo il potere americano dai suoi tratti più indigesti e dalle implicazioni che ne derivano.

È insomma un affare per entrambi e per il mondo intero. Siamo pronti e disponibili a farlo? Siamo convinti che la fine della guerra fredda ha di sicuro posto fine alla missione comune che avevamo prima del 9/11, ma che esistono nuove missioni per la nostra partnership? Siamo consapevoli che, al di là di differenze pur esistenti (pensiamo alla pena di morte), la vicinanza che c’è fra di noi sul terreno della democrazia, della rule of law e dei diritti umani non ha eguali al mondo? Siamo consapevoli del fatto che le nostre economie sono così profondamente interpenetrate l’una con l’altra che il benessere degli uni dipende largamente dal benessere degli altri? E siamo consapevoli che le prospettive di una rinnovata e futura partnership fra di noi ha questo fondamento e si può quindi avvalere del combustibile che con continuità ne potrà scaturire?

Le risposte a queste domande non sono, ahimè, necessariamente positive. I cambiamenti che erano già avvenuti dopo il 9/11 e le più accese divisioni seguite all’11/9 hanno pericolosamente modificato percezioni e aspettative sia negli Stati Uniti che in Europa e incombe il rischio di un circolo vizioso. È più che lecito confidare nel ritorno di un presidente democratico alla Casa Bianca e, con lui, nella fine dell’esacerbato unilateralismo dell’attuale Amministrazione. Ma se restasse questa Amministrazione, le sue posizioni rafforzerebbero le tendenze, già esistenti in Europa, verso strategie geo-politiche simmetricamente lontane da quelle americane. E le conseguenze potrebbero essere addirittura telluriche. Da una parte, si avvererebbe la profezia di ostilità crescenti attorno agli Stati Uniti, con accresciute minacce alla loro sicurezza e a quella globale. Dall’altra, la stessa Europa si troverebbe ad essere meno sicura e in piena contraddizione con i suoi obiettivi. L’Europa punta a una sua maggiore unità interna e il prevalere in essa di posizioni anti-americane dividerebbe i suoi Stati membri. L’Europa vuole accrescere il potere e l’efficienza decisionali delle istituzioni internazionali, ma le istituzioni internazionali sarebbero paralizzate dall’atteggiamento non collaborativo della super-potenza trattata in modo ostile.

Insomma, la causa di una rinnovata relazione transatlantica ha bisogno di sostenitori su entrambe le sponde dell’Oceano. Ha dalla sua parte argomenti forti e razionali, che non sono però necessariamente popolari. I suoi oppositori nutrono aspettative spesso assai divergenti e su di esse costruiscono le proprie fortune politiche. In più, quand’anche John Kerry riuscisse a rimpiazzare George W. Bush alla Casa Bianca, non per questo le cause di possibili frizioni si vanificherebbero del tutto. Certo, ci sarebbero grandi e positive differenze, ma non sino al punto di ripristinare la nostra relazione così com’era prima della caduta del Muro, perché il contesto è inesorabilmente cambiato e il cambiamento rimane, al di là delle diverse scelte politiche che pure se ne possono far derivare. Gli Stati Uniti sono divenuti l’unica superpotenza militare e siccome lo rimarranno per il prevedibile futuro la loro naturale propensione all’unilateralismo di sicuro non verrà rimossa. Una nuova Amministrazione dovrebbe convincersi più facilmente dei costi dello stesso unilateralismo, ma l’alternativa della cornice cooperativa deve risultare solida e la stessa Europa deve adattarsi, in vista di ciò, a condizioni che non ha mai sperimentato nel corso della guerra fredda. Allora la nostra complementarità era un dato scontato, quale che fosse l’equilibrio – o lo squilibrio – fra noi e gli americani. Nelle nuove condizioni la dobbiamo riscoprire e la dobbiamo ancorare a ragioni e aspettative diverse, che sia noi che gli americani dobbiamo condividere e accettare.

Il «Rapporto sulla partnership atlantica» pubblicato nel febbraio scorso da una Task Force indipendente del Council on Foreign Relations, presieduta da Henry Kissinger e Larry Summers, sottolinea che noi europei giustamente respingiamo una complementarità in virtù della quale gli americani «cucinano» e noi «laviamo i piatti», specie quando il piatto principale è l’azione militare. Complementarità – dice il Rapporto – deve significare imprese comuni nelle quali le nostre diverse risorse sono usate a tempo debito e sulla base di un disegno costruito insieme. Neppure la guerra fredda – esso nota – fu vinta dalla sola superiorità militare americana (che certo giocò un ruolo essenziale). Tuttavia, la nostra relazione sarà necessariamente asimmetrica e al suo interno la leadership americana va realisticamente accettata come un fatto della vita; e non solo a causa dello squilibrio militare fra di noi, ma anche per altre ed evidenti ragioni, non ultima la differenza fra uno Stato federale proiettato sul mondo e una Unione di venticinque e più Stati membri ancora sovrani, che è troppo spesso concentrata sui suoi problemi interni. Ma accettare la leadership americana non significa necessariamente accettare tutto ciò che gli americani hanno in mente. La storia ci dice – ed è una storia documentata – che durante la guerra fredda erano gli americani a prendere l’iniziativa nella formulazione delle strategie, ma furono numerosi i casi nei quali cambiarono posizione dopo averne discusso con gli alleati.

Un simile atteggiamento da parte loro è ancora possibile, ma certo dipenderà anche da noi, dalla nostra buona fede di partner e dalla nostra disponibilità a pagare i prezzi che la partnership richiede. In primo luogo i nostri leader politici europei, che pure dovranno saper criticare gli Stati Uniti ogni volta che sia necessario, dovranno avere però il coraggio di non cavalcare i sentimenti anti-americani , con i quali è tanto facile procurarsi consenso (sebbene, ad essere onesti, la stessa cosa vada detta anche per l’altra sponda dell’Atlantico, dove lasciarsi andare a volgarità anti-europee è diventato un modo altrettanto facile di conquistare dei voti). In secondo luogo, e altrettanto e forse ancora più difficile, gli stessi leader dovrebbero essere disponibili a discutere con serietà della collocazione delle nuove minacce del nostro tempo entro la cornice legale delle istituzioni internazionali, evitando così agli Stati Uniti la sensazione di poter disporre soltanto dell’azione unilaterale. Una delle ragioni per le quali penso che la guerra in Iraq sia stata più un problema che una soluzione è l’ostilità che ha creato nei confronti del principio stesso dell’intervento preventivo. Benché comprensibile nelle circostanze in cui è sorta, tale ostilità va di gran lunga oltre lo scopo.

L’intervento preventivo non può infatti essere escluso di fronte al terrorismo di attori non statali e di fronte ai possessori di armi di distruzione di massa, che manifestano la concreta intenzione di usarle. Né esso è contrario alla Carta delle Nazioni Unite, la quale prevede interventi per restaurare la pace contro ogni rottura di essa, ma li prevede anche per mantenere la pace contro minacce che la possano rompere (articolo 39). Il punto chiave è che, secondo la Carta, solo il Consiglio di Sicurezza ha il potere di determinare l’esistenza delle minacce e quindi di decidere le azioni conseguenti (articoli 39 e 42), mentre il «diritto inalienabile alla autodifesa individuale o collettiva» è limitato alle reazioni contro gli «attacchi armati» (articolo 51). Non dobbiamo mettere in discussione questa fondamentale distinzione di casi e di competenze. Per parte loro, gli americani devono capire che qualunque precedente di azione unilaterale contro minacce potrà essere usato in futuro non solo da loro, ma da chiunque altro. Per parte nostra, però, noi europei dobbiamo essere aperti alla definizione di procedure e di regole migliori e più percorribili per la determinazione delle minacce e delle relative conseguenze da parte del Consiglio di Sicurezza. Il documento di Xavier Solana sull’Europa e la sicurezza globale, già approvato dal Consiglio europeo, va già in questa direzione facendo un passo importante e cioè rimuovendo la nostra opposizione di principio. Ma bisognerà presto entrare nei dettagli e di sicuro con un nuovo presidente degli Stati Uniti sarà più facile farlo.

Non sarà altrettanto facile farlo accettare sui fronti delle nostre politiche interne. Ma questo è proprio il terreno su cui deve farsi valere la leadership politica. Del resto, se davvero vogliamo attuare l’agenda proposta dalla nostra nozione europea di sicurezza – la nozione più ampia che parte dallo sradicamento della povertà e arriva al libero commercio per tutti – di passi difficili sui fronti interni ce ne sono anche altri. Ormai se ne è scritto anche troppo, del ruolo centrale delle mucche francesi nelle politiche e nella allocazione delle risorse europee, della perdurante ingiustizia delle nostre chiusure nel commercio internazionale e del nostro impegno troppo limitato per la promozione della democrazia e per la difesa dei diritti umani. Pensando a tutto questo, è ben possibile che una partnership atlantica rivitalizzata e rivolta non solo alla nostra sicurezza, ma alla creazione di condizioni migliori e più sicure per il mondo promuova quel sentimento comune e quell’impegno che sono necessari per dare finalmente compiuta sostanza a quelle politiche soft, nelle quali noi europei vediamo con orgoglio la nostra specialità di fronte a quelle hard degli Stati Uniti.

Una volta in più risulta confermato che si tratterebbe per tutti noi di un ottimo affare. Speriamo soltanto che, su entrambe le sponde dell’Atlantico, i tempi siano presto maturi per questo nuovo inizio.