Di quale scuola ha bisogno il paese?

Di Dario Missaglia Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

Ritengo molto importante, a distanza oramai di più di tre anni dall’insediamento del governo Berlusconi, che in diverse forme riparta anche a sinistra il dibattito sul futuro della scuola. Anche la più radicale opposizione alla legge Moratti non può infatti esimere più nessuno dal cominciare a dire di quale scuola abbia bisogno il paese.

 

Ritengo molto importante, a distanza oramai di più di tre anni dall’insediamento del governo Berlusconi, che in diverse forme riparta anche a sinistra il dibattito sul futuro della scuola. Anche la più radicale opposizione alla legge Moratti non può infatti esimere più nessuno dal cominciare a dire di quale scuola abbia bisogno il paese.

L’operazione non è semplice. Non si può partire dal «dove eravamo rimasti», perché i processi di trasformazione del paese sono andati avanti e non consentono nostalgie del passato; perché l’avvio, parziale e contorto del nuovo Titolo V ha modificato profondamente lo scenario istituzionale, ma non altrettanto significativamente la cultura politica dei nuovi e dei vecchi soggetti; perché il periodo Berlinguer-De Mauro è una categoria inesistente che non riesce a nascondere una discontinuità tragica sulla quale si è preferito calare una coltre di silenzio. Si sono forse risparmiate delle amarezze, ma certamente sono state eluse molte questioni nodali che oggi sarebbero tornate utili.

Non si può neanche ripartire dal «punto e a capo», perché l’Ulivo non può consentirsi neppure un’ombra di quella vena anti-istituzionale che caratterizza il governo del Polo. Ma deve essere rilevato che proprio questo è stato l’approccio praticato con ostinazione e insipienza dal Polo, al punto che, dopo aver abolito l’obbligo scolastico a 15 anni, il MIUR è stato costretto, d’intesa con le regioni e pressato dalle confederazioni sindacali, a istituire corsi per i quattordicenni dall’esito incerto e dal modello molto approssimativo, sia pure in un quadro di sensibili differenze territoriali. Qui davvero è mancato persino il buonsenso.

Di fronte a questa situazione, credo non ci sia alternativa all’identificare quali discontinuità, rispetto alle politiche avviate dal centrosinistra, siano state introdotte dal centrodestra nel cuore della scuola pubblica e sulla base di ciò, che cosa si possa progettare per il futuro.

Del resto, in questi mesi, è anche crollata l’ultima illusione della scuola. L’avvio delle politiche della Moratti aveva trovato una scuola nel complesso scettica, inerte, tutto sommato anche sollevata o comunque non certo stupita dalle prime mosse del ministro tese ad azzerare lo scenario riformatore di Berlinguer. L’inseguire il ventre della categoria, con quella riconferma così netta della scuola elementare e media, aveva nel complesso consolidato la percezione di un ritorno al passato. Ci sono voluti quasi tre anni perché almeno una parte della scuola prendesse coscienza che invece questo governo è convinto di potere e volere cambiare il paese, scuola compresa.

L’idea pertanto che alla fine, destra o sinistra al governo, la scuola fosse destinata a rimanere così com’è, si è infranta di fronte al susseguirsi della decretazione delegata e ai primi conflitti con gli interessi concreti del personale della scuola. Ma a lungo si è registrata una imbarazzante inerzia. E quel che è peggio, una grave incapacità di cogliere in profondità il disegno che stava avanzando.

È toccato proprio alla scuola elementare, storicamente moderata, incline per storia e cultura a misurarsi con i cambiamenti, aprire un’intensa fase di conflitto che nel corso dei mesi è cresciuta, è uscita oltre i confini della categoria, ha coinvolto i comuni, le associazioni, larghi strati di cittadini, sindacati e partiti.

Il ministero ci ha messo del suo, con punte di improvvisazione sorprendenti. L’abrogazione del tempo pieno ha costituito il detonatore di una protesta che ha fatto crescere un vero movimento contro la legge 53 e i suoi decreti attuativi. E forse, proprio la vicenda del tempo pieno può costituire la chiave utile per una riflessione di fondo sui processi in atto nella scuola e nel paese.

Del resto la crescita impetuosa e per certi versi contraddittoria del tempo pieno negli anni Settanta-Ottanta resterebbe incomprensibile se si dovesse prescindere dal quadro più generale in cui prendeva forma nel nostro paese quel modello di Stato sociale moderno che ha costituito una delle stagioni più avanzate del movimento operaio e sindacale. Un paese desideroso allora di crescere, di superare gli squilibri sociali di una società ancora in transizione verso la piena industrializzazione, di innalzare i redditi di tutti, di individuare nelle grandi conquiste della sanità pubblica, della scuola pubblica e della previdenza pubblica, i presidi di una sicurezza insieme sociale e individuale che avrebbero migliorato le condizioni di vita di milioni di persone. Tutto ciò avendo sullo sfondo un patto fiscale che attraverso la fiscalità generale definiva un patto tra Stato e cittadini, cioè le condizioni della solidarietà possibile, come fondamento della sicurezza e della libertà delle persone.

È curioso e anche preoccupante che tutto ciò rischi di essere sottovalutato oggi a fronte delle promesse di riduzione delle tasse ad opera del governo di centrodestra. Non critico Berlusconi per non aver mantenuto le promesse; sono in dissenso sui contenuti di quelle promesse. Bisognerebbe infatti invitare a riflettere non su quanto e se verranno ridotte le tasse, ma sul fatto che meno tasse vuol dire meno società.

Tornando a quel processo, va detto che esso fu tutt’altro che lineare; segnato anzi da pesanti conflitti, lotte. Ma nella sostanza quel compromesso sociale fu raggiunto determinando un salto nella storia del nostro paese. Il tempo pieno è figlio di questa storia. E anche la sua vivacità culturale, l’indiscutibile segno riformatore delle sue pratiche e del suo contributo culturale, quel calarsi nella società e nei suoi conflitti, esprimevano bene le radici storicosociali di quella esperienza.

Soltanto con la riforma dei programmi della scuola elementare e poi degli ordinamenti la CGIL riannoda le fila di una relazione importante con il tempo pieno e i suoi docenti per orientare l’attuazione di quella riforma verso una scuola migliore per tutti, una scuola che potesse fare proprio il patrimonio elaborato dalle migliori esperienze di tempo pieno. Sarebbe qui troppo lungo ripercorrere i successi e gli insuccessi di quella stagione insieme così vicina e così lontana.

Un dato è certo. Le scuole a tempo pieno sono state tra le poche scuole del paese capaci di produrre memoria, conoscenza: dai cartelloni nelle classi alle ricerche, dai materiali alternativi ai libri di testo alle produzioni di diverso tipo. Una scuola che apprende e cresce nella sua capacità di apprendere. Non era forse già questo il cuore dell’autonomia che sarebbe stata poi conquistata negli anni successivi? E non è forse proprio questa capacità di costruire significati, modelli organizzativi, esperienze significative, l’autonomia di cui avrebbe bisogno la scuola d’oggi?

Ma è proprio sul finire degli anni Ottanta che inizia una nuova fase del ciclo economico e sociale del nostro paese. Con una tenace battaglia difensiva da parte del sindacato, che in parte ha certo limitato i danni, ma insieme non è riuscita a offrire sbocchi diversi.

Il liberismo che si è diffuso nel mondo e in Europa ha radicalmente rimesso in discussione quel compromesso sociale. Non è un processo che nasce con Berlusconi (che pure bene rappresenta la sua variabile «locale»). È un processo che è già alle nostre spalle da alcuni anni e che non abbiamo saputo intercettare nelle sue tendenze sociali più profonde.

Il quadro generale che oggi il nostro paese presenta è tuttavia molto chiaro: il livello di crescita è oramai vicino allo zero. Questa stasi è stata aggravata peraltro da un tasso di inflazione quasi doppio rispetto ai paesi europei, con effetti pesanti sui salari, pensioni e sui consumi. E tutto ciò nel quadro di uno scontro sociale in cui è stato chiaro l’intento di colpire la contrattazione nazionale e le politiche redistributive che hanno reso possibile nel tempo un welfare solidaristico e inclusivo.

I dati salienti di questa situazione sono oggi registrati da tutti gli organi di controllo dell’economia. I ricchi hanno aumentato enormemente le loro ricchezze, a riprova di un forte incremento delle disuguaglianze. I profitti sono saliti come non si ricordava dagli anni Cinquanta, grazie anche alla riduzione forte della spesa per interessi determinata dall’avvento dell’euro. La logica del profitto ha assorbito la ricchezza senza trasformarla in qualità delle infrastrutture pubbliche, del modello produttivo. I capitali sono fuggiti verso la ricchezza finanziaria anziché scommettere sull’innovazione produttiva; un danno per il paese e persino un processo di modificazione della natura del lavoro: esso infatti non vale più per la conoscenza che incorpora, ma per la sua valutazione in borsa (altro che economia della conoscenza!). È in atto infine una demonizzazione delle politiche fiscali (che pure hanno le loro contraddizioni), che tende a legittimare persino sul piano etico condoni ed evasione, mentre la riduzione speculare delle risorse agli enti locali erode i livelli di welfare conquistati in tanti anni.

Tutto ciò fortunatamente non è più oggi sostenuto dalla sola CGIL, che da tempo ha denunciato il rischio del declino del paese. Parole molto nette e molto consapevoli sono state espresse dal nuovo presidente di Confindustria Montezemolo, e al di là di prematuri auspici esse costituiscono un fatto di grande rilievo sullo scenario nazionale se diventeranno la linea da verificare nei fatti di Confindustria.

In sintesi, emergono oggi due dati di grande interesse per noi, anche per le nostre riflessioni sul terreno della formazione: crescono le disuguaglianze e ciò non può risultare indifferente al sistema della formazione; e tramonta l’enfasi sul ruolo taumaturgico del mercato come unico regolatore dei processi economici e sociali. Ritorna pertanto, in forme certamente nuove rispetto al passato, una voglia di politiche pubbliche (nell’economia e nel sociale) che confligge con la vocazione alla privatizzazione.

Anche il mondo della formazione più vicina al lavoro evidenzia queste contraddizioni. Su ventuno milioni di lavoratori occupati, il 47% possiede la licenza media e quel che è più inquietante, cresce da parte delle imprese la domanda di manodopera generica. È la conferma della crisi del nostro sistema produttivo, che ha rinunciato a scommettere sull’innovazione e in particolare sull’innovazione di prodotto. Se non riparte questa spinta, anche la leva formativa, malgrado nuovi strumenti disponibili (penso ai fondi interprofessionali per la formazione continua) rischia di rimanere al passo, perché non si riattiva la leva formativa se essa non è sospinta da una domanda forte di innovazione del lavoro. E invece, come purtroppo ha dimostrato da ultimo il caso Melfi, sopravvive nel nostro paese un taylorismo fuori tempo che ci colloca fuori dall’economia della conoscenza che da Delors in poi ha segnato tappe importanti nello scenario europeo.

Queste considerazioni ci sono utili per approfondire alcune questioni sul versante formazione.

Troppe volte la legge Moratti è stata rappresentata come un ritorno al passato. Capisco che talvolta anche noi siamo travolti dal bisogno di comunicare semplificando, ma non ci fa bene. Dobbiamo esigere innanzitutto da noi stessi molto rigore di analisi. Non possiamo infatti cadere nel modello comunicativo del cavaliere. Egli usa a piene mani i mezzi di comunicazione che controlla, ma non è obbligatorio frequentare i salotti televisivi per rispondere. La politica deve ritrovare nel rapporto con le persone la ragione del suo significato. Se Berlusconi annuncia che un giorno modificherà la Costituzione sovietica, un altro la magistratura troppo di sinistra, un altro ancora ridurrà le tasse, non possiamo rispondere con l’elenco delle nostre abrogazioni future. È un senso di liberazione che dura un attimo e poi lascia una sensazione di frustrazione. Soprattutto rischiamo in questo modo di non cogliere che quella apparente antipolitica tende a porsi come politica capace di dividere, frammentare, alimentare conflitti, perché è in questi scenari che il modello plebiscitario può trovare ragioni e consensi.

Noi abbiamo bisogno di una politica capace invece di ricomporre, di unificare, di ritrovare ragioni profonde per il cambiamento possibile. Abbiamo bisogno di rilanciare la politica come forma di partecipazione, perché solo in questo modo la politica può tornare a vivere, più di quanto faccia oggi, tra i giovani e le persone di ogni età.

Non ci sono dunque ritorni al passato. È vero che alcuni elementi «estetici» di quella proposta potrebbero indurre quella valutazione (un anno in meno di obbligo scolastico, la scelta precoce tra canale liceale e formativo). Ma è solo apparenza. Perché anche tornando a quel passato, gli anni dell’avviamento professionale e della media, degli esami selettivi, ecc il ruolo affidato alla scuola pubblica fu enorme. Penso all’alfabetizzazione di milioni di bambini raggiunti fin nei più sperduti comuni. Questo ruolo non c’è più. La scuola pubblica non ha più di fronte a sé quel ruolo nazionale. La diminuzione del tempo scuola, che è il segno del nuovo ciclo primario, sta a indicare una scuola minima per tutti, una riduzione reale del ruolo della scuola pubblica nel paese.

Per questo la vicenda del tempo pieno ha un carattere emblematico.

Tutto ciò verso una crescente privatizzazione della scuola? No, anche questa sarebbe una debole semplificazione, anche se non sfuggono a nessuno le reiterate cambiali elettorali che questo governo paga alla gerarchie ecclesiastiche. Il processo di privatizzazione che avanza è ben più insidioso della privatizzazione della scuola: è la privatizzazione delle scelte, il ricondurre alla «libera scelta dell’individuo fatto famiglia», il primato delle scelte educative. Non importa che questa famiglia sia una costruzione ideologica che non risponde alla realtà: importante è parlare all’individuo nella scuola come parlare all’individuo nel lavoro (anche qui in un rapporto sempre più individualizzato, senza intermediazione sociale, cioè senza sindacato), come parlare all’individuo nei servizi (soldi al singolo anziché servizi alla comunità).

Sta in questo la perversa modernità della legge Moratti; una modernità che non abbiamo saputo interpretare per tempo, vittime anche noi di una subalternità acritica all’ideologia del mercato che avanzava, aggredendo i fondamenti sociali e culturali del welfare conquistato in tanti anni di lotte.

È sotto gli occhi di tutti la deriva individualistica del nostro tempo, la competizione forsennata che segna i rapporti tra le persone, l’annullamento progressivo dell’idea di diritto come relazione di responsabilità verso l’altro. Sono mutamenti profondi che vanno oltre la sfera dell’economia e delineano un mutamento antropologico in atto. Bisogna tenerne conto, perché ciò vuol dire che non basteranno misure solo economiche per mutare questo scenario.

Ma quella sfida sul terreno della libertà (il diritto di scegliere del singolo «fatto famiglia») va assunta su quel terreno; noi non possiamo fuggire e cambiare argomento. Certo, in quelle scelte non è difficile individuare una riproposizione, in forme nuove, di una teoria del condizionamento sociale. Se lasciamo il singolo solo di fronte alle sue scelte, esse non saranno che il prodotto della sua storia, delle sue culture familiari. Una nuova riproduzione di disuguaglianze funzionali al modello economico perseguito e descritto in precedenza. Un modello fondato sulla competizione (altro valore mutuato dallo scenario economico), sull’affermazione di chi può e meglio può.

Noi possiamo certo rispondere sul terreno della qualità dell’offerta formativa e su questo non poco è stato prodotto e seminato. Ma è sufficiente? Il tema del valore, del ruolo del singolo, della persona che apprende, non chiede forse risposte nuove? Proprio nel tempo pieno abbiamo raggiunto nelle esperienze migliori la sintesi tra l’apprendimento come fatto sociale (lo stare insieme ad altri e diversi) e l’individualizzazione dei percorsi (la rottura del gruppo classe, la rottura della gerarchia dei saperi, l’attenzione al singolo e non solo a chi più ne aveva bisogno). Ma questo processo non ha trovato né cittadinanza né pratica nella «scuola di tutti», prova ne siano i dati sull’abbandono, la selezione, il rapporto tra scelte del ciclo secondario e titoli di studio dei genitori.

Insomma, il tema dell’eguaglianza torna con forza a interrogarci per andare oltre quella eguaglianza delle opportunità (cioè disponibilità di determinati mezzi) che pure abbiamo perseguito non senza risultati importanti. Sen, in un suo recente saggio, ci invita ad andare oltre quella definizione, riflettendo sulla «eguaglianza delle capacità», ovvero la libertà del singolo di vivere la propria vita in modi diversi. È un obiettivo praticabile solo con un immenso sforzo collettivo, alternativo alla privatizzazione delle scelte. Uno sforzo di solidarietà intesa come responsabilità individuale e collettiva ed anche come nuova produzione culturale.

Non sarà pertanto sufficiente, anche in un diverso quadro politico, un forte investimento nella politica economica, nei servizi e nella formazione per costruire un welfare capace di tenere insieme la valorizzazione del singolo, della persona e la dimensione sociale e solidaristica in cui essa può realizzarsi. Una scuola di qualità, in grado di produrre l’eguaglianza delle capacità, richiede un nuovo impegno anche da parte di chi lavora nella scuola. Nessuno affiderà alla scuola un compito così alto se gli insegnanti non rivendicheranno loro per primi una responsabilità sui risultati e, di conseguenza, una autonomia ancora più forte nell’organizzazione del proprio lavoro individuale e collettivo, nella qualità e articolazione della propria professionalità.

Non dobbiamo quindi limitarci a una pura operazione di contrasto, che pure va sostenuta ogni qualvolta sia necessario. Tra gli strumenti fondamentali per combattere l’idea di scuola che avanza e per far vivere insieme un’idea di scuola migliore per tutti, dobbiamo sostenere la necessità di una seria battaglia anche culturale, che nella scuola vuol dire qualità della didattica, del fare scuola, di relazione significativa con chi apprende, di confronto critico ma stringente con i genitori che chiedono o attendono, di apertura verso il nuovo protagonismo delle regioni e degli enti locali.

Vedo un deficit di pluralismo culturale nella scuola della Moratti. Significativa è la vicenda delle «Indicazioni», coperta da un pesante tentativo di fidelizzazione della struttura amministrativa e dirigenziale. La battaglia per il pluralismo culturale è l’unico modo per rispondere e non chiudersi nella certezza dei propri slogan.

Tutto ciò va fatto oggi, anche in presenza dei nuovi vincoli normativi che non condividiamo, lavorando per tenere aperti i processi ma anche per impedire dinamiche involutive. I collegi docenti e le comunità scolastiche non sono aule parlamentari dove uno schieramento possa insultare l’altro; non ci sono un centrodestra e un centrosinistra, ma persone da impegnare in riflessioni rigorose, aperte, propositive, aperte al confronto del pluralismo culturale, senza negare i giudizi sulle politiche e i provvedimenti specifici.

L’autonomia che rivendichiamo non è strumentalmente solo un mezzo di legittima difesa, ma un laboratorio per cercare soluzioni condivise. Dobbiamo seminare oggi questa cultura perché nessun governo, neppure di centrosinistra, sarà in grado di determinare ciò che riguarda i comportamenti individuali e collettivi dei docenti. Per questo dobbiamo essere noi ad animare questa battaglia culturale che va oltre i confini del nostro sindacato ed esige alleanze più vaste del nostro sindacato (con gli altri sindacati confederali certo, ma anche con i movimenti della società civile, i giovani, l’associazionismo professionale, il volontariato, le istituzioni del territorio).

Non è affatto escluso che questo comporti qualche rigorosa critica anche alle nostre politiche, ai nostri ritardi e contraddizioni. Del resto, negli anni Settanta il tempo pieno ci obbligò a discussioni molto importanti sull’organizzazione del lavoro, sulla professionalità dei docenti, ecc. Ma anche di questo abbiamo bisogno per crescere, per ridare senso a un pensiero politico capace di affrontare la complessità del presente e ritessere, attraverso una paziente opera collettiva, le linee di un progetto di società senza il quale la politica si fa muta, allontana da sé le persone. O peggio, prepara i tempi di un ricorrente trasformismo, che è la malattia infantile della politica italiana.