Il declino non basta

Di Giulio Sapelli Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Non si sarebbe immaginato che il dibattito sul declino venisse via via assumendo in Italia un approccio così asfittico e riduzionistico, tutto piegato sull’immediatezza della lotta politica e tra gruppi di interessi o, peggio, sulle esigenze dei mass media. E rivolto, in definitiva, ai dati dell’economia, della bilancia dei pagamenti e delle esportazioni, con un vocabolario tecnico incomprensibile ai più.

 

Non si sarebbe immaginato che il dibattito sul declino venisse via via assumendo in Italia un approccio così asfittico e riduzionistico, tutto piegato sull’immediatezza della lotta politica e tra gruppi di interessi o, peggio, sulle esigenze dei mass media. E rivolto, in definitiva, ai dati dell’economia, della bilancia dei pagamenti e delle esportazioni, con un vocabolario tecnico incomprensibile ai più.

Il problema è che il tema del declino è ormai un leit motiv comune in tutta Europa. E di questo, in Italia, nessuno pare rendersene conto, nell’asfissiante provincialismo che caratterizza coloro che detengono le chiavi di ciò che oggi è divenuta una nuova opinione pubblica: la somma di due o tre giornali quotidiani di area («La Repubblica», «Il Giornale» e «Libero», poiché «Il Corriere della Sera» non pare rappresentare e voler rappresentare più nulla); due o tre trasmissioni televisive (tra cui spicca Porta a Porta) e qualche mito della moderna reificazione del sacro che si avvoltola sull’albero del successo economico. Stando così le cose, non ci si accorge che di declino si parla in tutte le principali nazioni d’Europa e in primis in Francia. Nella douce France il tema inizia ad assumere anche una dignità intellettuale di primo ordine, con il recentissimo libro di Nicolas Baverez, La France qui tombe.1 E altri testi minori si potrebbero evocare e rinvenire, a iniziare da quell’aureo libretto antropologico dei primi anni Novanta,2 in cui si paventava il disparire della borghesia stessa come forma di esserci nel mondo. Di sparizione, ecco, della separatezza sociale aristocratico-borghese che avrebbe dissolto l’ethos della Francia come grande potenza culturale. Questo, del resto, è l’orizzonte in cui ci si dovrebbe orientare allorché riflettiamo sul venir meno delle spinte autopropulsive delle grandi nazioni (così come delle grandi organizzazioni).

In Francia, per esempio, il dibattito parte da lontano e affronta i nodi cruciali di una identità nazionale che non può non fare i conti con due grandi miti durkheimiani. Il primo è quello ingenerato dalla prodigiosa operazione politico-culturale di De Gaulle, su cui Jean Lacouture ha scritto pagine ineguagliabili. La grande sfida lanciata al bipolarismo della guerra fredda. Una sfida che creò in Europa la sola nazione autonoma dai due blocchi, con l’uscita dalla NATO e grazie alla generazione di una deterrenza nucleare che si poneva tous azimuts in contrasto con coloro che pensavano che la fine della tragedia coloniale algerina dovesse coincidere con la fine della Francia grande potenza internazionale. Oggi l’unilateralismo nordamericano e la fredda determinazione di perseguirlo, con quella tenacia furiosa tipica dei neocons, minano le basi stesse di quel disegno, al di là dell’Iraq. Il motivo dominante di tutti i summit, che si susseguono dopo le divisioni sull’Iraq, ha di norma una differenza diplomatica e geostrategica tra Francia e Stati Uniti. Le divisioni tra europei e nordamericani sono le divisioni tra i francesi e i nordamericani. Quelle tra europei ed europei sono le differenze tra i francesi e gli europei. L’orizzonte di un rapporto transatlantico benefico e trascinante dal punto di vista economico e sociale viene meno. E viene meno anche un disegno di ricostruzione di un ordine internazionale che, se certamente non può fare a meno della leadership nordamericana, può tuttavia manifestarsi in vari modi. In primo luogo, scegliendo tra multilateralismo e unilateralismo. Sono due strategie diverse, è vero, ma bisogna scegliere innanzitutto. La crescita economica, di cui abbiamo un disperato bisogno, potrà infatti ripartire solo da un disegno per un nuovo ordine mondiale, che legittimi le gerarchie strategiche ed economiche esistenti sul pianeta attraverso il consenso. Ma la Francia vuole essere attore mondiale e non regionale in questo disegno. Che essa lo sia stata un tempo e non lo sia più ora, e perché ciò sia avvenuto e stia svolgendosi sotto i nostri occhi, è oggetto di discussione storiografica e rimarrà uno dei temi di discussione centrale del futuro. La partita per la Francia è decisiva, perché essa vede dinanzi a lei un paventato e possibile gioco che può essere a somma zero, anche nelle trattative sul commercio mondiale. Tutte le tensioni che si sono verificate in merito alla guerra preventiva in Iraq hanno avuto una immediata ripercussione sul sistema dei rapporti negoziali delle transazioni commerciali. Gli USA sono passati dal multilateralismo – ossia dalla trattativa simultanea con tutti i paesi – a una decisa affermazione del bilateralismo – ossia alla trattativa uno a uno con i singoli Stati europei – cercando di favorire quelli che si sono schierati al loro fianco nella guerra e sfavorendo gli altri. Nel caso di potenze esportatrici, come la Germania e la Francia, le conseguenze sono state e sono assai pesanti. Soprattutto nel caso francese, essendo la Francia, con gli USA, la sola grande esportatrice tanto di prodotti industriali quanto di prodotti agricoli. Se a questo si unisce la tendenza di contare sulla svalutazione del dollaro per favorire la ripresa USA – tendenza che è in primo luogo frutto dei mercati internazionali che penalizzano il dollaro, ma che è anche incoraggiata da settori dell’Amministrazione – ben si comprende come il passaggio dalla guerra, alla politica e all’economia sia rapido e foriero di sconvolgimenti, che iniziano a manifestarsi lentamente, ma che poi, via via, possono assumere aspetti tellurici. Guardiamo all’Asia, per esempio. Qui è in gioco la supremazia mondiale. Mentre i paesi europei non riescono a esprimere una strategia comune verso i grandi interlocutori asiatici, gli USA si presentano dinanzi alla Cina, all’India e al Giappone come il paese che guida il processo di globalizzazione e fa sì che essi ne godano i benefici. L’Europa, dal canto suo, dinanzi a tale processo, risente più delle conseguenze negative che di quelle positive della globalizzazione, proprio per le sue divisioni interne e per il conflitto che i suoi paesi guida manifestano nei confronti degli USA. E questo è dimostrato ogni giorno dalla preoccupazione di essere oggetto e non soggetto, per esempio, di strategie attive di esportazione extraeuropee, a cui gli USA – e prima gli australiani! – hanno già risposto da tempo anticipando una delocalizzazione su larga scala nei paesi asiatici.

La Francia si sente esclusa da questi grandi disegni. La Francia che ha guidato la costruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale con Schumann e Monnet. E che in seguito è stata, invece, la potenza che ne ha impedito la realizzazione piena e precoce, con il veto che pose verso l’ingresso della Gran Bretagna.

Alla base di queste strategie era il secondo grande mito durkheimiano: la superiorità intellettuale, culturale, sapienziale e antropologica, che faceva della lingua e della naturalezza dell’espressione vitale francese un modello di dominio dell’essere sociale. Oggi è quella Francia a essere in declino. È questo l’orizzonte del dibattito francese. Ed è altresì vero che su questo punto solo la vecchia guardia gaullista pone l’accento con drammaticità e autenticità, mentre impressionante è il disfacimento civile e intellettuale tanto del socialismo quanto della destra chirachiana. Tutto, da questa crisi di identità, in senso braudeliano (L’identitè de la France è la sua ultima incompiuta opera...) di lì si dipana e si svolge. La France qui tombe, cade come cadde la Spagna al termine dell’Ottocento, quando perdette Cuba e dovette definitivamente ridimensionare le sue pulsioni imperiali? È una somiglianza solo apparente. Allora in Spagna si generò il mito restauratore e rigeneratore che infiammò intellettuali e classi medie, sino alla guerra civile. Il declino non si arrestò e il dominio, da mondiale e imperiale, divenne regionale, ma con una irreversibilità foriera di fermenti culturali e spirituali che non finiscono ancor oggi di affascinarci e di incuriosirci per gli straordinari processi culturali a cui diedero vita.

La Francia oggi decade, invece, intisichendosi, in una dimensione nazionalistica e nel lento disfacimento della sua classe dirigente, del suo establishment. Dove sono i Camus, i Sartre, i Merlau Ponty, gli Aron? L’establishment è qui inteso secondo la definizione che ne dette Henry Fairly in una serie di articoli su «The Spectator», agli inizi degli anni Cinquanta, e che andrebbero ricercati e ripubblicati per il vigore analitico che li sovradeterminava! Conservo ancora la scheda che ne feci a mano nella library della London School tra una lezione e l’altra: «An interlocking series of political, civil service, corporate and cultural elites based largely on men of common background, education and service». Come si potrebbe pensare e scrivere meglio? Ecco l’establishment.

Il formidabile reticolo costituito dall’ENA – fondata solo nel 1945, va ricordato! – si va via via sfarinando. Raffarin e la sua ascesa ne sono un esempio, unitamente al declino di «Le Monde». Un libro come quello edito recentemente3 sulle faide interne al santuario della èlite nazionale sarebbe stato un tempo impensabile! Ed è altrettanto emblematico che oggi sia «Le Monde» a pubblicare settimanalmente un inserto del «New York Times». La deregolazione, la globalizzazione, l’avvento dell’inglese come lingua internazionale pongono le basi per una riduzione delle ambizioni mondialiste francesi, che si riflettono nel decadimento del meccanismo di selezione delle èlite.

Ciò che viene meno è la segretezza e la legge dei piccoli numeri, che dominavano un tempo sulla legge della pubblica opinione e dei grandi numeri. Quella segretezza e quella legge erano portatori di esiti straordinari quanto a gestione della macchina dello Stato e della politica mondiale. Oggi tutto è sulla bocca di tutti e quindi la grande potenza della ragion di Stato, anche in Francia, non può che decadere.

La perdita di identità culturale è profondissima, abissale e darà luogo a una diffusa anomia tra le classi medie che non potrà che produrre i mostri culturali del nazionalismo xenofobo. In fondo, la stessa recente legge antiliberale sul velo e su tutti i simboli religiosi ostentati nel processo di socializzazione educativo – anche se ha avuto una prima applicazione assai più pragmatica e souple quanto non si pensasse – va già in questo senso.

Di grandissimo interesse è altresì il dibattito che sullo stesso tema del declino si sta svolgendo in Gran Bretagna. La Gran Bretagna è stata, è e rimane, da secoli, un paese transatlantico, con una vocazione internazionale globale piuttosto che continentale. E fonda su queste basi il suo tanto discusso rapporto preferenziale con gli USA, al di là di come esso possa concretamente manifestarsi di volta in volta.

Il declino non può che definirsi, dunque, secondo una prospettiva internazionale. E questa prospettiva è incredibilmente pervasiva. Alcuni anni or sono Michael Eve aveva, infatti, giustamente affermato: «Il declino come tema generale (...) riveste una importanza notevole nella vita politica inglese contemporanea, nonché nel modo in cui gli inglesi percepiscono se stessi e gli altri. È (...) il declino nel suo complesso, più che la semplice perdita delle colonie, a costituire una possibile chiave di interpretazione ».4 Questa forma di declino è stato un lungo, penoso processo. Iniziato di già dopo il 1945, nonostante una guerra combattuta con un eroismo di massa senza pari e un’egemonia imperiale più che imperialistica che non ha più avuto eguali, dalla Manica al Borneo. Perry Anderson ha recentemente definito questo declino in modo icasticamente concludente: «The realities of financial dependency on Washington, austerity at home and imperial retreat abroad».5 Un processo che investe l’intera nazione, dal punto di vista intellettuale e culturale, quando il sistema politico registra il più colossale cambiamento forse mai avvenuto nella storia del Regno Unito nel Novecento: lo spostamento del suo centro di gravità dal partito conservatore inteso come un’istitituzione della classe dirigente, o meglio, dell’establishment, al partito conservatore inteso come strumento di mobilitazione sociale delle nuove classi medie di un Regno Unito deindustrializzato ed emblema della società dei servizi finanziari: il sogno realizzato della signora Thatcher. Un sogno che era una forma di risposta al declino, ma sempre in quelle coordinate prima ricordate nella citazione da Anderson. Ed è precisamente il disgregarsi della politica come istituzione e come riproduzione ordinata dell’establishment a essere oggi al centro della riflessione inglese sul declino:6 questo filone è tutto correlato con l’incapacità resa manifesta, secondo i pensatori come Marquand, di porsi nei confronti della globalizzazione in modo spregiudicatamente critico e autonomo, ripensando i valori della nazione e riattualizzandoli nel nuovo contesto. La globalizzazione è l’iron cage in cui secondo Marquand anche Blair, anzi soprattutto Blair, si è lasciato imprigionare, nonostante il suo transatlantico orizzonte. Ma questo orizzonte non è stato in grado di mantenere, al meno sul fronte dei valori culturali, un’indipendenza che si ritiene indispensabile per la riproducibilità del pluralismo britannico. Esso si fonda, appunto, sulle «pubbliche virtù» piuttosto che sulla subalternità al mercato nordamericano. Il «blairismo», da questo punto di vista, è il momento di massima caduta del declino, inteso come ritirarsi esplicito dalla difesa delle pubbliche virtù e dagli ideali delle libertà civili per rifugiarsi, invece, in un individualismo neo-liberista estraneo alla tradizione liberale britannica. Essa si è sempre fondata sulla razionalità e sulla relazionalità di una sfera pubblica che consentiva la riproduzione dell’etica del civil servant e della democrazia nel mercato. I mantra della scelta individualistica, del mercato senza regole, dell’arricchimento personale, hanno consentito la distruzione dell’indipendenza di giudizio professionale e delle comunità accademiche. Si tratta di un mutamento della costituzione materiale del Regno Unito. La sfera di autonomia del potere esecutivo, che è sempre stata alla base della storica costituzione materiale e immateriale, si è infranta a fronte di una nuova forma di centralismo populistico, che secondo i critici come Marquand accomuna Blair alla Thatcher senza fondamentali distinzioni, almeno su questo punto.

Ma questo ha provocato un vuoto di potere che non è mai stato colmato, se non con la retorica e con il timido e recente ritorno a una nuova forma di legittimazione della sfera pubblica. Legittimazione che dovrebbe porre rimedio alla povertà crescente e al degrado altrimenti irreversibile del welfare state, essenza dell’antica costituzione materiale. Il tema del vuoto di potere e della non ancora avvenuta riproduzione di una rete di sostegno decisionale al nuovo assetto della costituzione materiale medesima è al centro della riflessione dell’ultimo lavoro di Anthony Sampson.7

Per Sampson il nuovo volto del potere è quello che potrebbe definirsi, allo stato ancora gassoso, il potere di una «nuova classe di mercato».8 Grazie a essa il governo della cosa pubblica si è via via trasformato in una sorta di masters of the marketplace. I protagonisti sono i top manager delle corporations, delle grandi banche, dei mass media e di tutto quel mondo della circolazione monetaria che fonda una nuova opinione pubblica che non ha più una morale di sostegno del mercato che non sia l’arricchimento individuale senza ritegno e freni inibitori: «The values of public interst and public service have been eroded by the emphasis on individual competition».

È impressionante assistere alla nascita di un nuovo anticapitalismo tradizionalistico nel cuore dell’internazionalizzazione del capitalismo che si è dispiegato sotto le vesti della finanziarizzazione. Ed è altresì impressionante comprendere come questo nuovo anticapitalismo sia imbevuto di una fortissima nostalgia per ciò che non può più ritornare. Si piange, infatti, per la perdita dell’autonomia nazionale. E in Sampson questa nostalgia è fortissima (ed è ciò che fa la differenza con il suo precedente libro).

Il declino del Regno Unito diviene, dunque, molto più del declino economico. Un declino dello spirito pubblico e della consolidata costituzione materiale che riproduceva il pluralismo prima della globalizzazione. Una forma di pensiero, una forma di esserci nel mondo non diverso da quello che vediamo emerge in Francia, sebbene tra i galli vi siano più pesanti venature nazionalistico-xenofobe che in Gran Bretagna, fortunatamente, non si manifestano. Anche in Francia, in ogni caso, il declino dello spirito pubblico è al centro della riflessione anche con interessanti risultati analitici, come il recente studio di Jean Garrigues,9 dove l’accento è posto non tanto sul processo criminale in sé, ma sull’uso della sua pubblica comunicazione e della sua visibilità, che diviene arma di lotta tra gruppi e tra clan, tra partiti e tra settori dei partiti.

In questo contesto è impressionante il silenzio tedesco. La Germania, che pure è colpita da un ridimensionamento della sua potenzialità economica senza pari, non vede svilupparsi al suo interno una discussione su un qualsivoglia declino. Anche se segni eloquenti di smarrimento, di anomia, si fanno sentire, soprattutto dopo l’unificazione. L’antropologia ne ha registrato la fenomenologia con ricerche di grande interesse, tra cui spicca ancora quella di John Boreman,10 che poneva l’accento sull’esistenza di due nazioni distinte e sulla difficilissima opera di riunificazione culturale in cui occorreva impegnarsi per una nuova Germania, più che per una nuova Berlino. Ma questa nuova Germania non poteva e non può rimpiangere alcunché, pena la caduta nel tabù di un passato dolorosissimo e sino a vent’anni or sono, prima di Willy Brandt in ginocchio dinanzi alle vittime del nazismo, un tabù pericoloso per la salute psichica della nazione come l’incesto lo è per quella soggettiva e familiare. Chi e che cosa si può rimpiangere, in Germania? Il passato nazista? Il fallimento di Weimar? Erhard e Adenauer? Non sono simboli sufficienti per la memoria e la collettiva anamnesi di una nazione che voglia interrogarsi sulla consunzione dei suoi primati. È meglio costruire sul debito pubblico immensi grattacieli nella piazza di Berlino che deve distruggerla, invece, la memoria della Germania stalinista e del Muro. E non rinnovarla, la memoria, salvo che per quanto meritoriamente si è fatto per l’olocausto, la cui terribile realtà è talmente agghiacciante che può essere ricordato. Ma non rimpianto. È una dimensione senza declino perché non ha profondità, tanto immensa è la vertigine.

L’Italia ha una discussione sul declino da operetta. Come sempre è stato, del resto, per ogni rimemorazione della nostra storia nazionale. Anche mentre la si costruiva come operazione di comunicazione mitologica. Basti pensare ai cantori dell’identità nazionale della tarda unificazione italiana e tedesca (chi legge più Po und Reno di Frederich Engels, dove tutto sta già scritto, per comprendere i termini della comparazione?): Verdi da un lato, Wagner dall’altro, per intendere quanto voglio dire senza perdermi in troppe circonlocuzioni.

Più di dieci anni or sono scrissi un libricino intitolato Sul capitalismo italiano. Trasformazione o declino,11 dove l’accento era posto – sulla scia dei maestri Machiavelli e Leopardi – sulla trasformazione economica e sul declino culturale e isituzionale nella decrittazione della costituzione materiale di un paese che non riusciva a divenire nazione, prima che di un’industria che non riusciva a rimanere grande nell’avvio dell’internazionalizzazione dispiegata, che poi si sarebbe chiamata «globalizzazione». Era questa, a parer mio, la pista da seguire. Ma occorreva sfatare un mito essenziale per comprendere tanto la vera dimensione e natura del declino, dove e se esiste, quanto la sua natura e le responsabilità del medesimo.

E qui bisogna ricorrere sì all’economia, ma con un’indipendenza di giudizio e un coraggio che pochissimi hanno. E quei pochissimi occorre allora udirli. Ascoltiamo: «Sono (...) molti gli elementi che suggeriscono che il declino [economico] (...) affondi le sue radici perlomeno negli anni Ottanta (e non negli anni Novanta)». E ancora: «Il declino del tasso di crescita della produttività rimane (...) inconfutabile (...) [Ma] il declino, nella misura in cui si è verificato, non comincia negli anni Novanta. Anzi, proprio negli anni Novanta, vengono avviate quelle riforme – dal risanamento fiscale alla liberalizzazione del mercato del lavoro, alle privatizzazioni, all’istituzione di autorità indipendenti con compiti di regolazione dei mercati dei beni e dei servizi – che, se perseguite sino in fondo, possono contribuire al rilancio dell’economia italiana. Rimane il fatto che i cambiamenti dell’economia internazionale, e in particolare la progressiva erosione del vantaggio comparato italiano nei settori tradizionali, rendono improrogabile un’azione di politica economica di lungo respiro che affronti i nodi strutturali dell’economia italiana». Cito dal bellissimo saggio di Riccardo Faini, Fu vero declino? L’Italia negli anni ‘90,12 che ha il merito di porre la questione nei suoi veri termini: il collegamento tra azione istituzionale e performances economiche nazionali; la sottolineatura delle ragioni strutturali di lungo periodo – almeno trentennali – che pongono le basi della caduta della produttività che è la vera fonte del declino economico e che si collega a ragioni demografiche e, appunto, istituzionali; la giusta periodizzazione.

Il tema della periodizzazione è cruciale e consente di liberarsi dalla subalternità alle forze culturali, politiche ed economiche che hanno provocato con la loro ignavia le cause strutturali e culturali del declino e che poi hanno convissuto con le stesse forze che si sono trovate al governo negli anni Novanta, senza avere le stesse responsabilità delle forze prima evocate. Anzi, essendo da queste imbrigliate e ostacolate nell’opera di riforma, di risanamento, di compimento delle riforme.

Qui occorre scavare e studiare senza condizionamenti e pregiudizi politici ed economici e non limitarsi alla lamentosa «predicazione declinante».

E, infine, occorrerebbe riflettere altresì sulle dimensioni internazionali della nuova stagione italiana che si è recentemente aperta. Il ruolo tradizionalmente svolto dall’Italia nel Mediterraneo non è stato affatto secondario o subalterno, per cinquanta e più anni, sino all’inizio del nuovo secolo. La strategia di approvvigionamento energetico ha avuto riflessi profondi anche sulla politica estera, quando non l’ha profondamente influenzata e condizionata, come iniziano a dimostrare, per esempio, alcuni studi accademici e alcune testimonianze culturali di notevole livello intellettuale, come quella recentissima di Franco Briatico.13 Essa si misura proprio su questi temi, a partire dall’affascinante storia dell’ENI. È questo ruolo diplomatico di ampio respiro, che neppure i tempi più duri della guerra fredda hanno incrinato, che occorre ricordare per comparare e riflettere. Ed è con tale ruolo che bisogna misurarsi per comparare, ripetiamolo, l’oggi con il ieri. Quel ruolo poté essere perseguito grazie a grandi personalità come Alberto Pirelli, Enrico Mattei e Aldo Moro (che ha pagato con la vita anche quel ruolo di indipendenza e di autonomia che volle dare all’Italia in una dimensione di media potenza regionale) e a personalità di indubbio rilievo culturale e politico come Giulio Andreotti, anch’egli sottoposto a dure prove anche per ragioni che hanno diretti e immediati riferimenti al ruolo svolto dall’Italia in politica estera. L’atteggiamento recentemente assunto nei confronti dell’unilateralismo nordamericano (si ricordi quanto affermato all’inizio di questo saggio) ha declassato l’Italia da media potenza regionale a potenza priva di capacità di movimento e di relazione autonoma con gli interlocutori mediorientali e con il grande protagonista della lotta secolare per il controllo dei mari caldi: ciò che un tempo era l’URSS e che è ora la Russia postsovietica, indebolita, sì, ma che non pare rassegnata a un ruolo subalterno.

Anche di questi temi, così come si fa in Francia e in Gran Bretagna, ciò che rimane dell’Italia, dilacerata e dilaniata nell’ordinamento giuridico unitario dello Stato, meriterebbe osservazione e analisi, prima di pronunciarsi in modo definitivo e così tanto superficiale come correntemente si usa fare, sul declino.

Da questo punto di vista la riflessione sulle classi dirigenti, già evocata in altra sede, e in particolare quella di Faini,14 è un elemento cruciale di ragionamento, su cui occorre impegnarsi con forza. Anche in Italia essa deve divenire, ancora seguendo l’esempio francese e inglese, uno degli elementi di forza del dibattito in corso.

 

 

 

Bibliografia

1 N. Baverez, La France qui tombe, Perrin, Parigi 2004.

2 B. Le Vita, French Bourgeois Culture, Cambridge University Press-Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Parigi 1994.

3 P. Pèan e P. Cohen, La face cachè du «Monde». Du contre-pouvoir aux abus de pouvoir, Mille et Un Nuits, Parigi 2003.

4 M. Eve, Dentro la Gran Bretagna. Ragioni e miti di un’ identità, Marsilio, Venezia 1990, p. 120.

5 P. Anderson, Degringolade, in «London Review of Books», 2 settembre 2004, p. 3.

6 Si veda il testo interessantissimo di David Marquand, Decline of the Public, Polity Press, Cambridge 2004. Da notare che Marquand non è una figura qualsiasi: esponente di spicco e membro del parlamento del Labour Party, è stato capo di gabinetto di Roy Jenkins alla CEE, dopo esser stato tra i fondatori del Social Democratic Party. La sua attività accademica è stata brillante ed esemplare, a Sheffield e a Oxford, secondo i canoni della più sperimentata carriera della consolidata classe dirigente prethatcheriana, prima dell’arrivo dei «droghieri» al potere politico.

7 A. Sampson, Who Run this Place?, John Murray, Londra 2004. Il testo appare circa quarant’anni dopo il suo famosissimo Anatomy of Britain.

8 Un’analoga definizione avevo usato in G. Sapelli, L’Italia di fine secolo, Marsilio, Venezia 1998.

9 J. Garrigues, Les scandales de la Répubblique. De Panama a l’affaire ELF, Robert Laffont, Parigi 2004.

10 J. Boreman, Belonging in the Two Berlin. Kin, State, Nation, Cambridge University Press, Cambridge 1992.

11 Sapelli, Sul capitalismo italiano. Trasformazione o declino, Feltrinelli, Milano 1993.

12 R. Faini, Fu vero declino? L’Italia negli anni ‘90, in G. Toniolo e V. Visco (a cura di), Il declino economico dell’Italia. Cause e rimedi, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 56 e p. 77.

13 F. Briatico, Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia, Il Mulino, Bologna 2004.

14 Faini, Elite e destino italiano, in Toniolo e Visco (a cura di) cit., pp. 81-94.