L'Europa e il lavoro

Di Carmelo Scaramuzzino Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

Il prolungato rallentamento della crescita economica ha determinato in Europa, negli ultimi tempi, risultati complessivamente non favorevoli all’occupazione, in un contesto abbastanza diversificato tra gli Stati. Le nuove situazioni e le nuove prospettive dell’economia mondiale hanno indotto la Comunità europea, soprattutto nel 2003, nella prospettiva dell’allargamento e in sintonia con i risultati del lavoro della Convenzione per la stesura della nuova Costituzione, ad apportare importanti modifiche alla propria strategia per il lavoro e l’occupazione. L’UE, in sostanza, ha dovuto effettuare una sensibile correzione di rotta rispetto a un cammino faticoso, caratterizzato dalla difficoltà a mantenere quel ritmo espansivo necessario per il conseguimento degli obiettivi che erano stati prefissati nei vertici di fine secolo.

Il prolungato rallentamento della crescita economica ha determinato in Europa, negli ultimi tempi, risultati complessivamente non favorevoli all’occupazione, in un contesto abbastanza diversificato tra gli Stati. Le nuove situazioni e le nuove prospettive dell’economia mondiale hanno indotto la Comunità europea, soprattutto nel 2003, nella prospettiva dell’allargamento e in sintonia con i risultati del lavoro della Convenzione per la stesura della nuova Costituzione, ad apportare importanti modifiche alla propria strategia per il lavoro e l’occupazione.

L’UE, in sostanza, ha dovuto effettuare una sensibile correzione di rotta rispetto a un cammino faticoso, caratterizzato dalla difficoltà a mantenere quel ritmo espansivo necessario per il conseguimento degli obiettivi che erano stati prefissati nei vertici di fine secolo.

L’evoluzione delle politiche del lavoro è legata alla storia della Comunità europea, segnata da due processi tra loro simultanei che hanno influito con particolare intensità su tutto il processo di integrazione europea. Da un lato, la rinascita, su rinnovate basi democratiche, dello Stato nazionale come Stato sociale. Dall’altro, la partecipazione degli Stati membri alla ricostruzione, a definitivo superamento delle chiusure nazionalistiche che avevano funestato il periodo tra le due guerre. Processi che hanno trovato il loro momento di sintesi prima nella costruzione della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e più tardi della CEE (Comunità economica europea).

L’integrazione graduale delle economie dei sei Stati membri originari rispose alla prioritaria esigenza della ricostruzione degli Stati nazionali e si mantenne funzionale a quel difficile e delicato processo di rinascita. Il processo di integrazione fu nella sua essenza una scelta nazionale. Fu un accordo tra paesi deboli per guidare i processi di apertura economica, governandone gli effetti sociali e politici attraverso l’identificazione di un sentiero di «aggiustamento progressivo», basato sì sulla edificazione di un nuovo tipo di istituzione sovranazionale, ma nel quale la messa in comune di quote pur significative e via via crescenti di sovranità era, in realtà, strumentale alla riaffermazione del determinante ruolo economico e politico dello Stato e dell’interesse nazionale.

La costituzione di un forte mercato transnazionale europeo avrebbe aperto e integrato le economie dei paesi membri senza creare alcuna minaccia alle «sovranità sociali», che avrebbero potuto anzi contare sui benèfici effetti dell’armonizzazione spontanea e progressiva dei sistemi sociali. O, quantomeno, sul maggior dividendo fiscale derivante dalla creazione di un mercato comune. Purtroppo, nella storia dell’integrazione europea la gestione territoriale e nazionale delle problematiche sociali è stata, seppur in momenti differenti e per differenti motivi, funzionale all’affermazione della sovranità nazionale. In tale prospettiva, è facilmente comprensibile come gli unici diritti sociali da garantire espressamente a livello sovranazionale, quasi «a servizio» dell’effettivo godimento delle libertà economiche garantite dal Trattato di Roma, fossero quelli strettamente utili alla creazione di un mercato integrato di cui all’articolo 48 (ora 39) e seguenti.

L’intera costruzione comunitaria, dunque, fu in realtà diretta a ricostruire, in un ordine interno e internazionale nuovo, le precondizioni economiche per il pieno ed effettivo godimento, nei singoli ordinamenti nazionali, dei diritti sociali, politici e civili fondamentali.

In questo contesto le politiche sociali hanno occupato uno spazio storicamente residuale nel processo di integrazione comunitaria. L’Europa sociale è stata, sino almeno alla fine degli anni Settanta, un’idea debole o quantomeno marginale rispetto alla dinamica dell’integrazione nel suo complesso.

Il Trattato CEE del 1957 prevedeva una agenda sociale piuttosto limitata, che non scalfiva in alcun modo il monopolio normativo degli Stati nazionali in materia di politiche sociali. Alle istituzioni europee spettavano semplici funzioni di promozione della cooperazione interstatale, attorno a un ridotto ventaglio di politiche sociali. Inoltre, l’attuazione concreta delle iniziative sociali comunitarie era sottoposta a un doppio limite istituzionale: la procedura di consultazione, che limitava il ruolo del Parlamento europeo, e la regola dell’unanimità, che riduceva evidentemente i margini di negoziazione.

Tra il 1958 e il 1972, si registra un interesse assai debole verso la politica sociale. La creazione del Fondo sociale europeo (FSE), introdotto dal Trattato CEE come strumento finanziario per la politica sociale, e la sua prima regolamentazione (1960-71), rappresentano forse l’unica incursione di una certa rilevanza della Comunità sul terreno sociale.

I primi significativi mutamenti nella politica sociale comunitaria si notano durante il vertice di Parigi del 1972. I capi di Stato e di governo decidono di presentare alla Commissione il disegno di un Programma di azione sociale per il periodo 1973-80. Le posizioni dei governi a guida socialdemocratica degli anni Settanta in Germania Ovest (Brandt-Schmidt) e Regno Unito (Wilson-Callaghan) prevalgono nell’arena politica europea sulla ancora debole strategia neo-liberale. Le istituzioni comunitarie articolano politiche relative a quattro ambiti: programma di azione contro la povertà; direttive sulla salute sul luogo di lavoro e sulla protezione dei lavoratori; direttive di base sulla parità uomo/donna (salario, condizioni di lavoro, protezione sociale); regolamento del FSE.

La successiva creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), nel 1975, genera una prima confluenza delle azioni sociali regionali europee, come anticipazione di quella che, a partire dall’Atto Unico europeo (1987), sarà la strategia di coesione. Con esso, infatti, si ha lo stravolgimento dell’impostazione del Trattato di Roma (criterio di unanimità) e l’introduzione della procedura di cooperazione nell’adozione degli atti comunitari in ambito sociale.

Va ricordato in ultimo come la politica di coesione fosse la principale trama sottostante al processo di integrazione anche e soprattutto in chiave macroeconomica, laddove era già partita la volata verso Maastricht e con essa la grande sfida della moneta unica e della armonizzazione del rapporto deficit/PIL, nodo cruciale della dottrina di riassetto dei conti pubblici dei paesi membri.

Dal punto di vista strettamente normativo, le pur importanti novità introdotte dall’Atto Unico europeo non bastano a disegnare la nuova mappa dei diritti sociali comunitari. Tuttavia, a livello simbolico si producono importanti e rapidi cambiamenti.

Il valore simbolico e programmatico di quelle innovazioni si riflette, nel 1989, nell’appoggio di tutti i paesi membri (a eccezione del Regno Unito), alla Carta sociale europea. La Carta presenta una concezione della politica sociale europea di taglio marcatamente laburista e sembra essere il primo documento ufficiale a rispondere in termini non universalistici o «continentali» alle nuove esigenze di flessibilità delle reti di protezione, in una stagione del tutto nuova per il mercato del lavoro europeo.

Il passaggio al piano programmatico, seguito al piano simbolico rappresentato dalla Carta, non è privo di conseguenze pratiche e di risultati. Da una parte, disegna una prima profonda riforma dei Fondi strutturali, fondamento della politica di coesione inaugurata dall’Atto Unico europeo. Dall’altra, si formula il Programma di azione sociale 1989-94, programma quadro della Commissione basato sugli impegni assunti con la Carta sociale, e si individuano ulteriori settori di intervento attraverso nuove direttive, provvedimenti non vincolanti e programmi di azioni settoriali. Gli interventi e l’azione sociale dell’Unione europea, realizzati nell’ambito del Programma di azione sociale 1989, diventano il punto di partenza del processo di riflessione strategica che conduce al Libro bianco sulla politica sociale europea, approvato nel 1993.

Inoltre, nell’immediato dopo-Maastricht emergono due ulteriori prospettive evolutive e di sviluppo della dimensione sociale dell’Unione. Da un lato, l’approvazione nel 1993 del Libro bianco su Crescita, competitività e innovazione, che esprime il riconoscimento dell’insuccesso delle politiche neoliberali adottate verso la metà degli anni Ottanta in materia occupazionale. Le raccomandazioni del testo circa la necessità di dotare di una dimensione comunitaria le strategie per la creazione di nuovi posti di lavoro, infatti, sono accolte dal Consiglio europeo di Essen alla fine del 1994. È in quella occasione che per la prima volta fu presentata una timida strategia europea di promozione dell’occupazione. Dall’altro lato, l’ampliamento nel 1994 dei Fondi strutturali segna un ulteriore sviluppo della politica di coesione, con una generale riformulazione degli obiettivi e delle iniziative comunitarie. Il Libro bianco sarà, a sua volta, fondamentale punto di riferimento per le nuove linee di azione previste dal Programma triennale 1995-97.

La riforma del Trattato dell’Unione europea, promossa nel 1996-97 dalla Conferenza intergovernativa, conduce al compimento di ulteriori passi in avanti in materia sociale. L’inserimento nel Trattato di un titolo sull’occupazione stabilizza e attribuisce maggior spessore a gran parte della prassi elaborata a partire dal Consiglio europeo di Essen, facendo della promozione dell’occupazione uno dei nuovi assi di articolazione della dimensione sociale dell’Unione e consentendo una convergenza delle nuove strategie occupazionali comunitarie nel nuovo Programma di azione sociale 1998-2000.

Il Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), tra gli eventi più significativi in materia di politiche per l’occupazione, individuerà un nuovo gruppo di sfide per l’Europa, al fine di divenire «l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale». Ma al vertice di Nizza del 7-9 dicembre 2000 i capi di Stato e di governo dovranno ammettere che l’Europa intergovernativa aveva esaurito la possibilità di progredire con le istituzioni del momento e proveranno ad andare oltre, senza comunque arrivare al passo decisivo, in assenza di una forte spinta dal basso delle forze del lavoro e della società civile. Il Consiglio europeo di Nizza ha approvato, a conclusione dei suoi lavori, anche l’Agenda sociale europea (oltre ad aver proceduto alla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione).

Obiettivo duplice del documento programmatico delle attività comunitarie per il periodo 2000-2005 è quello di potenziare il ruolo della politica sociale come fattore di competitività e, parallelamente, permetterle di essere efficace nel perseguimento delle finalità che le sono proprie in materia di tutela dell’individuo, riduzione delle ineguaglianze e coesione sociale.

L’Agenda sociale europea fa parte dell’approccio europeo integrato per il rinnovamento economico e sociale delineato a Lisbona. In particolare, l’Agenda mira a garantire una sinergia positiva e dinamica tra le politiche economiche, occupazionali e sociali. Essa rappresenta probabilmente il primo tentativo di rispondere con le politiche sociali dell’Unione ai nuovi problemi in materia di mercato del lavoro. La nuova parola d’ordine dell’Agenda sembra essere quella dell’equilibrio tra occupazione, tutele e coesione sociale.

Questa esigenza, da un lato di modernizzare le tradizionali reti di tutela degli individui, dall’altro di «comunitarizzare» queste problematiche, nasce dalla volontà di accompagnare i cambiamenti produttivi e sociali che hanno caratterizzato la storia recente dei paesi dell’Unione. È in riferimento a tali esigenze che, nell’aprile 2003, l’Unione ha adottato la raccomandazione per «l’aggiornamento degli indirizzi di massima per le politiche economiche» in prospettiva dell’allargamento, in modo da realizzare l’integrazione dei nuovi Stati membri nel quadro esistente di coordinamento delle politiche economiche. Fondando ciò sul presupposto che nei quindici Stati membri fosse in atto il processo di attuazione della raccomandazione. In realtà le cose non stavano così: ne è un esempio l’Italia, dove da circa due anni, pur con un andamento disomogeneo, stava andando a regime la cosiddetta «legge Treu», volta, dopo il richiamo all’ordine dell’UE, a favorire le politiche dell’occupazione. Com’è noto, l’attuazione della legge Treu è stata interrotta dall’approvazione di una nuova legge (la cosiddetta «legge Biagi»), che introduce dosi massicce di incertezza nel mercato del lavoro, in una fase molto delicata di trasformazione del sistema, e liberalizza in modo irragionevole i soggetti e le sedi di governo del mercato del lavoro.

La proposta di Costituzione europea (dicembre 2003) poi varata, con modifiche, in occasione del vertice intergovernativo di Bruxelles del giugno 2004, e firmata a Roma lo scorso ottobre, rappresenta la tappa ultima del processo evolutivo europeo.

La Convenzione sul futuro dell’Europa, appositamente costituita per il riassetto dell’architettura costituzionale dell’Unione, tuttavia, non ha affrontato con la dovuta attenzione il tema del modello sociale e il rapporto tra esso e i diritti che stanno nella Carta di Nizza. La questione è di interesse fondamentale per i lavoratori, ma anche per gli imprenditori e i cittadini in generale. Rimane quindi incompiuto il cammino che deve portare al riconoscimento del giusto ruolo alle parti sociali; e che deve altresì condurre all’accettazione e al sostegno, a livello europeo, di un sistema di relazioni sulle problematiche del lavoro basato sulla concertazione, complementare a quello nazionale, che affronti la contrattazione, l’armonizzazione delle condizioni di lavoro, le garanzie sociali.

In questa direzione, già nel 1983 la relazione Albert-Ball, redatta per conto del «Gruppo per il rilancio europeo», conteneva una constatazione e una proposta. La constatazione era che «il principale ostacolo alla crescita economica dei paesi europei è quello che va designato con la “non-Europa”». La proposta era poi così formulata: «La Comunità dispone di tutti i mezzi necessari per avviare una strategia europea per una ripresa duratura della crescita e dell’occupazione nella stabilità: mettere in atto questi mezzi è relativamente agevole, con una sola riserva, quella che un insieme sufficiente di forze politiche economiche e sociali identifichi chiaramente il proprio comune interesse».

A distanza di un ventennio la legislazione comunitaria sembra ancora poco incisiva in materia di precarietà e vulnerabilità sociale. Non si scorgono purtroppo, al di là di lodevolissime dichiarazioni di intenti, reali strumenti legislativi tesi a minimizzare l’insicurezza e la precarietà dei cittadini europei e a massimizzare le loro opportunità. Inoltre, l’allargamento a Est dell’Unione europea impone una nuova e vigorosa accelerazione della politica della coesione e dei Fondi strutturali: disomogeneità dei sistemi produttivi e del mercato del lavoro dei paesi dell’Est europeo riproporranno quella «cesura» che già per tutto l’arco della sua vita aveva interessato l’Unione spostando però l’asse della frattura da Nord-Sud a Est-Ovest.

Pare dunque profilarsi nel prossimo futuro una rifocalizzazione sulle politiche sociali, intese come finanziamenti a singole aree depresse (FESR e aree-obiettivo), più che alla costruzione di una «rete sovranazionale europea delle tutele».

La riunificazione dell’Europa è un grande disegno politico. L’allargamento è un investimento sul futuro.

Nel corso del processo di integrazione si sono creati in Europa strumenti di controllo pubblico sulle scelte economiche, volti a conciliare le regole della concorrenza con i diritti sociali e quindi con lo sguardo rivolto alla salvaguardia della coesione sociale. Questa particolarità dell’Europa va difesa anche con l’allargamento, anche perché può diventare un punto di riferimento per la discussione che si è aperta nel mondo sul controllo politico della globalizzazione e sulla necessità di un governo economico mondiale.

Pur rifuggendo da qualsiasi forma di banalizzazione della densa e articolata dialettica circa il futuro delle politiche comunitarie, e agendo nella consapevolezza che l’Unione europea costituisca un unicum nella storia mondiale, sarebbe possibile provare a ipotizzare uno scenario di governo dei nuovi fenomeni sociali e produttivi, palesatisi in tutta la loro evidenza nel corso di questi ultimi anni, che passi attraverso una forte politica di coesione sociale a carattere comunitario con i necessari adeguamenti della Carta sociale europea.

Sino ad ora l’Unione, per evidenti ragioni politiche, ha sempre optato per finanziamenti relativi a singoli progetti o al massimo circoscritti a categorie limitate di soggetti (imprenditorialità giovanile), ma questi non si sono mai connotati come vere e proprie politiche welfaristiche. Un’armonizzazione della legislazione in materia sociale, assieme a politiche di sostegno su scala continentale tra i diversi paesi, non può dunque che essere una condizione essenziale per la realizzazione di quella piena mobilità sociale e lavorativa dei cittadini europei che nelle condizioni attuali rischia di essere frenata nel suo svilupparsi dall’incertezza per i lavoratori, derivante dalla disomogeneità delle legislazioni in materia di lavoro e protezione sociale.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di riprodurre su scala continentale il modello di welfare inclusivo da sempre patrimonio condiviso dei paesi europei, ma in una nuova ottica che tenga presente il mutato contesto sia dal punto di vista macroeconomico (nuove disponibilità di bilancio), sia dal punto di vista sociale (nuove disuguaglianze), sia ancora dal punto di vista politico (estensione delle prerogative di sovranità in materia di politiche sociali).

La consapevolezza di un’esigenza contestuale di modernizzazione e omogeneizzazione delle politiche sociali porta direttamente alla «costituzionalizzazione su base comunitaria dei diritti sociali». Il compromesso sociale nato sulle ceneri del secondo conflitto mondiale ed entrato in crisi sul finire degli anni Settanta non ha trovato una rideclinazione che rispondesse a criteri di efficacia e di efficienza. Se la costituzionalizzazione dei diritti di terza generazione da parte degli Stati nazionali ha assolto una funzione di legittimazione delle nuove democrazie, oggi il nuovo paradigma di questi diritti di cittadinanza non può che avere una dimensione comunitaria.

Tuttavia, la strada verso questa duplice evoluzione delle politiche sociali, che veda da un lato la loro codificazione come diritti costituzionalmente riconosciuti e dall’altra la loro effettiva realizzazione tramite interventi di «politica pubblica europea», sembra ancora in salita. Queste difficoltà sono frutto dell’assenza di legittimazione politica piena da parte degli organi comunitari.

Gli interventi sociali sono infatti dipendenti dalle scelte dei governi eletti dai cittadini sulla base di un programma. Il consenso dei cittadini è il veicolo per l’esercizio dell’azione di governo e le scelte in materia sociale sono parte di questo esercizio. La natura stessa dell’Unione, priva di strutture politiche esecutive elette, è di per sé impossibilitata ad assurgere a queste funzioni di indirizzo politico.

Sarebbe auspicabile dunque che nel prossimo futuro l’Unione vedesse evolvere le sue strutture politiche e organizzative in senso democratico, subordinandole cioè al consenso espresso dai cittadini europei. Solo in questo caso le politiche sociali, così come altre politiche che ancora restano di esclusiva competenza nazionale, potranno diventare patrimonio della politica comunitaria.

Se queste saranno realmente le dinamiche evolutive delle politiche sociali europee e il tratto da queste assunto passerà realmente per la stesura di un nuovo patto sociale su base comunitaria, ci saranno le premesse per la nascita di una nuova stagione costituente in grado di dare un cuore nuovo alla «vecchia Europa», che pure avrebbe in sé le risorse e la cultura per poter sostenere il modello sociale che l’ha caratterizzata.1

 

 

Bibliografia

1 Le tematiche affrontate nel presente articolo sono approfondite nel volume: C. Scaramuzzino (a cura di), L’Europa e il lavoro. Istituzioni comunitarie e politiche sociali, ETS, Pisa 2004.