Israele e il dilemma dei laburisti

Di Colette Avital Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

La maggior parte degli osservatori della situazione israeliana concordano nell’affermare che qualcosa sta finalmente cambiando in questa parte del mondo. Dopo un lungo periodo di guerra, durante il quale ogni tentativo di raggiungere una tregua è fallito, si intravede un barlume di speranza. Israeliani e palestinesi sono convinti di trovarsi di nuovo di fronte a un’opportunità che non può non essere colta. A seguito di un annoso ed acceso dibattito, il Partito laburista si è unito al governo nel tentativo di realizzare un cambiamento di rotta, e di contribuire ad attuare il ritiro da Gaza.

 

La maggior parte degli osservatori della situazione israeliana concordano nell’affermare che qualcosa sta finalmente cambiando in questa parte del mondo. Dopo un lungo periodo di guerra, durante il quale ogni tentativo di raggiungere una tregua è fallito, si intravede un barlume di speranza. Israeliani e palestinesi sono convinti di trovarsi di nuovo di fronte a un’opportunità che non può non essere colta.

A seguito di un annoso ed acceso dibattito, il Partito laburista si è unito al governo nel tentativo di realizzare un cambiamento di rotta, e di contribuire ad attuare il ritiro da Gaza.

Agli occhi di alcuni partiti riformisti, non solo europei, la decisione di entrare in un governo di destra guidato da Ariel Sharon potrà essere sembrata un anatema rispetto a tutte le nostre convinzioni. E per molti versi lo è stata. Secondo altri, il piano di disimpegno di Sharon da Gaza è ben lungi da poter essere considerato la soluzione ideale. E anche questo è vero.

Diventa dunque necessario chiarire ai nostri colleghi del centrosinistra italiano sia il contesto israeliano sia le ragioni di questa decisione. Sullo scenario della politica israeliana la sicurezza personale e collettiva riveste un’importanza fondamentale. Negli ultimi tredici anni il destino della sinistra è dipeso direttamente da questioni inerenti a guerra e pace. Il Partito Laburista Israeliano – forza trainante di ogni singolo sforzo rivolto alla pace dal 1992 in poi – con gli accordi di Oslo, la pace con la Giordania, il ritiro da Libano, è stato ritenuto responsabile dall’opinione pubblica ogni volta che si è verificato un rigurgito di violenza palestinese. Abbiamo perso le elezioni due volte, e sempre in ragione di tale violenza.

La prima volta nel 1996, dopo l’assassinio del primo ministro Rabin e dopo quattro gravissimi attacchi terroristici, quando siamo stati sconfitti con un margine esiguo dello 0,3%. La destra di Netanyahu aveva lanciato campagna un’aggressiva imperniata sulla questione della sicurezza personale. In seguito, con il fallimento dei negoziati di Camp David dell’estate 2000 e dopo il rilancio della seconda Intifada, quando i cittadini condannarono il governo guidato dai laburisti, stavolta con un massiccio voto di protesta.

Da allora la sinistra in Israele ha attraversato una crisi senza dubbio molto profonda. Con l’acuirsi della spirale di violenza gli israeliani hanno perso ogni speranza in una possibile soluzione. Secondo i luoghi comuni diffusi avevamo offerto ai palestinesi tutto il possibile: il 97% del territorio, uno Stato indipendente e una capitale, Gerusalemme, e loro avevano rifiutato. L’adagio popolare che più si ascoltava era dunque: «cos’altro ancora c’è da offrire, e soprattutto, a chi? Non avete ancora imparato la lezione?» Bisogna capire che una società che vive quotidianamente nel pericolo e nella paura, preoccupata da questioni legate alla propria esistenza, minacciata dalla povertà e dalla disoccupazione, è naturalmente attratta dalle proposte politiche della destra.

Una società che si sente sempre insicura è resa cieca da slogan come: «Dobbiamo essere forti e non cedere mai. I palestinesi non riusciranno mai a cacciarci dalla nostra terra». In queste circostanze nessuna società può dimostrare pazienza per slogan d’inclinazione umanitaria, per una filosofia basata sui diritti umani, per i valori progressisti e universali, e rifiuta spontaneamente qualsiasi comprensione per la situazione dell’altra parte, qualsiasi forma di empatia nei confronti delle sue sofferenze. Dopo un po’ il nemico viene disumanizzato.

È in questo contesto che i leader del Partito Laburista Israeliano sono diventati i «criminali di Oslo». Arafat e i palestinesi, venivano ritenuti coloro che non avevano mai veramente voluto la pace e che quindi non ci si potesse fidare di loro come interlocutori.

Spesso Israele viene definita la terra dei paradossi, e non si tratta di una definizione senza senso. Dopo quattro anni e mezzo di spargimenti di sangue, il 75% degli israeliani è convinto che l’unica soluzione valida sia quella dei due Stati. Eppure, lo stesso 75% sostiene che ciò non sia realizzabile poiché non esiste un interlocutore.

Il segreto del sostegno schiacciante al piano di Sharon risiede nella convinzione della maggior parte degli israeliani, di sinistra e di destra, che sia auspicabile un ritiro veloce, completo e unilaterale da Gaza. Sharon ha infatti adottato una parte della piattaforma politica laburista, e ciò costituisce per noi, senza dubbio, una vittoria ideologica.

Da qui deriva il secondo paradosso: un primo ministro di destra che porta avanti una politica di sinistra, ossia la fine dell’occupazione e lo smantellamento degli insediamenti. Il che ha scatenato una serie di gravi reazioni politiche: una frattura in seno al Partito del Likud al governo – e l’uscita dei partiti di destra dalla coalizione – che ha lasciato Sharon con un governo di minoranza. Senza il Partito laburista, Sharon non sarebbe nella condizione di realizzare il suo piano, avversato da una cospicua opposizione in seno al suo stesso partito.

Le alternative che si prospettavano ai laburisti erano molto complesse. Avremmo dovuto lasciare che il governo cadesse, mancando così un’occasione quasi unica di avviare il disimpegno, oppure saremmo dovuti entrare nella coalizione, salvare il governo, cogliere una opportunità per la pace, pur perdendo, al tempo stesso, qualsiasi possibilità di costituire un’alternativa a questo governo?

Con l’uscita di scena di Arafat, con un passaggio dei poteri avvenuto senza scosse, con le impeccabili elezioni democratiche in Palestina e grazie al comportamento responsabile dimostrato da Abu Mazen, gli israeliani hanno iniziato ad intravedere un cambiamento. Soffia un vento nuovo. Dobbiamo muoverci. Ma rimane la contraddizione di base tra la grandezza di questa opportunità e la debolezza della struttura politica. La nostra scelta è dunque venuta delineandosi: unirci al governo, seppure imperfetto, unirci a un governo di cui rifiutiamo con vigore le politiche sociali ed economiche. Entrare nel governo, dunque, per un periodo di tempo limitato e a un solo e unico scopo, quello di portar fuori Israele da Gaza, una volta per tutte.

Per noi questo rappresenta un primo passo nella giusta direzione, ma certo non l’ultimo. Il piano di disimpegno non è ideale, ne siamo consapevoli. È parziale, e di portata limitata. Ma non minimizziamo le difficoltà che ci attendono: il movimento dei coloni ha lanciato contro di esso una lotta senza quartiere. Istigazione e minaccia sono nell’aria. Le autorità religiose emettono ordini contro l’evacuazione. Potremmo vedere fratelli lottare l’uno contro l’altro.

Con i laburisti nella coalizione di governo e con Abu Mazen che mostra di voler prendere in mano la sicurezza di Gaza, ci si può attendere che l’evacuazione sia condotta in pieno coordinamento con l’Autorità Palestinese e con la comunità internazionale. Se l’operazione avrà successo, l’opinione pubblica chiederà che altre iniziative siano adottate in Cisgiordania.

Sarà allora che il Partito laburista potrà presentare di fronte ai cittadini una politica chiara e coerente, un piano di pace e sicurezza a tutto tondo, basato sul ritorno ai confini del 1967 e sulla realtà di due Stati, Israele e la Palestina, che vivono l’uno accanto all’altro.

Ma nel frattempo il nostro partito dovrà collocarsi, come sempre, in prima linea nella lotta sociale e lavorare per il ritorno a condizioni di vita dignitose per coloro che oggi vivono nell’indigenza e nella disperazione: un periodo di calma relativa nelle nostre strade e ai nostri confini, un graduale ripristino della «normalità» porteranno anche a un cambiamento di mentalità.

Solo allora, con un chiaro messaggio sociale e con l’unità tra i ranghi della sinistra, il Partito laburista avrà davvero una chance di tornare al potere.

Il cammino è lungo e aspro, ma la meta può essere raggiunta.