Una modesta proposta contro scelte scandalose

Di Franco Botta Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Quando una buona notizia, come quella per cui le aspettative di vita stanno aumentando in Italia e in Europa, non suscita allegria ma sconforto, la situazione è da definirsi davvero paradossale. L’ultimo rapporto sull’invecchiamento della popolazione, presentato dalla Fondazione Pfizer, sottolinea questa tendenza e contemporaneamente racconta che, grazie al progresso della scienza medica e della sanità, si è allungato il tempo in salute che ci toccherà di vivere. In Europa si vive in media 78,2 anni e in salute fino a quasi settant’anni. Se il primo dato spaventa, il secondo viene rimosso dai commentatori, che si limitano a rilevare che l’Europa si riempirà di vecchi che vorranno la pensione, che i soldi non basteranno, che gli Stati resteranno senza denari lasciando i pensionati a bocca asciutta.

 

Della vita lunga e in buona salute

Quando una buona notizia, come quella per cui le aspettative di vita stanno aumentando in Italia e in Europa, non suscita allegria ma sconforto, la situazione è da definirsi davvero paradossale. L’ultimo rapporto sull’invecchiamento della popolazione, presentato dalla Fondazione Pfizer, sottolinea questa tendenza e contemporaneamente racconta che, grazie al progresso della scienza medica e della sanità, si è allungato il tempo in salute che ci toccherà di vivere. In Europa si vive in media 78,2 anni e in salute fino a quasi settant’anni. Se il primo dato spaventa, il secondo viene rimosso dai commentatori, che si limitano a rilevare che l’Europa si riempirà di vecchi che vorranno la pensione, che i soldi non basteranno, che gli Stati resteranno senza denari lasciando i pensionati a bocca asciutta. Per l’Italia le aspettative di vita sono di 79,1 anni (siamo al secondo posto in Europa) e saranno in gran parte anni nei quali la salute non ci abbandonerà (con 71,2 siamo in questo caso al primo posto). Le ipotesi demografiche per il 2030, elaborate dall’Istat, prevedono inoltre tre scenari: per gli uomini il primo indica che si arriverà a 78,8 anni, quello intermedio 81,4 e il terzo prevede 84,0; per le donne quello pessimistico indica 85,4, quello intermedio dice 88,1 e s’ipotizza che si possa in media arrivare a 90,5 anni. Lo stesso Istituto ricorda, con riferimento agli ottantenni, che il 30% sono già oggi autonomi e un altro 30% sono in condizioni discrete, vale a dire che non soffrono di gravi limitazioni e che in futuro la situazione può migliorare. La sfiducia nelle statistiche è sempre stata piuttosto alta nel nostro paese ed è cresciuta in questi ultimi tempi, come testimonia l’aspro dibattito sui prezzi e sull’inflazione che vi è stato negli ultimi due anni. Chi diffida degli statistici e delle loro elaborazioni potrà sfogliare uno dei tanti album fotografici che giacciono nelle nostre case, scoprendo immediatamente in che misura i cinquantenni o i sessantenni d’oggi siano fisicamente di gran lunga diversi da quelli che li hanno preceduti. Il tempo di vita si è dunque allungato e gli anni in buona salute sono diventati tanti. Entrambi i fatti dovrebbero rendere felici i singoli e le collettività e invece i governi e gli esperti allarmati diffondono angoscia tra le collettività. Chi può si affretta a mettersi in salvo, cercando di andare in pensione prima degli altri. Il governo italiano ha varato nel luglio del 2004 una riforma del sistema pensionistico che, aumentando il tempo che ciascuno di noi deve dedicare al lavoro, fornisce incentivi per chi rimane e disincentiva coloro che hanno deciso di abbandonare. Con astuzia e perfidia si vuole, da parte dei governi, prolungare per molti la vita lavorativa, una condizione che provoca in tanti uno stato di disagio e di sofferenza. Nessuno tiene conto del fatto che, in molti casi, chi decide di abbandonare lo fa soprattutto perché svolge un’attività che lo ha stancato o un lavoro in un luogo nel quale non ci si sente più apprezzati, ma considerati vecchi e obsoleti e con capi e imprenditori che non vedono l’ora di poterci sostituire con giovani che costeranno sicuramente meno. La maggior parte degli italiani che sono vicini ai sessant’anni non ambisce affatto a starsene con le mani in mano, davanti al televisore e in attesa dell’inevitabile fine. Tutti sanno infatti che il segreto di una vita lunga e felice sta in una quotidianità operosa, come raccontano non solo i premi Nobel, ma tutti quelli che hanno raggiunto e superato i novant’anni. Coloro che decidono di lasciare il lavoro, lo fanno spesso solo per sfuggire alla noia di un’attività che non offre più stimoli o a un ambiente che si sente ostile.

La situazione viene invece ulteriormente drammatizzata da quanti sostengono poi che il declino economico del nostro paese vada messo in relazione con l’invecchiamento della popolazione. A sentire costoro, quando un paese invecchia è inevitabile che si abbia declino economico. Le proiezioni per classi di età svolte dall’Istat dicono che quelle con più di 80 anni diventeranno nel 2050 il 14,2% della popolazione, che quelle con più di 65 anni diventeranno il 34, 4% (sommando le due classi, si arriva al 49,6%, mentre le persone in età lavorativa saranno solo il 54,2%). Il futuro non può che essere oscuro e pieno di eventi drammatici, non solo per le finanze pubbliche. In un paese nel quale i centenari raddoppiano ogni quattro anni bisognerebbe invece non dare per scontato che esista una stretta relazione tra il declino demografico e quello economico e che gli anziani siano da considerare solo come un peso insostenibile. Bisogna forse provare a riflettere in modo meno convenzionale sul problema per provare a capire se la situazione non si presti ad altre letture, se non vi siano altri punti di vista che meritano di essere trovati e coltivati. Forse conviene diffidare di quelle che sono le idee che oggi prevalgono, provando invece a mettere in campo altre analisi. Conviene non arrendersi alle evidenze e provare a capire se in realtà non vi siano altre domande che possono essere formulate per affrontare il presente e il futuro. Un invito a continuare a interrogarsi, ad accumulare domande non viene solo da coloro che coltivano la filosofia e le altre scienze morali, ma anche da parte di alcuni importanti economisti, come il premio Nobel Joseph Stiglitz. Stiglitz sostiene infatti in modo esplicito, anche in uno dei suoi manuali di economia politica, che le domande contano più delle risposte, che un corso universitario riuscito è quello che produce negli studenti e nel docente. Il progresso è il risultato del fatto che qualcuno, per trovare risposte a nuovi interrogativi, abbandona i paradigmi dominanti. Solo in questo modo si ha quel progresso scientifico che conta, quello che determina quello che gli storici della scienza, a posteriori, chiamano rivoluzione. Si sta in definitiva proponendo di provare a chiedersi se in realtà dall’invecchiamento, dall’annunciato drastico ridimensionamento della popolazione in Italia e nel resto dell’Europa non possa invece venirne un qualche vantaggio sia per noi viventi che per i nostri posteri; di chiedersi se i vecchi siano sempre e necessariamente un peso per l’economia del paese, se in definitiva una soluzione a questo, come ad altri problemi economici e sociali che abbiamo in Italia, in Europa e nel mondo, non stia nella continua crescita quantitativa, ma invece nella gestione sapiente di una transizione demografica che è in corso e che potrebbe ridurre il carico di popolazione che questa nostra generosa penisola deve sopportare, consentendo un migliore equilibrio tra risorse e popolazione.

 

Sull’utilità delle modeste proposte

Entrare in quest’ottica non è affatto semplice, in quanto pratichiamo da tempo una razionalità che appare davvero molto limitata e non sono pochi quelli che sono arrivati alla conclusione che il mondo riuscirà a sopravvivere solo se sapremo dare uno spazio maggiore ai poeti e a tutti quelli che sono in grado di coltivare fantasia e immaginazione. Una filosofa molto impegnata alla costruzione di un nuovo progetto etico. Martha C. Nussbaum1 sostiene in modo argomentato che l’immaginazione letteraria ha fornito e fornisce un contributo importante nella edificazione di una società più giusta e migliore. Che dell’impegno di uomini dotati d’immaginazione vi sia bisogno, si capisce non solo dalle proposte in circolazione ma anche guardando al modo innovativo e provocatorio con cui alcuni di loro sono stati capaci in passato di affrontare questioni scabrose. Si pensi per esempio – e per tutti – alla «Modesta proposta» formulata nel 1729 da Jonathan Swift per «impedire che i bambini irlandesi siano a carico dei loro genitori o del loro paese» e per «renderli utili alla comunità». Questa proposta prevedeva il nutrimento dei piccoli poveri in modo che, all’età di un anno, potessero essere venduti dai loro genitori come cibo per le mense dei ricchi possidenti. Una proposta che liberava sia i parenti e sia la società da un peso insopportabile, fornendo ai primi dei danari sufficienti per vivere senza chiedere elemosine, accudendo alla loro prole e magari alla produzione di nuovi bimbi da vendere in seguito. Si permetteva a queste famiglie povere di avere un’attività utile a mantenere con dignità il resto della loro famiglia, ai piccoli in eccesso era risparmiata una vita di stenti e d’umiliazioni e alla società di avere un guadagno in termini economici e morali. Far passare nuovi beni per il mercato produce sempre incrementi del prodotto interno lordo, mentre la miseria è quasi sempre fonte di comportamenti lesivi della morale. La proposta non ebbe successo, ma non vi è dubbio che il suo scritto costrinse molti a riflettere a tutto campo sulla questione. In una fase nella quale il pensiero degli scienziati sociali e dei politici indugia e non osa abbandonare i sentieri tracciati, il contributo di coloro che coltivano l’immaginazione – siano essi uomini di lettere o di televisione o scienziati sociali – appare necessario per cercare di cambiare il clima culturale nel quale siamo immersi. A partire dal Seicento, e con la eccezione del «secolo breve» nel quale vi furono soprattutto proposte molto impegnative e di tipo macro, non è mai mancato nei paesi europei invece l’impegno di tanti per cercare di arrivare a mettere in campo minuscoli progetti, capaci tuttavia di migliorare di molto la qualità della vita dei singoli e della collettività.

 

Lo stato dell’arte

A discutere in Italia delle dinamiche demografiche ed economiche sono in tanti e tutti vedono e sottolineano i gravi rischi che corre un paese quando gli anziani sono più dei giovani e i pensionati più dei nuovi lavoratori non precari. Il declino demografico dell’Italia, stando gli attuali tassi di fertilità, è inevitabile e va affrontato in modo esplicito. Secondo alcune proiezioni svolte dall’ONU il numero di persone d’età lavorativa diminuirà nel nostro paese del 39% nel 2050, rispetto al dato del 2000. A metà di questo secolo gli italiani con più di 65 anni saranno infatti il 34% del totale, mentre negli Stati Uniti si arriverà solo al 20% e in Gran Bretagna al 23%. Il declino demografico e l’invecchiamento della popolazione è naturalmente un problema che riguarda molte zone del mondo, ma è particolarmente grave in Europa e soprattutto in Italia e in Spagna, essendo questi i due paesi nei quali si vive e si vivrà più a lungo nel prossimo futuro. I dati sono eloquenti e hanno ragione coloro che definiscono come seria la situazione. Tuttavia, quando si passa dall’analisi alle terapie, i rimedi immaginati sono diversi ma appaiono inadeguati rispetto al problema che si vuole affrontare. Al declino demografico il rimedio principale, secondo alcuni, consiste nell’adozione di nuove politiche sociali ed economiche che rendano più facile la decisione delle famiglie di mettere al mondo uno o più figli. Si tratta di fornire alle famiglie assegni e sgravi fiscali e strutture, come asili o scuole materne, a costi contenuti, aumentando anche i permessi retribuiti per consentire ai genitori di potere assolvere più facilmente ai loro compiti. Entrare in quest’ottica significa pensare a una soluzione che ha naturalmente tempi lunghi e che richiede soprattutto risorse finanziarie pubbliche che, come paese, in questo periodo non abbiamo. Non possiamo inoltre trascurare che, nelle decisioni di mettere al mondo dei figli, entrano in campo molte variabili; alcune sono di tipo culturale e queste non mutano facilmente. Una maggiore attenzione alle famiglie può produrre certamente qualche risultato che renda l’Italia più simile alle altre realtà europee, sapendo tuttavia che pure in questi paesi si ha un declino demografico e un invecchiamento della popolazione. Una strategia più semplice consiste nella liberalizzazione totale delle adozioni, consentendo che tutti possano con facilità, magari dopo avere portato a termine una parte dei loro piani di vita, con riferimento in particolare alle carriere lavorative, recuperare un figlio. Adozioni facili e a scala internazionale, tenendo conto della miseria che caratterizza tanti luoghi e che preveda un pagamento di una somma congrua ai genitori naturali, è certamente una possibilità che ricorda la proposta avanzata di Swift per l’Irlanda e non sono poche le famiglie che negli anni passati l’hanno praticata, approfittando delle inerzie dei governi. Col tempo tuttavia molti governi sono intervenuti per porre dei freni, avendo colto come in questo traffico di bambini si fossero inseriti gruppi criminali.

Vi sono naturalmente delle alternative che appaiono anche non troppo impegnative sul piano finanziario, come quella di sperare che, a seguito dell’avvenuto allargamento dell’Unione europea, vi sia da parte dei popoli che sono entrati in Europa una spinta a emigrare verso il nostro paese. Come descrivono tutti gli studi sui fenomeni migratori, a emigrare sono di solito i migliori, quelli che sono in buona salute e che hanno spesso più risorse, essendo spesso dotati di un buon livello di istruzione. Si tratta dunque di forza lavoro adulta e in età riproduttiva, una cosa interessante sia sul piano economico che demografico per noi. Le nazioni che hanno aderito o quelle che stanno aderendo, si liberano in questo modo di persone in eccesso, rispetto al loro livello di sviluppo e possono contare invece sulle loro rimesse per gli investimenti e i consumi. Ma anche in questo caso, non possiamo farci – come paese – molte illusioni, poiché questo flusso sarà piuttosto modesto. Tutte le indagini svolte sulle future migrazioni interne all’Unione allargata tendono infatti a sottolineare che le persone sicuramente disposte a emigrare da questi paesi non sono tante e un’indagine, svolta dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, afferma che – dai tredici paesi coinvolti nello studio – le persone decise a emigrare nei prossimi anni sono meno dell’1% della forza lavoro esistente. Se vogliamo catturare una quota significativa di queste energie, bisogna darsi da fare, mettendo in campo adeguate politiche di accoglienza e sgomitando con i nostri vicini per cercare di incettare questo flusso di persone. Naturalmente, se si entra in quest’ordine di idee, potremmo provare a svolgere una politica più decisa verso i cittadini italiani o di origine italiana che vivono in Europa o nel resto del mondo, soprattutto nelle Americhe, per spingerli a tornare indietro. Per i più giovani, per quelli nati in altri luoghi, non si tratta di tornare indietro, ma di andare a loro volta verso «un nuovo mondo», diverso anche da quello che possono avere loro raccontato i loro vecchi. Non sarà facile per loro, come non fu facile partire dall’Italia e vivere in altri luoghi per i loro genitori o nonni. Se vogliamo in tempi brevi evitare una contrazione della popolazione, dovremmo dunque accettare più stranieri, per soddisfare la domanda di lavoro che viene sia dal mondo delle imprese che delle famiglie. Per evitare il declino dovremmo incrementare il flusso di persone che vengono per restare, dovremmo auspicare e programmare nuovi e consistenti flussi di stranieri, tenendo conto delle esigenze economiche e sociali e degli obiettivi demografici che vogliamo raggiungere e mantenere. Se desideriamo che tra dieci anni gli italiani siano quanti sono oggi o di più, dobbiamo accettare che essi possano essere diversi – sia fisicamente che culturalmente – da quelli che sono stati in passato. Molti dei nuovi italiani, figli degli immigranti, non saranno di pelle chiara e quelli di religione musulmana saranno davvero tanti e non mancheranno neppure buddisti e ortodossi. Non è neppure detto che il Made in Italy possa restare lo stesso e che, per fare un esempio, la nostra industria alimentare non conquisti nuovi spazi producendo cose che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare. L’apertura delle frontiere, nei limiti naturalmente di quelli che sono gli accordi che ci vengono dall’essere noi un paese dell’Unione europea, appare la soluzione migliore, quella che produce risultati in tempi brevi e quella che non costa tanto in termini finanziari, ma che invece ha costi alti sul piano culturale e sociale. Accettare che persone tanto diverse possano radicarsi da noi, mettendo in discussione i nostri abituali stili di vita, non è certamente una cosa semplice e non stupisce affatto che tanti siano allarmati e che i governi europei, a cominciare dal nostro, si sforzino di impedire che questo travaso avvenga.

 

Una prima conclusione e una diversa prospettiva

Le ipotesi richiamate costituiscono dunque le principali opzioni che sono in campo, se vogliamo evitare non solo il declino demografico annunciato, ma anche quello economico (una conseguenza questa che molti storici ed economisti ritengono essere una conseguenza invitabile del primo). Un qualche sollievo si potrebbe avere se si riuscisse a mettere in campo in modo deciso tutte le politiche che si sono richiamate in precedenza. Si potrebbe puntare, per esempio, a massimizzare il rientro di cittadini italiani, senza rinunciare agli stranieri. Sapendo tuttavia che – se vogliamo mantenere nel futuro lo stesso numero d’italiani – queste politiche anti-declino demografico andrebbero portate avanti in modo coraggioso. Se dall’Argentina, dall’Australia o dagli Stati Uniti i rientri sono minori di quelli sperati e se i polacchi proprio non vogliono restare da noi, dobbiamo consentire a più marocchini o egiziani di venire in Italia. Date le tendenze della riproduzione e della mortalità della popolazione italiana, se vogliamo mantenere costante il numero degli abitanti della penisola e se non vogliamo il declino, soprattutto in termini di persone in età lavorativa, bisogna mettersi in gioco. Uno studio svolto dalle Nazioni Unite2 mostrava infatti che la migrazione netta necessaria per mantenere costante la popolazione con un’età compresa tra i 15 e i 65 anni, nel periodo 1995-2050, doveva essere di circa venti milioni di unità per l’Italia (gli ultimi bilanci demografici richiamati mostrano che si tratta di una cifra che deve essere ritenuta già oggi, nel 2004, sbagliata per difetto).

In definitiva, non riuscendo a fare delle scelte coraggiose e conseguenti, capaci di arrestare il declino demografico, intanto si decide di cercare di sbarrare i confini, di intervenire sulle pensioni per cercare di mantenere in ordine i conti pubblici e di incentivare a restare al lavoro coloro che hanno maturato il diritto alla pensione. L’esito di questa scelta si traduce nel fatto che chi può si mette in salvo, mentre gli altri imprecano e lavorano malvolentieri, pensando ad altro. Intanto, tutto il nostro sistema legislativo andrebbe ripensato non per introdurre il lavoro forzato, ma per evitare che vi siano delle discriminazioni sul mercato del lavoro in base all’età, come si sta facendo da tempo negli Stati Uniti. A nessuno dovrebbe essere consentito di discriminare i cinquantenni e tutti coloro che – siano essi dirigenti o semplici operai – hanno da vivere ancora tanti anni in buona salute e che hanno voglia di lavorare. Ma tutto questo non basta e forse bisognerebbe provare a vedere se non esistano le condizioni per mettere in campo qualche modesta proposta che prenda seriamente in considerazione il fatto che la vita in buona salute si è allungata. Un dato questo che bisognerà cominciare a considerare come un fatto positivo, potendo consentire una riorganizzazione complessiva della vita, tanto dei singoli che dell’intera collettività. Forse si deve cominciare a pensare che ciascuno abbia tempo per poter avere almeno due vite lavorative, per fare almeno due giri di pista. Come accadeva in passato quando, alla fine del ballo, la dama e il cavaliere si salutavano, rendendosi disponibili per formare una nuova coppia per un nuovo giro di valzer, bisogna che si prenda in considerazione che tutti abbiamo ora una seconda possibilità. Tenendo conto delle innovazioni tecnologiche e del fatto che i lavori usurano, sia pure in forma diversa, si potrebbe ipotizzare che tutti i lavori, sia quelli autonomi che quelli dipendenti, non dovrebbero durare in media più di venticinque anni. Dopo questa prima attività lavorativa, ve ne deve essere una seconda di durata più breve e più adatta a persone che sono entrate nella terza età. A un primo lavoro, scelto in gioventù, ne deve seguire un secondo; tutti devono poter cambiare attività. La noia non solo è mortale, ma abbassa la produttività, come possono spiegare coloro che si occupano di queste questioni. Chi insiste a voler fare lo stesso mestiere per tutta la vita potrà farlo, ma riceverà uno stipendio minore e una pensione più bassa: la pigrizia deve essere censurata e la voglia di ricominciare daccapo favorita. La nuova regola potrebbe essere che – dopo venticinque anni – vi sono incentivi per cambiare e disincentivi per restare.

La cosa naturalmente non è semplice, ma occorre tenere conto di quanto è diventato il tempo che ciascuno di noi ha da vivere in buona salute. Nessuno può più far finta di nulla e pensare che tutto sia rimasto uguale al passato. Il rapporto che lega gli italiani al lavoro, come testimonia l’indagine svolta da Demos-Coop nell’ottobre del 2004, è diventato più complicato e, per alcuni aspetti, più ambiguo. Dal lavoro si vuole reddito, ma anche sicurezza e soddisfazioni. Accanto allo stipendio sono importanti i colleghi e l’ambiente di lavoro e cresce soprattutto la voglia di avere un lavoro indipendente (tra quelli che hanno meno di 24 anni, raggiunge il 63,2%, ma prevale anche nelle altre fasce d’età, declina solo dopo i 54 anni e solo tra quelli che hanno più di 65 anni si attesta sotto il 50%, con il 46%). Interrogati sulle proprie prospettive e speranze, il 72% degli intervistati ha risposto che farà lo stesso lavoro e solo il 18,6% che farà un altro lavoro, migliore di quello attuale. Bisogna cambiare queste percentuali, a vantaggio del secondo tipo d’aspettative, intendendo per migliore un lavoro più adatto o più conforme ai propri desideri. A determinare queste percentuali del sondaggio hanno pesato non solo la situazione economica, ma anche il fatto che solo in pochi si rendono conto degli anni che hanno da vivere. Chi vuole a un certo punto della propria vita cambiare lavoro deve intanto cominciare a pensare che questa sia una possibilità vera e poter contare su sostegni, finanziari e non, da parte dello Stato e del Terzo settore. Si devono mettere in campo agenzie, sia pubbliche che private, che aiutino a risolvere i mille problemi che questo cambiamento comporta per tutti.

Dopo trentacinque anni, tutti quelli che hanno svolto uno stesso lavoro, vissuto in uno stesso ambiente sociale e nello stesso luogo, dovrebbero essere lasciati liberi di andarsene altrove. Molti scelgono di andare in pensione, solo perché non sono stati capaci di trovare una nuova occupazione e perché nessuno li aiuta a fare scelte diverse, in quanto tutti – singoli, imprese e istituzioni – sono vittime di un pregiudizio, dell’idea che i cinquantenni vadano considerati come una volta erano visti i settantenni, come persone dalle quali «non possiamo attenderci molto, fuorché il consapevole impiego di alcune abilità, di qualche leggera variazione e di parecchie ripetizioni». I singoli dovrebbero ribellarsi a quanti, in quest’ordine di idee, vorrebbero tenerli incatenati al loro alienante lavoro e – all’avvicinarsi dei cinquant’anni – fare quello che Jorge Luis Borges decise a settant’anni (sconfinare dai propri temi di lavoro, per eludere la monotonia) e in seguito, resi forti da questa esperienza tentare il salto. Più che incentivi per restare al lavoro, bisognerebbe dunque fornire stimoli e risorse per avviare nuove attività, sia in Italia sia all’estero. Si potrebbe prevedere che per tutti, dopo un ventennio di lavoro, ci sia un anno sabbatico, un periodo retribuito nel quale ciascuno abbia del tempo per riflettere, per guardarsi intorno, per seguire corsi di riqualificazione o per accumulare esperienze e competenze necessarie per un nuovo lavoro. I posti lasciati liberi potrebbero essere occupati da altri e in particolare dai giovani che oggi invece non trovano spazi, essendo i posti migliori occupati da persone che ormai non danno più il meglio di sé. Si pensi di quanto potrebbe migliorare la qualità degli studi e delle ricerche nel nostro paese, se molti dei baroni in carica fossero incentivati a lasciare il loro posto a docenti e ricercatori più giovani, senza dovere per questo necessariamente andare in pensione. In questo caso non si tratta neppure di inventare cose nuove, basterebbe semplicemente ripristinare per tutti i docenti ordinari il fuori ruolo anticipato, una cosa oggi riservata solo ai vecchi baroni.

Questo esempio – ma altri se ne potrebbero fare – serve solo per ribadire che bisognerebbe sempre sforzarsi di introdurre incentivi per garantire una nuova mobilità sul mercato del lavoro, in modo che aumentino le persone che, in ogni fase della propria vita, svolgano un lavoro adatto alle loro capacità e che corrisponda ai loro desideri. Un obiettivo che si raggiunge riducendo il numero di persone che continuano stancamente a occupare mansioni per le quali non hanno più risorse tecniche e psicologiche, impedendo in questo modo che altri possano invece soddisfare i loro legittimi desideri; cosa questa che garantirebbe una migliore efficienza complessiva del paese. Se riusciremo a non pensare che un declino demografico sia necessariamente una catastrofe per il nostro paese, potremmo forse affrontare meglio l’altro declino, quello economico che ha naturalmente ragioni diverse. Come sostiene Giacomo Nardozzi «nella sostanza, il nostro declino industriale è la manifestazione del semplice fatto che le imprese si sono trovate ad affrontare una concorrenza crescente con una bassa pressione competitiva».3 Il declino demografico può costituire un potente meccanismo di pressione sulle imprese, sui cittadini italiani e sui governi per ripensare il nostro modello di sviluppo, in modo da utilizzare al meglio le risorse a disposizione. Fare spazio ai giovani e utilizzare al meglio i vecchi devono essere obiettivi da perseguire contemporaneamente. Fino a quando si continua a tenere gli occhi e la mente fissi sul modo di ragionare ortodosso, si resta prigionieri di vecchi modelli e non si colgono le occasioni che la vita crea, come si è cercato di argomentare in «Modelli inutili».4 La situazione è certamente difficile, ma se ne esce solo se si riesce a ragionare in modo nuovo e se si ha il coraggio di introdurre domande diverse. Gli economisti dello sviluppo, le Nazioni Unite, la Banca Mondiale e le altre organizzazione internazionali, dedicano oggi una grande attenzione al microcredito e alle donne, avendo capito e verificato come queste possano essere una risorsa decisiva per combattere la povertà e il sottosviluppo nel mondo. Un spinta a questa scelta è venuta da un modesta proposta avanzata da Muhammed Yunus.5 Interrogandosi su chi erano in realtà i poveri e su quali dovessero essere le regole e le istituzioni in grado di garantire il funzionamento di una società capace di tollerare la loro «stravagante opzione» in favore della povertà, Francesco d’Assisi e gli altri francescani hanno in realtà – come spiega bene Giacomo Todeschini6 – elaborato un pensiero prezioso per la costruzione di un nuovo mondo. In Italia e nei paesi europei dovremmo forse interrogarci di più su chi sono in realtà i vecchi che ci circondano e sforzarci di trovare i modi che ci consentano di utilizzarli al meglio e insieme alle altre risorse che abbiamo. Bisogna forse accettare di più la scelta scandalosa che il nostro paese ha compiuto – quella del declino demografico – e provare a capire come riorganizzare la società in modo da evitare l’altro declino, quello economico.

 

 

Bibliografia

1 M. C. Nussbaum, Il giudizio del poeta, Feltrinelli, Milano 1999.

2 Nazioni Unite, Replacement Migration. Is It a Solution to Declining and Ageing Populations?, 2001.

3 G. Nardozzi, Miracolo e declino, Laterza, Bari-Roma 2004.

4 Modelli inutili, in F. Botta e F. Del Prete, Giochi proibiti, Cacucci, Bari 2004.

5 M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 2002.

6 G. Todeschini, La ricchezza francescana, Il Mulino, Bologna 2004.