L'agenda di Papa Ratzinger: «italianità», politica estera e protagonismo cristiano

Di Gennaro Acquaviva Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Papa Benedetto non è solo il primo tedesco, il primo Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il primo professore di ruolo di università che, dopo molti secoli, sale al Soglio di Pietro. È anche uno dei pochissimi teologi di professione che arriva a guidare la Chiesa cattolica ancora in piena attività e circondato da stima accademica e da autorevolezza culturale ben note e apprezzate. Ancora: egli si appresta a muovere i primi passi nel ruolo di Pastore della Chiesa universale in una realtà mediatica e di opinione che parla tuttora il linguaggio del Papa morto, che ha ancora negli occhi le immagini suggestive che hanno attraversato l’intero pianeta dall’agonia all’elezione, in un indimenticabile mese di aprile. Ce n’è a sufficienza per consigliare prudenza a chi intende ipotizzare linee di comportamento, pastorali e anche geopolitiche, nella politica della Santa Sede. Per muoverci quindi su di un terreno meno insicuro conviene forse partire dalla stessa vicenda che ha portato all’elezione di Papa Ratzinger, dai giorni del funerale a quelli (appena due) che sono bastati per farlo eleggere.

 

Papa Benedetto non è solo il primo tedesco, il primo Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il primo professore di ruolo di università che, dopo molti secoli, sale al Soglio di Pietro. È anche uno dei pochissimi teologi di professione che arriva a guidare la Chiesa cattolica ancora in piena attività e circondato da stima accademica e da autorevolezza culturale ben note e apprezzate. Ancora: egli si appresta a muovere i primi passi nel ruolo di Pastore della Chiesa universale in una realtà mediatica e di opinione che parla tuttora il linguaggio del Papa morto, che ha ancora negli occhi le immagini suggestive che hanno attraversato l’intero pianeta dall’agonia all’elezione, in un indimenticabile mese di aprile. Ce n’è a sufficienza per consigliare prudenza a chi intende ipotizzare linee di comportamento, pastorali e anche geopolitiche, nella politica della Santa Sede. Per muoverci quindi su di un terreno meno insicuro conviene forse partire dalla stessa vicenda che ha portato all’elezione di Papa Ratzinger, dai giorni del funerale a quelli (appena due) che sono bastati per farlo eleggere.

Va innanzitutto rilevato che c’è stato in questo tragitto un elemento «tutto italiano» che è passato stranamente sotto silenzio proprio nel nostro paese e che invece conviene mettere in evidenza. Non solo perché, come vedremo, è destinato a rappresentare un fattore importante nelle scelte papali, ma anche perché ci aiuta a capire la condizione in cui versa la Chiesa in Italia.

All’inizio del Conclave era indubbio che i caratteri di «italianità» della Chiesa cattolica universale avevano acquisito una centralità anche nel processo di costruzione delle candidature. Certamente i Novendiali parlavano con il pensiero e il volto di Ratzinger, il Decano che una fazione molto accorta della Curia aveva nei mesi precedenti prescelto come candidato forte (anche se anziano e di salute non splendida). Ma si trattava di un confronto in cui permanevano condizioni di fluidità e di indeterminatezza. Due fattori, in particolare, portavano a considerare una candidatura italiana come lo sbocco naturale (e vincente) del Conclave, non appena si fosse consumato il «fuoco di paglia» delle quattro-cinque votazioni iniziali, centrate inevitabilmente su quella che rimaneva l’unica candidatura esplicitamente avanzata. Il primo era rappresentato dallo straordinario moto popolare che accompagnava il cammino del Papa morto e che metteva per lunghi giorni al centro dell’immagine planetaria Roma e l’Italia; segnale e insieme simbolo forte di fronte ai cardinali elettori di una cattolicità viva e vitale, protagonista e partecipe di una realtà capace di mantenere forti connotati sociali. Il secondo era la parola del primo degli italiani – e cioè il Cardinal Martini – che, accanto e direi sopra al Ratzinger presidente, aveva chiaramente dominato gli incontri giornalieri dei cardinali, giungendo a proporre nei sui interventi, con autorità e carisma, un vero e proprio «identikit» del futuro papa.

Il risultato del Conclave, con la rapidissima elezione di Benedetto XVI, è stata la chiara dimostrazione che questa preferita «italianità» si era dovuta confrontare,  in una gara fondata innanzitutto sull’autorevolezza, con una preferenza per chi è apparso non solo l’unico, ma anche indubbiamente il più dotato tra i papabili. Con la conseguenza che a soccombere non è stata la figura più alta che l’Episcopato italiano potesse mettere in campo, e cioè Martini (che si autoescludeva anche per evidenti condizioni di minorità fisica), ma proprio il vertice della Chiesa italiana, rappresentato dall’insieme dei venti cardinali del nostro paese che sedevano in Conclave.

Nel referendum sulla legge 40 – un appuntamento importante non solo per gli italiani ma soprattutto per la Chiesa che è in Italia – si è visto emergere nel confronto delle opinioni e nella polemica, anche aspra, che contraddistingue i sostenitori del sì, una rilevante considerazione assegnata ai vertici della Conferenza episcopale e, in primis, al suo presidente. Ebbene a questi contraddittori del Cardinal Ruini vorrei far rilevare che essi, per un certo verso, sbagliano bersaglio perché proprio questo vertice ecclesiale, appena poche settimane or sono, è stato considerato dal «summit» della Chiesa universale non all’altezza di porre candidature al papato, pur in presenza di una condizione generale sicuramente favorevole. Che la cattolicità che è in Italia sia tuttora in grado di esprimere energia e cultura, mobilitazione e unità, forza aggregativa e spinta apostolica e missionaria non vi è alcun dubbio, naturalmente. Quello però che emerge dalla vicenda dell’elezione papale, e che mi preme mettere in rilievo perché si tratta di un fatto destinato a influenzare le scelte di Papa Ratzinger, è che la costruzione della classe dirigente della Chiesa italiana nell’ultimo ventennio è stata soprattutto condizionata da timori e allarmi per il «lunghissimo sessantotto» che ci ha influenzato un po’ tutti e che ha scompaginato anche laici credenti, associazionismo cattolico e clero, con la conseguenza che nella promozione dei «quadri» episcopali si è seguita spesso una linea di grande prudenza, preferendo assai più i sicuramente fedeli che pastori innovatori e responsabilmente autonomi.

Dobbiamo dunque avere presente che sulle spalle di Benedetto XVI si calerà anche la soluzione di questo problema non da poco. Esso infatti si innesta inevitabilmente alle linee di politica mondiale che presumibilmente egli sta elaborando in queste prime settimane del suo Ministero apostolico, perché la riorganizzazione e il rinnovamento della Curia romana e dei suoi vertici sono per forza di cose collegati agli obblighi di rinnovamento nel governo della Conferenza episcopale italiana. Il Papa appena eletto ha infatti «nominato» il Cardinale Sodano Segretario di Stato, dando immediata certezza alla sua posizione centrale nel governo della Chiesa, una funzione che la lunga malattia di Giovanni Paolo II aveva appannato per la crescente influenza di un attivo «governo parallelo» presente nella segreteria personale del Papa.

Ma Sodano, che ha 78 anni e che ha già superato per deroga la soglia dei 75, dovrà comunque essere sostituito tra due anni, al raggiungimento del limite di non ammissibilità in Conclave. È molto probabile (ma non è detto) che a questo incarico sia chiamato un italiano, anche per riequilibrare la nazionalità del Sommo Pontefice; quello che sembra inevitabile è che dovrà trattarsi di un porporato idoneo a svolgere il compito più urgente e impegnativo che è nell’agenda di Papa Ratzinger: che non sarà l’impostazione della politica estera, presumibilmente già avvenuta, ma la riorganizzazione della Curia romana, invecchiata e imbolsita dal lungo pontificato del Papa missionario, le cui priorità erano collocate lontane da Roma. Si legherà a questa scelta la sostituzione di Camillo Ruini al vertice dei vescovi italiani, il cui mandato (già rinnovato tre volte, ed è un fatto eccezionale) scadrà l’anno prossimo. Il Cardinale presidente della CEI ha già fatto intendere di voler essere sostituito; ma questa nomina, che si intreccia anche con il ruolo di Vicario papale per la Diocesi di Roma, è destinata, come si diceva, a toccare anche gli equilibri nel governo centrale della Chiesa, soprattutto se, come è probabile, il nuovo Segretario di Stato sarà un italiano.

Veniamo ora al tema della cosiddetta politica estera della Santa Sede. Su chi la guiderà, e cioè la Segreteria di Stato, si è già detto. Conviene aggiungere, per accennare alle sedi e alle persone che la gestiscono, che dopo la fuoriuscita del duo Casaroli- Silvestrini l’appiattimento della struttura sulle posizioni espresse da Papa Wojtyla si è progressivamente accentuata e con la sostituzione del francese Cardinale Touran, antico collaboratore di Si l vestrini, anche la qualità del personale di direzione non è certamente migliorata. La nuova guida papale dovrà qui agire anche sul rinnovamento interno, una necessità che per Ratzinger dovrebbe essere facilitata dalla riforma della Curia di cui si è detto.

Questo fattore romano, e quindi italiano ed europeo, è sempre stato centrale nell’azione e anche nella geografia spirituale di Giovanni Paolo II. Papa Benedetto viaggerà sicuramente di meno del predecessore; ma è certo che la spinta del Ve s c ovo di Roma e del Primate d’Italia si concentrerà innanzitutto su di una vera e propria «campagna missionaria» per l’evangelizzazione dell’ Europa, culla del cristianesimo e luogo di scontro dell’egemonia culturale mondiale. E si tratterà di una battaglia giocata con le finezze di un intellettuale, ma armata da una inflessibile determinazione.

È infatti ben lungi dalle idee del nuovo Papa che il fulcro del futuro della Chiesa debba collocarsi nel Sud del mondo, in Africa o nel lontano Oriente. Questi saranno terreni di retroguardia, da governare con attenzione, fornendo, ad esempio, soluzioni di autogoverno episcopale per grandi regioni o combattendo con decisione i pericoli maggiori, rappresentati dalla proliferazione delle sette o da una certa spinta all’inculturazione tribale. Ma la priorità sarà indubbiamente il cuore cristiano dell’Europa, a partire dalla sua Germania così profondamente in crisi di agnosticismo. Del resto questa priorità la vedremo rapidamente alla prova dei fatti con il grande raduno, ad agosto, dei giovani a Colonia. Potremo allora verificare se il Papa tedesco sarà riuscito a rimuovere quel muro di diffidenza che lo ha circondato in questi anni proprio a partire dai preti e dai vescovi della sua patria. E potremo, in secondo luogo, capire qualità e obiettivi del suo messaggio di riconquista delle coscienze.

Sul fatto che debba essere una battaglia a tutto campo, fermissima sui principi e aggiornata e colta rispetto alle sfide della modernità, non vi sono dubbi. Quello che sarà da verificare, ripeto, sono le modalità e gli strumenti che Papa Benedetto metterà in campo, affiancando lo sforzo degli Episcopati nazionali, sollecitando e, soprattutto, acquisendo energie e mondi nuovi rispetto alla sua campagna di evangelizzazione. Probabilmente la grave crisi in cui versano le classi dirigenti europee e la stessa netta sconfitta della Costituzione che negava le «radici cristiane», potranno aprire varchi prima inesistenti alla presentazione di un messaggio autorevole, capace soprattutto di affrontare alla radice le ragioni della sconfitta e della dequalificazione dell’Europa con il richiamo ai valori profondi espressi da una esperienza storica condivisa.

Nessuno in Vaticano si farà comunque trascinare da questioni e aperture estemporanee, di breve momento. Nessuno si illuderà sul fatto che non ci si sta avviando a ingaggiare una battaglia di lunga lena. Al Papa interessa sicuramente, in questo momento un po’ meno sfavorevole rispetto al recente passato, segnare un punto, tracciare una linea positiva capace di parlare al futuro e alle nuove generazioni, rispetto alla «crisi della cristianità» in Europa. Esserci visibilmente ma al di sopra della crisi, in un ruolo che gli consenta di presentare un quadro di certezze etiche e morali positive, quali premesse di azioni sociali e culturali di movimento, in cui i confusi e anche impauriti cristiani dell’Europa possono riconoscersi.

Ma andiamo oltre, andiamo ad Est.

Giovanni Paolo II, il Papa polacco, considerava la Russia non un corpo diverso rispetto all’Europa, ma un mondo in continuità con essa. Benedetto XVI, il Papa tedesco, la vede collocata al suo posto, al centro dell’Oriente slavo. Giovanni Paolo II era il figlio proletario di un’Europa divisa in blocchi, che lotta per ricongiungerli. Benedetto XVI è un intellettuale del Sud della Germania che conosce bene le differenze storiche che separano Mosca, se non da Berlino certamente da Monaco. È facile ipotizzare che quel che ha impedito al primo il dialogo con il Patriarcato è destinato in qualche maniera a favorire il secondo. È quindi prevedibile che il viaggio a Mosca, tante volte negato, potrà avvenire rapidamente; e che il colloquio con l’Ortodossia produca subito i primi frutti, superando rapidamente il velo dei sospetti e dei reciproci colpi di spillo che lo hanno avvelenato nel passato. Cosa tutto ciò possa produrre nello schema missionario di Ratzinger rimane largamente incerto; ma la porta che era ben serrata comincerà ad aprirsi anche alle parole del Papa di Roma.

Medesimo effetto è probabile che il cambio di pontefice abbia nei confronti della chiusura del contenzioso con la Chiesa patriottica cinese e l’apertura ai cattolici dell’immenso territorio percorso dal gesuita Matteo Ricci cinquecento anni fa. Gli attuali dirigenti cinesi hanno bisogno del mondo e sanno benissimo che la pace con la Chiesa cattolica li favorirebbe, addirittura, rispetto alla proliferazione di tanti movimenti nascosti o illegali sul loro immenso territorio, che da buoni autocrati comunisti temono più del diavolo. La Cina è vista giustamente dalla Santa Sede come una grande terra di missione dalle enormi potenzialità e non solo per l’immensità delle sue moltitudini. L’azione che per lunghi decenni hanno svolto nella clandestinità un numero imprecisato ma sicuramente altissimo di testimoni del Vangelo, di preti e di vescovi, sia sotto forma di «clandestini» che di «patriottici», ha peraltro convinto i responsabili vaticani che lì c’è un cuore pulsante di virtù cristiane, temprato da sofferenze che richiamano tanta martirologia della storia della Chiesa e che proprio per questo può costituire la base di una esperienza di vita apostolica di grande significato. Essa va colta prima che i fenomeni in atto in quell’immenso paese, di inurbamento e di modernizzazione spinta, li sviliscano al punto di rischiare di annullarli.

Ci sono infine tre capitoli dell’agenda papale su cui è opportuno fare un cenno, quanto meno per memoria. Il primo è il dialogo interreligioso che, con il pontificato di Wojtyla, ha indubbiamente avuto grande slancio, che si è peraltro tradotto (come spesso è avvenuto, nella pratica, con il Papa polacco) in un cammino rapsodico, giungendo alla fine a risultati non esaltanti. Questo slancio sarà frenato. E un atteggiamento prudenziale sovraintenderà al cammino, che certamente non si fermerà, rispetto ai fratelli separati. Questo atteggiamento è, in qualche misura, dettato proprio dalle priorità che presumibilmente Ratzinger assumerà nella sua azione pastorale e di cui si è già detto. Ma con una valutazione aggiuntiva, legata appunto alla sua idea delle azioni da mettere in campo per la riconquista dell’ Eu ropa cristiana che pretendono una dose forte di alterità, capace di attirare gli incerti e risvegliare le coscienze dei dubbiosi.

Ragionamento diverso va fatto per la posizione nei confronti degli ebrei. Giovanni Paolo II ha già garantito con i suoi atti profetici, caratterizzati da grande semplicità e coraggio, la base su cui muoversi; e il nuovo Papa ha già dimostrato con chiarezza di voler proseguire sulla medesima strada di apertura e di dialogo, con una coerenza tale da sgombrare fin dall’inizio ogni ipotetico dubbio sulla sua volontà.

Infine, la questione mediorientale e i problemi della pace. È probabile che le novità in corso – rispettivamente in Libano e in Siria – siano i varchi potenziali che la politica vaticana utilizzerà, almeno in questa prima fase, per cercare di riaprire i giochi nell’area mediorientale, allo scopo di rafforzare l’azione e la presenza dei cristiani ove essi possono giocare un ruolo effettivo, anche se tutto ciò potrà apparire meno mitico e simbolico rispetto a una presenza forte nei luoghi santi, a Gerusalemme e in Palestina. Va da sé che la politica di Giovanni Paolo II rispetto a Israele, la cui esistenza e sicurezza venivano assunte come un elemento di equilibrio della regione, sarà confermata e sostenuta.

Difficile ipotizzare, infine, modifiche sostanziali rispetto al dialogo interreligioso con l’Islam, su cui il Papa defunto si era decisamente impegnato, soprattutto per il tramite dei caratteristici gesti simbolici e missionari che ne hanno illuminato i più recenti viaggi nell’area. Ratzinger, come detto, non tornerà indietro, ma esprimerà prudenza, mettendo assai più l’accento sull’identità cristiana che sugli «obblighi» dell’incontro. È più facile insomma prevedere il nuovo Papa comparire nella Piazza della Libertà di Beirut a sostenere un rinnovato protagonismo cristiano, piuttosto che la sua veste bianca appaia sull’uscio di qualche storica moschea mediorientale, magari proprio a Baghdad, per rendere un omaggio «paritario» all’antico combattente.

Un’ultima considerazione infine è d’obbligo per le prospettive di azione e di influenza che Papa Benedetto non potrà non avere anche nella vicenda politica del nostro paese. Sulle reciproche influenze tra rinnovamento della Curia e modifiche, diciamo così, generazionali nel vertice della Chiesa italiana si è già fatto cenno: i movimenti che ne scaturiranno sono di per sé destinati a influenzare anche le scelte «temporali» della cattolicità italiana. Certo che l’elezione di un Papa italiano avrebbe avuto tutt’altro impatto su di una realtà in cui confusione, pressappochismo e indeterminatezza etica e culturale sono una costante, mentre la spinta a una presenza cattolica in quanto tale nella politica appare già forte ed è destinata inevitabilmente a crescere e a imporsi quasi come un obbligo. Non è stato così, forse per sottovalutazione, certamente per carenze. È stato eletto un tedesco e l’Italia laica, comunque veda il tema, dovrà accontentarsi al più di un patronage ridotto, certamente più che dimezzato rispetto alle forze in campo nella competizione mondiale. Ma per l’Italia politica, per le sue classi dirigenti, per la condizione preagonica che sembra segnare il sistema in questo difficile passaggio? È argomento troppo complesso per scioglierlo in poche righe. Certo è che dovremmo vivamente augurarci, credenti e non credenti, che il tedesco che ha imparato ad amare l’Italia, che ormai la conosce bene dopo ventiquattro anni di vita passati a Borgo Pio, sappia superare la timidezza che lo contraddistingue e la tradizione di grande rispetto che espresse sempre il suo predecessore, e finalmente si «impicci» sul serio di questo povero paese.