Diario americano 7

Di Giulio Sapelli Lunedì 02 Gennaio 2006 02:00 Stampa

Ritorno. Eccomi di nuovo qui. Sono uscito presto dall’albergo e sono stato scaricato da un taxi dinanzi alla decrepita chiesa cattolica dell’Università di New York. Lo stesso odore stantio di quei tempi che sentivo quando entravo la domenica presto, prima della messa, quando studiavo nella città terribile e incantata nei mesi in cui ero invitato come ospite dal Remarque Institute, che è chiuso. Lascio, allora, al portiere che non è più lo stesso, un biglietto per il direttore e l’adorabile segretaria e me ne vado. Ma a quell’odore fa riscontro, in un’immaginifica lotta, il profumo dei fiori raccolti in modestissimi vasi di plastica che sono posti in tutti gli angoli e a capo dell’altare. Fiori umili e sempre freschi, odorosi di quell’indefinibile pneuma che è ben più del soave profluvio della natura: è già un inno alla mortificazione e alla cristiana letizia insieme. E questo perché sono fiori modesti, in sé raccolti, ed estranei, in definitiva, al rutilante girare del mondo che si snoda appena esci dal sagrato e ti immergi in Washington Square e quindi nell’universo-mondo dell’economia monetaria in cui vivono le persone, qui più di ogni altro luogo. Attorno a me nessuno.

 

Ritorno. Eccomi di nuovo qui. Sono uscito presto dall’albergo e sono stato scaricato da un taxi dinanzi alla decrepita chiesa cattolica dell’Università di New York. Lo stesso odore stantio di quei tempi che sentivo quando entravo la domenica presto, prima della messa, quando studiavo nella città terribile e incantata nei mesi in cui ero invitato come ospite dal Remarque Institute, che è chiuso. Lascio, allora, al portiere che non è più lo stesso, un biglietto per il direttore e l’adorabile segretaria e me ne vado. Ma a quell’odore fa riscontro, in un’immaginifica lotta, il profumo dei fiori raccolti in modestissimi vasi di plastica che sono posti in tutti gli angoli e a capo dell’altare. Fiori umili e sempre freschi, odorosi di quell’indefinibile pneuma che è ben più del soave profluvio della natura: è già un inno alla mortificazione e alla cristiana letizia insieme. E questo perché sono fiori modesti, in sé raccolti, ed estranei, in definitiva, al rutilante girare del mondo che si snoda appena esci dal sagrato e ti immergi in Washington Square e quindi nell’universo-mondo dell’economia monetaria in cui vivono le persone, qui più di ogni altro luogo. Attorno a me nessuno. C’è solo una piccola bambina di colore, non nera, ma sicuramente india, di non so quale paese dell’America del Sud o Centrale, che prega composta e serena, come mai ho visto pregare altrove, se non in Georgia, lo ricordo bene, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quando mi ritrovai con pochi cari amici a Tiblisi, nel corso della glasnost e le chiese erano piene di fedeli, soprattutto donne giovani e bellissime, che pregavano anch’esse con dedizione e devozione assoluta, in ginocchio sul pavimento, dinanzi ad altari sacri e riconsacrati dai pochi preti di cui quelle straordinarie chiese disponevano. Anche lì traluceva il bisogno di sacro e di trascendenza. In Georgia, tuttavia, quel bisogno s’inverava perché c’era lo slancio verso una liberazione anche mondana, profana, che è la libertà, quella libertà che dà vita e sostanza ogni giorno all’incarnazione, come ben sa chi lotta, portandosi appresso la sua fede, nelle condizioni più terribili dell’umiliazione. Ed è questo il segreto vitale di quella teologia che fece e fa ancora della povertà il segno di una condivisione piuttosto che di una compassione. Ed è per questo che il profano che sempre corrode la Chiesa, l’ha ridotta, quella teologia, in frammenti laceri e dispersi. Qui a New York il pregare dei poveri, con i poveri e per i poveri, è diverso. Qui la preghiera cattolica apostolica romana è manifestazione di riparo, di sostegno: è un brano, il più bello, del discorso dalla montagna, è l’anelito dei mansueti, è la gloria degli ultimi nel susseguirsi ruggente dei primi che misurano le cose mentre le corrompono. Qui, la preghiera, in questa umile chiesa che cade in pezzi per la scarsità di offerte ma anche per la presenza di fedeli goffi, che barcollano, che s’appoggiano ovunque, portando con sé bimbi a cui nulla sfugge e che tutto manipolano, toccano, raccolgono per giocare e pregare insieme, qui, sotto la fiaccola del Sacramento che arde nell’altare, qui la preghiera è un segno della forza della vita e della sottrazione, anche solo per un momento, alla reificazione e all’estraniazione. Cerco con gli occhi il sacerdote, il parroco, il cappellano dell’università – perché è tutte queste cose insieme – e non lo trovo. Entro in sacrestia e vedo chino sui libri un uomo che mi volge la schiena, in maglietta a righe pasoliniana e in jeans sdruciti, i lunghi capelli scomposti. Sto per uscire quando mi sento chiamare con un «Professor!» che sa di sacerdote, di ministro che dall’altare con i paramenti recita le preghiere e poi scende tra i fedeli, officiato il rito, per salutarli uno a uno e quindi lo riconosco: è lui, quell’uomo dinoccolato, un po’ spento; e comprendo, finalmente, qui, in questa chiesa così povera e accerchiata, quale luce proietti sul sacerdote il ruolo liturgico, quali aspettative noi fedeli ogni volta su di lui concentriamo e quali domande in cuor nostro, tramite il suo, rivolgiamo a chi non osiamo interpellare in prima persona per giusta modestia, a differenza di altre religioni che chiedono all’uomo una tragica esperienza ogni volta che vuol avvicinarsi all’infinito della divinità. È lui che ora si rivolge a me e ansioso mi saluta, chiedendomi come sto, come vanno i miei studi e le mie folli attività e apre, da uno scatolone di carta che lo riveste, un frigorifero e versa una birra per lui e una coca-cola per me e brinda felice di aver ritrovato un amico, anche se così per poco tempo. Ecco il susseguirsi delle cose rutilanti e reificate, infatti. Debbo lasciarlo. È gia tardi. Sono le otto del mattino: mi attendono fuori con l’auto che ci accompagnerà in questi giorni per il nostro consueto giro tra gli stand del mercato dei capitali, i banchetti del private equity, il tiro a segno degli strumenti finanziari. Altro giro, altro girone di una ascesa e discesa che non è né al paradiso né all’inferno: è piuttosto un passeggiare per purgatori rutilanti e tirati a lucido con intervalli eccentrici sempre più frequenti e imprevedibili, come le attese che si dipanano nel sommo poema mentre si attende di scontare i propri peccati. E mentre sto per scendere – o salire? – le scale dei gironi del sommo padre Dante – senza il quale non sarebbe esistita la grande poesia del Novecento – ripenso al parroco della chiesa universitaria e mi vengono a mente le riflessioni di Doblin sugli ebrei delle terre più povere e comunitarie per eccellenza della Mitteleuropa, così come li vedevano, con lui, gli assimilati tra le due guerre, prima della tragedia dello sterminio. La religione li possedeva e ne definiva la personalità tutta, dal controllo corporeo a l l’ispirazione a una teodicea che misurava tutti i passi del loro cammino di vita. Di fronte a essi stavano coloro che non ne erano posseduti, ma possedevano la religione stessa, che ne utilizzavano le realizzazioni mondane come un insieme di habitus, di pratiche e di riti sociali, su cui già Constant e Chateaubriand, con spirito sommamente diverso, beninteso, hanno scritto pagine meravigliose e dimenticate, come lo sono quelle di Simmel a questo proposito. A questa diversità tra devozione e istituzione, tra essere e avere, tra fede e religione, pensavo, mentre si aprivano le porte dei santuari mondani del denaro, da illuminare e rischiarare con la forza della ragione e della fede.

«Allor fu la paura un poco queta/che nel lago del cor m’era durata/le notti ch’io passai con tanta pietà». Questi versi del Canto primo dell’Inferno mi vennero alla mente e mi resero consapevole che solo il tremore di perdere la grazia mi salva spesso dall’abbandonarmi alla glorificazione di quei santuari. Certo, sempre penso a quanto essi contribuiscono virtuosamente alla circolazione del capitale e della conoscenza e del lavoro, ma non so sottrarmi alla retorica della loro demonizzazione.

È una debolezza che denota una assenza di assertività morale che penso non mi manchi, ma che, al contrario, non ho mai abbastanza. È per questo che devo ancora meditare sulla via della mia compiuta individualizzazione, così da dominare spiritualmente l’economia monetaria e non essere dominato, invece, da essa.

 

Tre figlie, tre alleanze, un inner circle

«Three car payment. Three private colleges. Three weddings. I think I am having chest pains. How are we going to pay for all this? Invest? Invest in what? The market is more unpredictable than our daughters». Ecco che cosa leggo in auto mentre mi avvio al primo incontro con gli analisti e gli investitori. È una scritta fine fine, piccola piccola, che sta sotto una rassicurante fotografia di tre belle fanciulle sedute su un divano, anzi semisdraiate in pose per nulla provocanti, evocanti, invece, una quiete famigliare che non si trova più, ma che si sogna e si vorrebbe condividere. È una pubblicità che appare sul «New Yorker» e che quindi è destinata a un pubblico assai speciale, ma che ritroverò anche quando varcherò la sede della compagnia finanziaria che di essa si fa portatrice: Morgan Stanley. E sotto il logo della stessa campeggia una scritta più decisa e rassicurante insieme: «Emotional times require sound, un emotional financial advice. One client at a time». Che si vuole di più? C’è un grande protagonista dei mercati che penserà a voi, alla vostra famiglia, a tre figliole, e penserà alla loro crescita che vuol dire non rinunciare a nulla: né nei consumi (le auto), né nell’educazione (i college). E poi penserà anche a far sì ch’esse possano essere scambiate nel mercato delle donne e delle alleanze famigliari, come ci ha insegnato Levy Strauss, con tutti i piaceri e gli onori; chissà, godendo anch’esse della possibilità di poter acquistare un posto al sole del mercato delle alleanze della riproduzione biologica e sociale sulla fatidica pagina domenicale del «New York Times» dedicata, appunto, ai matrimoni della classe agiata. Chi ha i capitali materiali e immateriali, ossia il denaro e l’appartenenza all’inner circle, che gli consentono di apparire su quella pagina, gode di un vantaggio competitivo formidabile nel mercato della vita e già ipoteca il futuro dei propri figlioli in senso più che positivo. Non esiste classe agiata senza reticolo dei matrimoni e delle alleanze famigliari fondate sul mercato della comunicazione di massa, da un lato, e sulla garanzia che viene offerta dall’investimento a lungo termine curato dai grandi protagonisti del mercato finanziario, come Morgan Stanley, appunto, dall’altro.

Ecco il segreto, inoltre, ecco la motivazione profonda dell’assenza di risparmio – rispetto agli alti livelli che si riscontrano in Europa e in Giappone – pur in una società a basso gradiente di welfare quale sono gli Stati Uniti. E così il mercato ha un formidabile consenso. Lo sostiene una morale di sostegno che è quella del self help, assai diversa da quella continentale asiatica ed europea. Lì il mercato è sostenuto, paradossalmente, non da una morale che lo regola, ma che, invece, lo limita: è sostenuto dalla regola della sua limitazione, ossia dal riconoscimento – giusto o sbagliato che sia – della sua incapacità di offrire beni pubblici come il vivere in condizioni di sicurezza anche se si è malati, anche se non si lavora, anche se si cade nelle spire della storia che distrugge e scardina, anziché costruire e rifondare. Negli Stati Uniti – e solo dopo la rivoluzione thatcheriana anche in Gran Bretagna – è al mercato, oltreché allo Stato che si riconoscono queste doti possibili. E per far ciò, infatti, non si ricorre soltanto alla logica attuariale dell’accumulazione di capitali che da personali diventano sociali attraverso fondi pensioni, mutue finanziarie, ecc. Si ricorre al rischio dell’investimento su larga scala nei mercati dei diritti di proprietà. Essi divengono un vero e proprio modello sociale che può generare sì paurose crisi, ma anche assicurare ben più pervasivamente progresso sociale, sicurezza, inclusione di immense nuove moltitudini che vengono da ogni parte del mondo. I mondani santuari svolgono bene il loro compito di custodi della riproduzione sociale e a essi si levano i riti di ringraziamento che il messaggio pubblicitario condensa e rapprende in un gioco di sintesi metaforico-semiologica quanto mai eloquente.

 

Non può ritornare

Ha un piglio deciso, ha una barbetta appuntita e delle basette che gli arrivano quasi fino agli angoli della bocca, ha un sorriso sardonico che non è mai indisponente, ha delle braccia lunghe lunghe e fini fini, ha due gambette sbilenche e un torso striminzito che la maglietta di un color ocra indefinibile nelle sfumature e nell’assenza di quotidiani lavacri rende evidente e in una continuità ossea in rilievo con dei jeans scuciti e sdruciti. Al suo fianco un ciccione simpatico in maniche di camicia, biondo, che contrasta con il nero dei capelli, dei peli, degli occhi del suo compagno. Un ciccione che ride e che è una macchina calcolatrice implacabile e che conosce la nostra società come le sue tasche, la studia, l’ha studiata e ristudiata con indefessa lena e che lascia stupiti per le trappole che ci tende con grafici che disegna con rapida perizia e precisa efferatezza ogni qualvolta le nostre risposte non lo soddisfano. Siamo in una saletta senza sbocchi se non la porta da cui siamo entrati, con le spalle al muro e dinanzi a noi il corridoio di un susseguirsi di studioli tutti aperti alla visione ma chiusi al rumore, si vede ma non si sente, perché il vetro isola e – ci spiegano – è stato pensato per risparmiare energia come in tutto l’ambiente, del resto. A mezzogiorno, mentre sudiamo sui grafici del ciccione biondo gradevole, sotto l’occhio di falco del nero e ossuto suo compagno, che è il capo della società che ha un bilancio stratosferico, arrivano delle ragazze seminude simpaticissime che lasciano, su una sottile consolle che segue, tutte le cellette ergonomiche e bioniche, piatti, piattini, vassoi e vassoietti e bottiglie e bottigliette di insalatine, insalatone, panini e torte di verdure. Tutte biologiche, mi dice il nero e ossuto, che intanto ha smesso di criticare e conferma che verso di noi – bontà sua – continuerà ad avere l’interesse manifestato già in passato. E questo rincuora e mi spinge a sorridere di più, anche quando mangio i pericolosissimi e putrescenti panini biologici, organici, alternativi. Pericolosissimi per l’igiene e la salute, come dimostra, del resto, l’effetto lombrosiano esteriore dei due interlocutori. Senza ritorno: così noi siamo, siamo nelle loro mani, non potranno farci prigionieri. Dovranno mangiarci, non c’è dubbio, se non aderiamo alle loro abitudini alimentari. Debbono diventare le nostre. Ma sui succhi alternativi non cedo: fanno le bolle, mi pare che ci siano residui nelle bottigliette. Mi assicurano che non si tratta di cose brutte, ma che sono garanzia di autenticità – ecco uno degli altri miti distruttori del nostro tempo – come il vino buono.

Non credo che mai l’abbiano bevuto e penso al mio barbera, al mio nebiolo, al mio barolo, ai miei amatissimi vini francesi e in cuor mio piango dinanzi alla nuova finanza alternativa. Senza ritorno.

 

Audrey Hepburn et Hubert de Givenchy

Ricordo sempre la grande commozione che mi fece la fotografia scattata nel 1982 da Jacques Scandelari e che vidi dapprima nel suo studio parigino e poi ritrovai in un’edicola del Musèe de la Mode sul lungosenna, anni dopo. In primo piano a destra, ben posta in risalto dal contesto e dalla profondità di campo che a quei tempi era il frutto di una lunga e meravigliosa esperienza ottica del fotografo, una coppia di persone fuggenti: lei con un impermeabile bianco svolazzante e lui in giacchetta sportiva con nella mano sinistra una borsa, l’un con l’altro sorreggentisi e speditamente in moto. Sopra di loro un chiaroscuro brumoso che era veramente la quintessenza della pioggerellina parigina di ogni giorno, che cade anche quando non c’è il sole, ma non piove; ma esiste e lo sai. E poco più in là, sempre sulla soglia estrema, alta, della fotografia, ecco comparire dalle brume la Tour Eiffel, che dominava la scena dall’altro lato di un fiume che non poteva che essere, appunto, la Senna. E tutto improvvisamente acquistava nitidezza: la profondità di campo disvelava la sua meravigliosa capacità creativa e due figure, l’una con l’altra allacciate nel cammino, prendevano il loro posto centrale ed essenziale nell’insieme dello spazio riconsegnato all’essere dalla camera chiara della fotografia. L’uomo era un alto signore dai vestiti scuri e dai candidi capelli, camicia bianca e cravatta anch’essa scura; camminava con una naturale eleganza accentuata dalla mano che appariva da sotto il revers dell’impermeabile, sopra la spalla della sua accompagnatrice: una mano lunga, affusolata, come quella di un pianista alla Cortot e posata sulla scapola, così che l’accarezzava e la sorreggeva insieme, quella deliziosa creatura che accanto a lui camminava. Era una donna che sembrava una regina per il suo andare per strada con il bacino portato con naturalezza leggermente, impercettibilmente, in avanti, come tutte le donne che hanno praticato la danza classica sin da bambine e che riconosci, appunto, da come pongono i piedi quando sono ferme e distanti da te – così che puoi ammirarle in tutta la loro grazia – e che riconosci e te ne innamori per un istante da come camminano, leggermente in avanti, ripeto, con dei magnifici, ossuti e sensuali bacini che le annunciano come dispensatrici di grazia infinita e lievità trascendentali. La signora era alta, meno alta del suo altissimo accompagnatore e portava un trench che è sempre rimasto in me come il modello dell’eleganza e che faceva trasparire nell’attimo colto dallo scatto dell’obbiettivo dei sobri pantaloni neri portati in modo che lambissero delle basse scarpe anch’esse nere. I capelli erano raccolti a crocchia con naturalezza e davano risalto a un viso di una bellezza estrema perché discretamente invisibile, costantemente impressa nel cuore dopo che quel volto vi aveva colmato di stupore, di magnificente stupore. Dalla coppia emanava un’aura inaudita di snobismo che non ho mai più ritrovato altrove, con tutta la mia assoluta volontà di ricrearla, quell’aura, anche laddove non avrebbe mai potuto esistere. Quell’aura è sempre rimasta in me e per me come il culmine della raffinatezza: «Vedi – mi disse il fotografo – lui è Hubert de Givenchy e lei è, si è proprio lei, è Audrey Hepburn». Così recita, del resto, la fotografia ora in mio possesso, perché se ne stamparono delle copie che vennero vendute a pochi appassionati, che potevano leggere una didascalia che così recitava, laconicamente: «Audrey Hepburn et Hubert de Givenchy. Paris en 1982. Photo: Jacques Scandelari».

Ora dinanzi a me passa e ripassa una signorina che cammina con grazia, ha dei pantaloni neri che cadono appena a filo sulle sue ossute caviglie e che cammina con un bacino leggerissimamente spostato in avanti. Ha i capelli anch’essa raccolti in una crocchia che ogni tanto, quando si muove, perde dei fili di seta nera che con civetteria sono raccolti e rigettati indietro con forza e grazia insieme. Potrebbe ricreare l’aura? Forse, se avesse un compagno diverso da quello che ha: un signore per nulla distinto, imponente, dai capelli brizzolati e non bianchi, con delle mani per nulla affusolate, che trasuda ricchezza accessoriale con una volgarità devastante, che suscita ammirazione tra gli astanti che non siano la piccola minoranza che amo (e siamo solo in due). Porta una giacca blu che ha degli orribili e importabili bottoni dorati, una camicia a righe bianche e rosse con colletto bianco e una cravatta regimental dalle tinte quasi fosforescenti che spiccano su un paio di bianchi pantaloni immacolati di velluto di cui pare molto fiero. È uno degli uomini più potenti del mercato finanziario mondiale e tutti sono stupiti che abbia potuto riceverci e invitarci a colazione in una delle decine di sale da pranzo che si susseguono in un maestoso corridoio pieno e ripieno di opere d’arte. Sono esposte con magniloquenza e opulenza, tanto che sembrano finte, opere di un bazar trasmigrante e in costante attesa di essere acquistate dagli acquirenti che si riuniscono nelle bellissime, lussuosissime sale dove sono raccolti gli eletti. In realtà debbono impressionare gli astanti, cosicché le didascalie del nome degli artisti sono più illuminate delle opere e le opere perdono in splendore con il loro essere affastellate in un ambiente che sa di cucina.

È lei che parla: ha studiato la nostra società per azioni e ha voluto iniziare lei non dalla consueta nostra presentazione di rito, ma da una serie di domande che si è preparata con cura, scegliendo anche dei termini italiani ogni qualvolta fa riferimento alle attività e alle denominazioni delle nostre autorità indipendenti e alle procedure ch’esse ci obbligano a seguire e a perseguire. Lei lo sa, lei sa tutto, sa tutto sull’Italia che adora e anche lui l’adora, la divora con gli occhi e gli occhi hanno un blu intenso che doveva illuminare la sua maschile giovinezza quando questa si manifestava come dono degli Dei e che ora rimane solo come un battito spento, che fa nuance con l’azzurro della bandiera nordamericana che tiene appuntata sul risvolto della giacca e che spesso accarezza con un gesto meccanico. E qui l’aura non si ricrea, non appare, non si ricompone il miracolo della sua esistenza, a dimostrarci – se non ne fossimo di già convinti – che la ricchezza non possa mai essere condizione sufficiente di essa. Forse, in taluni casi, necessaria, ma mai sufficiente.

Siamo nel cuore della più importante istituzione finanziaria mondiale e non si ha sentore della potenza economica, quanto piuttosto di quella culturale, sottilmente pervasiva e che consiste nel sottrarre cultura, nel sottrarre comunicazione relazionale all’essere nell’economia monetaria. Un far sottrazione che consiste nel ridurre anche le questioni più complesse a semplici serie di numeri e a semplici sequele di parole e al massimo di frasi compiute senza consecutio temporum che si susseguono su slides che vengono proiettate anche durante la nostra colazione, solo arricchite dalla vibrante ombra provocata dal passaggio delle giovani cameriere che, sole, infondono un segno di vita in quel mondo di ombre inanimate che si dipana dinanzi a noi. Ecco il segreto della potenza dell’economia monetaria dominante: distruggere tutta l’aura, fare a pezzi ogni raffinatezza spirituale per enfatizzare la ridondanza simbolica materiale, considerare superflua ogni non immediata concretizzazione dell’essere nel fare. E in tal modo si accumulano montagne di sofferenze e di sprechi culturali e sociali, si diffonde l’idea che possa esistere una sola economia e non, invece, una ben nutrita serie di scelte polifoniche che possono essere costruite dalle relazioni sociali anche laddove più impalpabile, più assoluto, sembra il dominio della moneta e della sua circolazione simbolica. Ovunque possiamo dar vita alle merci attraverso, appunto, l’interazione significante, e se tra tali significati poniamo la valorizzazione della persona, ebbene, anche la più complessa e difficile e apparentemente arida relazione monetaria può divenire relazione sociale e arricchirsi di trascendenze culturali. È come nella fotografia leggendaria ricordata prima. La realtà è fatta della coppia che passa frettolosa con una borsa in mano e un impermeabile svolazzante? È fatta solo di quelle due figure che ci voltano la schiena e non ci parlano, non dicono nulla al nostro cuore? Mi rifiuto di crederlo. C’è sempre la realtà di Audrey e di Hubert che illumina l’esserci nel mondo e lo rischiara e ci fa dire che anche i più meccanici gesti che accarezzano le bandiere nazionali portate sulle giacche blu che piombano sui pantaloni bianchi, anche i più meccanici gesti possono non colmare interamente di sé lo spazio pubblico in cui si forma e si dipana il vivere sociale. Possono, debbono esistere altri gesti, altre culture, altre presenti e forti mediazioni con la vita che non sono altro, in sostanza, che una serie di meditate e sottili mediazioni con la crudeltà della società che consentono ininterrottamente, pur che lo si voglia, di far risorgere ogni volta la speranza di una risurrezione della grazia.

Così anche una colazione d’affari può divenire una rimeditazione su un periodo magico della mia vita e su una scommessa che non voglio più perdere. Ma non può più far risorgere l’aura.

 

L’europeo irriducibile e il sogno culturale nordamericano

Ha una classe innata. È alto. I capelli impomatati e lucidissimi. Le basette lunghe ma ben curate. Sempre le camicie bianche. Ha un andamento che fa oscillare delicatamente le cravatte sempre rigorosamente italiane. I vestiti sono quelli che piacciono a me: a un petto solo, grigi o blu, con dei blazer discretissimi. Certo io non ho più il suo figurino: peso ormai venticinque chili più di lui e il mio peso forma è scomparso nel nulla, nelle memorie di un ex fumatore e di un inguaribile, insaziabile, divoratore di tutto, anche di alcool e di cibo. Tutto mi è subito piaciuto di lui. Appena ci siamo conosciuti in un incontro molto tecnico e formale è scattata una simpatia immediata, mai nascosta e nutrita, da parte sua, di una deferenza morbida e piena di rispetto umano per il vecchio professore malato di governance e di chiarezza intellettuale costi quel che costi. E, da parte mia, fondata su un’ammirazione per la competenza, la visione di lungo periodo, il distacco verso un mondo a cui appartiene interamente sul piano dell’esperienza per esserne fuori su quello mentale e simbolico. Un amico, insomma, tanto più giovane e verso il quale ho spesso un moto non di invidia – non conosco l’invidia – ma di rimpianto, perché la sua strada avrebbe potuto, tanti anni or sono, essere la mia, se gli studi non v’avessero irretito per sempre, salvo ciò che accade in questi ultimi dieci anni della mia vita, con mio sempre più crescente stupore. Il mio amico gestisce un fondo importantissimo, propaggine di un’immensa e blasonata compagnia finanziaria europea che ha qui a New York il suo quartier generale nordamericano. Ci ha incoraggiato sin dall’inizio, ha seguito l’azienda che presiedo con partecipazione e interesse, scontando tutti i limiti, i trabocchetti, le falsità da bassa cucina, che un azionista pubblico non corretto gli tese nei primi tempi della nostra amicizia, con strette di mano e manifestazioni d’impegno a cui regolarmente con si dava corso. Io mi riempivo di vergogna; lui non si scomponeva e rimaneva fedele al patto stretto tra noi due, e a quel patto è sempre stato di una fedeltà esemplare e preclara. Via via ci siamo conosciuti di più ed è stata la politica, sì la politica, nonostante l’esempio infame che di essa egli aveva ricevuto in Italia dal suo interlocutore mio azionista di maggioranza, è stata la politica a farci amare l’un l’altro. La passione civile.

Essa fonda sempre l’agire economico ispirato non solo dall’integrità, ma altresì dal rispetto verso quel fattore essenziale di vita sociale buona che è il tempo e la fedeltà nel tempo agli impegni assunti, nel tempo e per il tempo. È per la politica che soffre, qui a New York, qui negli Stati Uniti. Soffre di essere così europeo. E ora, ancor più soffre perché c’è la guerra in Iraq e nel mondo, come egli dice quando pensa alla retorica antiterroristica come la chiave in perfetto slang politically correct. Manda i suoi figli alla scuola francese perché non perdano la lingua degli avi e tentenna ogni volta gli offrono un incarico nel vecchio continente. L’Europa la ricrea qui a New York ogni volta che può. Frequenta ristoranti europei, legge libri europei, non si fida neppure della mia passione per il «New Yorker» – europea come non può essere europea nessuna rivista europea – e crede che solo «Le monde» lo faccia vivere intellettualmente. Naturalmente non condivide le mie ipotesi sul declino francese per via dell’acceso nazionalismo che si è impadronito di quella ch’era la mia patria intellettuale e che ormai ho disconosciuto, rimanendo uno sradicato perenne, un esiliato assoluto sul piano della cultura, nel mondo vivente e in quello trascendente. No, lui non è così, anche se non ha tempo di leggere né Chateaubriand né Stendhal, anche se non viaggia come vorrebbe, anche se vorrebbe più dedicarsi al teatro e alle arti. L’Europa è il suo saldo e irreversibile punto di riferimento

E allora mi ricorda sempre, quando penso a lui – e ci penso spesso anche se lui non lo sa – che anche i nordamericani hanno aiutato l’Europa a identificare se stessa, a creare se stessa, a fondare il suo primato intellettuale che per un secolo circa ha continuato a rinnovare. Non c’è solo stata l’emigrazione di Eliot e di Pound, anch’essi, del resto, alla ricerca d’Europa, ma per un’esperienza solitaria e personalissima. C’è stata anche – eccola che ritorna – l’amata Gertrude Stein. Chi le fa il ritratto appena giunta a Parigi? Un piccolo pittore catalano dagli occhi ardenti che si chiama Picasso e che Matisse porta nella casa dell’americana vorace di esperienze e di uomini. Ed è a casa di Gertrude che Picasso scopre l’arte africana ed è partendo da lei che ne farà quell’uso esplosivo, rivoluzionario e violento, che sconvolgerà le arti del secolo terribile. Ecco un esempio da manuale di cross fertilisation culturale che rimarrà negli annali della storia mondiale. Così come farà più discretamente, tanto più discretamente, la signorina Singer, la quale, stanca di pensare alle macchine da cucire del padre, verrà a Parigi, sposerà il principe di Polignac e darà vita a una fondazione che tra le cose preziose che fa, raccoglie la corrispondenza di Gaugin, il mio amato amatissimo Gaugin, dedica attenzione, denaro, passione a questo autore straordinario dei miti antropologici del nostro tempo, fondando il museo Gaugin a Thaiti e facendo ogni cosa affinché del pittore e dell’intellettuale si diffondesse e si diffonda un’immagine che ne restituisse l’immane grandezza, al di là del simbolismo pittorico e tutta denotata dall’esperienza della modernità lacerata delle culture che non appartengono all’Europa – e pur ce l’ho assai con la Fondazione Singer Polignac: non pubblica, ormai da anni, la corrispondenza di Gaugin e non concede a nessuno il permesso di consultarla e così facendo m’impedisce di scrivere il libro che vorrei fosse quello della mia vita sradicata.

La nostalgia dell’Europa non può mai far dimenticare quanto la presenza nordamericana ha fatto per farla crescere, la cultura europea, e quale valore rivoluzionario l’esperienza nordamericana abbia sempre avuto nel vecchio continente. È questo che vorrei far capire al più colto degli operatori finanziari che ho mai incontrato, al più sensibile amico che il road show mi abbia donato e che, in definitiva, anche questa esperienza di governo dell’impresa mi consente di assumere nella costruzione della mia coscienza senza rimpianti e con pura gioia. Non v’è dubbio che prima o poi comprenderà pienamente quanto voglio trasmettergli, riempiendomi di felicità