Un capitalismo in cerca di nuovi padroni. Perché le imprese italiane non crescono?

Di Sandro Trento Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Nell’interessante dialogo tra Alessandro Profumo e Massimo D’Alema, pubblicato sul numero scorso di «Italianieuropei», sono stati toccati molti dei temi cruciali che riguardano le difficoltà di sviluppo dell’economia italiana e le caratteristiche di fondo del nostro capitalismo, dalla questione della scarsa crescita delle imprese all’indebolimento del nostro sistema imprenditoriale, dalle liberalizzazioni al ruolo del sistema finanziario. L’intervista offre lo spunto per alcune considerazioni sulla frammentazione del nostro sistema produttivo e sul modello italiano di capitalismo.

 

Nell’interessante dialogo tra Alessandro Profumo e Massimo D’Alema, pubblicato sul numero scorso di «Italianieuropei»,2 sono stati toccati molti dei temi cruciali che riguardano le difficoltà di sviluppo dell’economia italiana e le caratteristiche di fondo del nostro capitalismo, dalla questione della scarsa crescita delle imprese all’indebolimento del nostro sistema imprenditoriale, dalle liberalizzazioni al ruolo del sistema finanziario. L’intervista offre lo spunto per alcune considerazioni sulla frammentazione del nostro sistema produttivo e sul modello italiano di capitalismo.

 

Un modello industriale in grave difficoltà

L’industria degli analisti del presunto declino è ormai fiorente. In questa sede è sufficiente richiamare alcuni fatti stilizzati.

  1. L’economia italiana da molti anni cresce poco rispetto al proprio passato e nel confronto con altri paesi.3
  2. Un evento rilevante degli anni Novanta è stata la larga diffusione, prima negli Stati Uniti e poi in altri paesi avanzati, della rivoluzione tecnologica incentrata sulla microelettronica e sull’informatica. L’Italia ne è stata interessata solo marginalmente.
  3. Le imprese italiane sono tra quelle che maggiormente risentono della crescente concorrenza proveniente dai paesi emergenti dell’Estremo Oriente e dell’Europa centro-orientale. La nostra quota, a prezzi costanti, sul commercio mondiale è scesa tra il 1995 e il 2004 dal 4,6% al 2,9%. Il nostro modello di specializzazione, negli ultimi venti anni, non è stato modificato, anzi ha accresciuto la propria polarizzazione: pochi settori e molto presenti in quei pochi settori. Il modello italiano è divenuto via via più distante da quello tipico della Francia e della Germania – per non citare gli Stati Uniti – e sempre più simile invece a quello dei paesi emergenti. 

  4. La posizione competitiva dell’Italia è comunque peggiorata in quasi tutti i settori e ciò indica la presenza di fattori di sistema (e non specifici a singoli comparti) che hanno avuto effetti negativi sull’intero sistema industriale. 

  5. La perdita di competitività dei prodotti italiani è in parte non trascurabile dovuta anche al forte aumento del costo del lavoro per unità di prodotto, rispetto a quanto avvenuto nei paesi concorrenti. Questo fenomeno è dovuto non alla crescita dei salari, ma quasi interamente alla insufficiente dinamica della nostra produttività del lavoro. La produttività totale dei fattori (misura della capacità di innovazione di un sistema economico) è addirittura diminuita nella seconda metà degli anni Novanta, evento pressoché unico nella storia di un paese industrializzato. Ristagno o calo della produttività sono segni di un mancato ammodernamento del nostro sistema produttivo e di gravi deficit nella qualificazione e nel capitale umano della nostra forza lavoro.

  6. La perdita di competitività dipende in parte dall’insufficiente sviluppo del settore terziario4 e dalla persistenza di ostacoli alla concorrenza derivanti dalla regolamentazione in questo comparto. Non è comunque questa la causa principale. Del resto, dal 1990 al 2004 il settore terziario ha senza dubbio registrato forme di liberalizzazione: energia, telecomunicazioni, commercio, trasporti, banche.

In che modo possono essere ricollegati tra loro questi fatti stilizzati? Forse lo si può fare tenendo conto di un altro tratto peculiare del nostro modello industriale: la frammentazione dimensionale. Negli ultimi decenni si è registrato in Italia un progressivo calo delle dimensioni medie d’azienda, accompagnato dalla grande diffusione del lavoro autonomo.5 Si tratta di fenomeni che non hanno riscontro, con tale intensità, negli altri paesi più industrializzati. Se anche si esclude il lavoro autonomo, permane un’anomala, eccessiva diffusione di piccolissime imprese: 3,9 addetti in media per impresa (secondo il censimento ISTAT del 2001) o 7,5 dipendenti per impresa se escludiamo il lavoro autonomo, contro valori attorno ai 18-20 addetti in altri paesi avanzati.

La ridotta dimensione delle nostre imprese ha in effetti molte ricadute negative sulla competitività del nostro sistema economico: limita la capacità innovativa e la stessa adozione delle tecnologie digitali; spiega in parte la deludente performance della nostra produttività; riduce la nostra capacità di penetrazione nei mercati esteri, soprattutto in quelli più lontani, e il nostro grado di internazionalizzazione; offre poche opportunità di impiego per tecnici qualificati e laureati. Le piccole imprese infine sono ancora più svantaggiate (rispetto alle grandi imprese) dalle inefficienze dei settori fornitori di servizi: energia, trasporti, logistica, finanza.

Il nanismo industriale italiano non è dovuto interamente alla nostra specializzazione settoriale. È certamente vero che da noi sono più importanti, in termini di peso relativo (sul valore aggiunto e sull’occupazione) rispetto ad altre economie avanzate, settori tradizionali nei quali la dimensione media delle imprese è minore. Vi sono studi però che mostrano che la dimensione media delle imprese è in Italia minore rispetto alla media europea in pressoché tutti i settori. Un’impresa chimica in Italia, ad esempio, ha in media una dimensione che è inferiore a quella che tipicamente hanno le imprese chimiche in Europa.6 Questa peculiarità italiana è particolarmente importante. Indica la presenza di elementi istituzionali che nel nostro paese scoraggiano la grande dimensione d’impresa, che riducono la probabilità di crescita delle imprese.

L’aspetto forse più rilevante è che, se si analizzano i tassi di crescita dimensionale delle nuove imprese ,si scopre che mentre in Italia a due anni dalla nascita un’impresa ha accresciuto in media la propria occupazione del 25% circa, negli Stati Uniti nello stesso arco di tempo l’occupazione raddoppia. Divari simili permangono anche se si considerano archi temporali più lunghi.7

C’è in Italia un chiaro problema di scarsa crescita dimensionale delle imprese.

Tra il nanismo dimensionale e la nostra specializzazione vi è naturalmente un nesso di causazione reciproca. Un sistema produttivo nel quale le imprese hanno in media 3,9 addetti e nel quale l’accrescimento nel tempo è lentissimo non può che specializzarsi in settori a minore complessità tecnologica e organizzativa, come il tessile, il cuoio e le calzature, i mobili e certi rami della meccanica. D’altro lato, se ci sono difficoltà nello sviluppo, ad esempio, dei settori science-based, a causa di fattori legati all’inadeguatezza della ricerca universitaria e tecnologica, è chiaro che la dimensione media delle aziende rimane ridotta.

In sintesi, l’economia italiana ha un serio ritardo nella crescita in parte dovuto certamente a problemi macroeconomici quali l’enorme debito pubblico accumulato nell’ultimo ventennio, che grava sulle aspettative degli imprenditori e delle famiglie. Ma è anche evidente il forte immobilismo che connota da anni il nostro sistema produttivo. Le imprese nascono piccole e tali rimangono nel tempo. Si producono da decenni prodotti appartenenti agli stessi, pochi, settori. Le spese in ricerca e sviluppo, d’altro lato, sono ferme su valori prossimi all’1% del PIL da oltre dieci anni, mentre negli altri paesi avanzati i valori sono doppi.

Quali sono i fattori alla base del mancato aggiustamento strutturale dell’Italia e della scarsa crescita delle imprese?

 

Il governo delle imprese

L’efficienza di un’impresa, la sua capacità di contrastare i concorrenti, la sua attività innovativa, la sua crescita dimensionale dipendono, a parità di altre condizioni, dal modello di governo del quale essa si è dotata. Il governo delle imprese (corporate governance) è costituito da quell’insieme di norme e di istituzioni che regolano i rapporti tra i tre attori coinvolti nell’impresa stessa (stakeholders): capitale (azionisti e finanziatori), management e lavoratori. Definisce chi possiede e chi controlla l’impresa, quali interessi e in che misura vengono tutelati, in che modo viene esercitato il controllo. Ciascuno dei tre attori coinvolti sostiene degli investimenti – di natura finanziaria e in capitale umano – nell’impresa e a seconda dei casi è possibile che ci siano conflitti e/o alleanze tra alcuni degli attori coinvolti.

Vi sono modelli di capitalismo nei quali esiste una forte complementarità tra gli assetti di governo delle imprese e la gestione delle risorse umane, che conducono, ad esempio, a forti investimenti nel capitale umano dei dipendenti per lo sviluppo di competenze specifiche all’azienda stessa. È questo il caso di molte grandi imprese tedesche o giapponesi, nelle quali la stabilità della proprietà e del controllo sono funzionali anche alla costruzione di relazioni di lungo periodo con i dipendenti. Questi modelli sono stati particolarmente adatti per favorire una specializzazione in settori oligopolistici a media e alta tecnologia come quello delle automobili, della meccanica, dell’elettronica, della chimica, con prodotti di alta qualità. Simmetricamente, negli Stati Uniti ad assetti di governo delle imprese caratterizzati dalla diffusione delle proprietà, dal controllo manageriale e da un suo ricambio relativamente frequente fa riscontro una gestione assai più flessibile della forza lavoro, con valorizzazione di competenze generali (titoli di studio) e non specifiche. Questo tipo di assetto di governance è efficace in settori ad alto rischio, soggetti a ondate di innovazione radicale, ma anche in settori più tradizionali come quelli del terziario: trasporti, grande distribuzione, logistica ecc. Esistono quindi vari modelli di governance, la cui funzionalità dipende dal contesto istituzionale nel quale sono inseriti. Ad esempio, la normativa societaria e finanziaria, il grado di efficienza dei tribunali, il livello di concorrenza sul mercato dei prodotti, l’esistenza o meno di una stampa (soprattutto quella economica) indipendente e competente, e così via.

Il modello italiano non è riconducibile a nessuno di questi due modelli principali. Le imprese sono, come vedremo, a controllo familiare, con forte concentrazione della proprietà. Manca un mercato per il controllo societario, ma sono assenti anche dei soggetti preposti alla supervisione del controllo stesso, ruolo svolto dai finanziatori in alcuni paesi continentali o dagli investitori istituzionali in alcuni paesi anglosassoni. Anche sulla formazione dei lavoratori siamo in una posizione intermedia: scarsa valorizzazione delle competenze acquisite mediante l’istruzione pre-lavorativa, ma anche scarsi investimenti in formazione sul posto di lavoro.

In generale, un «buon» sistema di governance deve avere almeno tre requisiti:8 1) deve assicurare adeguati incentivi a chi controlla l’impresa affinché persegua l’obiettivo di massimizzarne il valore complessivo; 2) deve garantire che all’impresa affluiscano risorse finanziarie sufficienti; 3) deve assicurare un’allocazione efficiente del controllo, cioè che quest’ultimo venga attribuito al soggetto maggiormente in grado di massimizzare il valore dell’impresa.

Si tratta di condizioni necessarie ma non sufficienti affinché le imprese siano efficienti e crescano. La prima condizione richiede che colui che governa l’impresa sia disposto a investire tutte le sue capacità e risorse intellettuali nella gestione dell’impresa. A tal fine è necessaria una certa stabilità del controllo, il soggetto controllante (l’imprenditore o il manager) deve sentire che la propria posizione è sufficientemente stabile per potersi impegnare a valorizzare l’impresa stessa. La seconda condizione deve assicurare che le risorse finanziarie che affluiscono all’impresa siano sufficienti per garantire un’ampia separazione tra proprietà e controllo. Non vi è nessuna garanzia, infatti, che chi è in possesso del talento imprenditoriale e del progetto d’impresa abbia anche le risorse per finanziarlo. Servono quindi intermediari e mercati capaci di finanziare i potenziali imprenditori, ma anche norme e istituti adeguati a tutelare gli interessi di chi contribuisce con i propri capitali all’impresa: azionisti e intermediari. Si tratta di evitare o di contenere i rischi di comportamenti opportunistici da parte del controllante ai danni di chi ha fornito i capitali. Servono schemi di incentivazione che allineino gli interessi del controllante (interessato ai benefici privati) con quelli dei finanziatori e degli azionisti di minoranza (interessati alla massimizzazione del valore dell’impresa). Un buon sistema di governo delle imprese dovrebbe infine prevedere dei meccanismi che favoriscano il ricambio del controllo tutte le volte che ciò sia necessario per consentire all’impresa di crescere e di sopravvivere. In presenza di cambiamenti strutturali nel contesto competitivo, ad esempio, a seguito dell’ingresso di nuovi concorrenti o di un cambio nel regime tecnologico è probabile che colui che fino ad allora aveva gestito l’impresa non sia più «adatto» e che servano nuove risorse imprenditoriali.

Non è banale garantire il raggiungimento di tutti e tre gli obiettivi. Da un lato, la stabilità del controllo può essere utile; dall’altro, se la stabilità diventa eccessiva può avere effetti negativi sulle prospettive di sviluppo dell’impresa e così via.

I modelli di governo delle imprese contribuiscono a definire le peculiarità dei modelli di capitalismo, i loro punti di forza e i loro punti di debolezza. Sono parte essenziale del processo di crescita delle imprese e della costruzione di vantaggi comparati in certi settori piuttosto che in altri. Sono alla radice dell’attuale questione economica italiana.

 

La proprietà e il controllo delle imprese italiane: continuità e cambiamento

A distanza di dieci anni da analoghe indagini,9 sono state di recente realizzate nuove ricerche sugli assetti proprietari delle imprese italiane non quotate e quotate che forniscono una fotografia aggiornata e dettagliata delle peculiarità del governo delle imprese in Italia.10

 

Le imprese familiari non quotate11

La proprietà delle imprese italiane risulta ancora estremamente concentrata. Nel 2003, la dimensione media della quota di proprietà detenuta dal primo azionista è pari al 64,7% del capitale nelle imprese non quotate. Il 61% delle imprese sono controllate di diritto da un unico azionista. Il grado di concentrazione della proprietà delle imprese italiane è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al 1993.

La proprietà diretta del capitale delle imprese italiane è detenuta per la gran parte da persone fisiche. La quota media di capitale posseduta da individui è, infatti, pari al 65%. Le imprese finanziarie appartenenti a gruppi societari (incluse le holding) costituiscono la seconda tipologia di maggior peso, con una quota media del 13%. Trascurabile è il peso delle banche e delle assicurazioni nella proprietà delle imprese non quotate (1%). L’avvento della banca universale non ha quindi condotto, in Italia, a un modello di partecipazioni incrociate banca-impresa. Più rilevante è il fenomeno per i gruppi quotati.

Nel confronto con il 1993, è rimasto inalterato il peso delle persone fisiche. È cresciuta la quota detenuta dalle finanziarie di gruppo e dai soggetti esteri.

Si tratta di dati che evidenziano in maniera eloquente il carattere «non anonimo» del capitalismo italiano.

 

Le modalità di controllo

Se si tiene conto della proprietà e degli altri mezzi utili per l’esercizio del controllo, come quelli di natura contrattuale (ad esempio i patti parasociali) o di natura informale (legami di parentela, relazioni di fiducia, ecc.) si può avere un quadro del controllo.

Anche nei modelli di controllo il peso delle persone fisiche è dominante (52%). Significativa è poi la percentuale di imprese controllate da holding o sub- holding (23%) e da soggetti esteri (15%). Scarso il peso del settore pubblico (2%). Il ruolo delle persone fisiche è rimasto sui livelli del 1993.

Nel 65% delle imprese il controllo si fonda su legami familiari, valori analoghi a quelli del 1993.

Complessivamente dalle indagini emerge l’assoluta prevalenza del carattere personalistico-familiare degli assetti di controllo delle nostre imprese. Il 96% delle imprese del campione risulta, infatti, controllato da persone fisiche eventualmente legate da vincoli familiari. Rispetto al 1993 tale carattere risulta accentuato.

Dal 1993 è fortemente aumentato anche il ricorso a strumenti che stabilizzano gli assetti di controllo delle imprese italiane, quali le clausole di prelazione e i patti di sindacato.12 Complessivamente, in due terzi delle società analizzate si adottano strumenti limitativi della circolazione delle partecipazioni. Si tratta di un evidente indicazione di «chiusura» ulteriore della proprietà delle imprese italiane.

 

I gruppi quotati13

Il numero delle società quotate è sostanzialmente fermo da anni su valori inferiori a 300. Ancora più grave è il fatto che i gruppi quotati rappresentano oggi una quota dell’economia italiana nel suo complesso inferiore rispetto a dieci anni fa: nel 1992 gli addetti nei gruppi quotati erano il 15% dell’occupazione totale, oggi sono circa il 12%. Questo fenomeno è legato al ridimensionamento della grande industria nel nostro paese e ai processi di delocalizzazione avvenuti in questi anni.

La concentrazione della proprietà per le imprese quotate è diminuita tra il 1993 e il 2003, ma rimane comunque molto elevata. La quota media ponderata detenuta dall’azionista principale è infatti passata dal 67 al 53%; quella dei primi tre azionisti dal 73 al 60%. Sono soprattutto le banche ad aver sperimentato una significativa maggiore diffusione della proprietà.

Sotto il profilo dei soggetti proprietari ci sono stati alcuni cambiamenti: un maggior peso delle «minoranze» e degli investitori esteri, una riduzione del fenomeno dei gruppi piramidali e la crescita invece dei modelli proprietari coalizionali. Nel settore bancario questi tre fenomeni sono stati più accentuati.

Complessivamente permane, per i gruppi quotati, una forte concentrazione dei diritti di voto, che consente a un azionista o a una coalizione di azionisti di controllare le società, e la prevalenza, nonostante il ridimensionamento, di strutture piramidali, che permettono al controllante di diluire il proprio impegno finanziario effettivo.

Sono queste le forme attraverso le quali in Italia si realizza la separazione tra proprietà e controllo e che rendono il nostro capitalismo distante dai modelli anglosassoni e più simile a quelli dell’Europa continentale.

Un elemento importante di cambiamento nel periodo considerato è stato il forte ridimensionamento del peso dello Stato nella proprietà e nel controllo dei gruppi quotati.

 

Il mercato della proprietà delle imprese

Il mercato della proprietà delle imprese dovrebbe facilitare il processo di ri-allocazione efficiente del controllo, dai soggetti che inizialmente lo detenevano (e che sono divenuti «inadatti» a seguito dei cambiamenti avvenuti) ai nuovi potenziali controllanti, più adatti al nuovo scenario. Più della metà delle imprese italiane analizzate nella ricerca14 non ha mai subito trasferimenti del controllo. Rispetto alle precedenti indagini del 1993 si osserva una relativa diminuzione dei trasferimenti al di fuori della famiglia controllante (da 46,5 a 40% dei trasferimenti totali), che potrebbe dipendere dalla diversa composizione dei due campioni.

Il mercato della proprietà delle imprese in Italia sembra ancora largamente incentrato sui contatti personali. In circa il 70% dei casi la riallocazione avviene in seguito ad iniziativa e contatto diretto del venditore o dell’acquirente, soltanto nel 30% dei casi il contatto tra le parti avviene grazie all’intervento di un intermediario (per lo più commercialisti di provincia e non banche). Il 60% dei trasferimenti di controllo relativi alle imprese ha avuto luogo tra soggetti legati da vincoli di parentela e solo il restante 40% è stato rappresentato da cessioni sul mercato. Persino nei trasferimenti al di fuori della famiglia il nuovo controllante era comunque in qualche modo già «legato» all’impresa (perché vi prestava attività, era socio, partecipava al controllo, ecc.). Più della metà delle imprese sono ancora controllate dal fondatore.

Il mercato della proprietà delle imprese è nel 2003 ancora rudimentale, incentrato sui contatti personali tra venditore e compratore.

 

Un capitalismo bloccato

Il risultato di maggior rilievo emerso dai dati illustrati è senz’altro rappresentato dal modesto cambiamento degli assetti proprietari delle imprese italiane rispetto al decennio precedente, sia sotto il profilo della distribuzione della proprietà sia sotto il profilo della tipologia dei soggetti.

Il grado di concentrazione della proprietà è molto elevato ed essa risulta detenuta per la gran parte direttamente da persone fisiche. L’esiguità della partecipazione diretta di investitori istituzionali al capitale delle imprese continua a rappresentare un importante elemento di differenziazione rispetto ai paesi finanziariamente più sviluppati. Il «modello di controllo» largamente prevalente è quello familiare, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Il controllo è «preservato» dal frequente e crescente utilizzo di clausole statutarie e patti parasociali, rispetto al 1993, che limitano la trasferibilità delle partecipazioni sociali ed è rafforzato da accordi di voto e consultazione.

All’aumentare delle dimensioni di impresa molto rilevante è ancora il ricorso a forme organizzative come i gruppi piramidali – al vertice dei quali, però, si «ritrovano» prevalentemente «famiglie» – o a forme di controllo di coalizione sostenute da patti di sindacato.

La concentrazione della proprietà non ha di per sé un carattere negativo; essa è tipica di modelli di capitalismo (continentali) alternativi a quelli (anglosassoni) fondati sulle public companies. La presenza di un forte azionista di maggioranza rende naturalmente stabile il controllo stesso. I rischi sono da un lato che il controllante sfrutti la propria posizione a danno degli azionisti di minoranza. Dall’altro lato, la stabilità può diventare eccessiva e impedire la crescita delle imprese ostacolando l’ingresso di nuove risorse manageriali e finanziarie. Questo possibile effetto negativo della concentrazione della proprietà assume particolare rilevanza in un capitalismo come quello italiano, nel quale i benefici privati del controllo sembrano altrettanto elevati in un confronto con gli altri paesi.15

Le imprese italiane non crescono anche perché ciò richiederebbe un superamento, almeno parziale, del modello familiare chiuso e un’apertura del capitale a nuovi soggetti. In molti paesi le imprese alla nascita sono controllate da una o più persone fisiche e spesso hanno natura familiare. L’impresa familiare è in effetti stata per lunghi decenni un elemento di forza del nostro sistema industriale, per la flessibilità e per il forte coinvolgimento nel progetto industriale che la connota. La proprietà familiare tuttavia può costituire un ostacolo alla crescita dell’azienda se impedisce l’apertura della compagine societaria, se non consente l’ingresso nell’azienda di nuove risorse finanziarie e manageriali.

La riluttanza a crescere degli imprenditori italiani non è però frutto di ragioni etniche o culturali. Il punto è che chi è controllante in un’impresa italiana può appropriarsi di benefici privati molto più elevati di quelli che presenti in altri paesi avanzati. C’è una forte convenienza economica e di gratificazione personale nel fatto di essere controllanti in Italia.

Ridurre i benefici privati del controllo è propedeutico per facilitare la crescita e il ricambio nel governo delle imprese italiane.

 

La crescita delle imprese e un progetto di riforma del capitalismo italiano

Il quadro di stasi e di sporadici cambiamenti del capitalismo italiano che emerge dalle ricerche citate è coerente con l’immobilismo registrato dal punto di vista della specializzazione settoriale, dell’innovazione e del mutamento organizzativo.

Una delle questioni centrali nell’agenda di politica economica per i prossimi anni è senza dubbio quella della crescita dimensionale delle imprese e del connesso mutamento settoriale.

Si è cercato di argomentare in queste pagine che alla base della scarsa crescita dimensionale delle imprese italiane vi è il modello di controllo prevalente, che si basa su una proprietà concentrata, spesso familiare e a scarsissima circolazione.16

Un’azione di politica industriale che intenda favorire la crescita dimensionale delle imprese non può prescindere dagli assetti proprietari. A nulla servirebbero incentivi fiscali alle aggregazioni o contribuiti alla costituzione di fondi specializzati (private equity) se al contempo non si avviano riforme volte a modificare il rapporto tra proprietari e imprese.

Anche sotto il profilo della specializzazione, va ricordato che i vantaggi comparati in un certo settore piuttosto che in un altro dei quali godono le imprese di un dato paese sono il frutto di una serie di elementi, tra i quali rivestono un ruolo importante anche le istituzioni e le norme di cui quel sistema economico si è dotato. Se le istituzioni di un certo paese scoraggiano la crescita delle imprese – e quindi l’entrata in dati settori – quel sistema economico sperimenterà una despecializzazione in quelle specifiche industrie, a meno che non proceda a una riforma della propria struttura istituzionale. La corporate governance delle imprese e le norme che la disciplinano sono certamente tra i fattori istituzionali che oggi condizionano i vantaggi comparati dell’Italia.

Un cambio nel modello di specializzazione richiederebbe una riallocazione di risorse verso soggetti in grado di gestire le tecnologie più moderne, di riorganizzare le imprese, di consentire uno spostamento verso nuovi settori. Servirebbe in sintesi un vasto ricambio nella classe imprenditoriale.

Il deficit di concorrenza sui mercati dei prodotti e su quello dei fattori è l’altra grande causa del mancato aggiustamento.

Alcune riforme sono state fatte in questo periodo, si pensi al Testo unico della finanza o alla legge sull’OPA, ma anche alle riforme del mercato del lavoro e al vasto programma di privatizzazioni realizzato in Italia tra il 1993 e il 2002. Ma è chiaro che all’apertura del mercato del lavoro e dei prodotti deve corrispondere una equivalente apertura del mercato della proprietà e del controllo delle imprese.

Questa stagione di riforme non sembra aver inciso ancora in modo significativo sui modelli di controllo del capitalismo italiano.

Una nuova agenda di riforme deve partire da questa constatazione e definire un insieme coerente di misure che favoriscano l’apertura degli assetti di governo delle imprese, una maggiore separazione tra proprietà e controllo e quindi una più facile raccolta ci risorse necessaria alla crescita delle imprese. Questa è la sfida dei prossimi anni.

Una strategia del genere va articolata su un mix di misure, alcune delle quali hanno effetto sul più lungo termine. 1) Riduzione dei benefici privati del controllo: per favorire una maggiore diffusione della proprietà è necessario rafforzare la protezione giuridica degli azionisti non controllanti dal rischio di comportamenti espropriativi da parte del soggetto controllante. 2) Azioni volte a incentivare la crescita dimensionale: ad esempio, una riduzione dell’aliquota (IRPEF, IRES e IRAP) applicabile alla base imponibile «marginale» (ad esempio, la differenza tra l’imponibile dell’anno e quello dell’anno precedente), che premi le imprese che producono valore aggiunto e in generale base imponibile. Un simile provvedimento rappresenterebbe un incentivo alla crescita delle imprese, alle fusioni, nella misura in cui producano nuovo reddito e all’emersione del reddito evaso. 3) Incentivi alla quotazione: la quotazione nei mercati borsistici è un passaggio importante verso una maggiore dimensione e comunque verso forme organizzative più moderne. Introdurre o re-introdurre forme di deducibilità delle spese necessarie alla quotazione potrebbero essere utili, così come veri e proprie riduzioni di imposta per chi si quota. 4) Investitori istituzionali: una delle peculiarità del capitalismo italiano è la quasi assenza di investitori istituzionali nel capitale delle imprese (e delle banche). L’avvio dei fondi pensione è parte essenziale di un progetto che voglia modificare gli assetti proprietari delle imprese e favorire una maggiore separazione tra proprietà e controllo. 5) Ridurre la convenienza a restare piccoli: vanno ripensate molte delle normative che sono condizionate a soglie dimensionali prefissate e che incentivano le imprese a non crescere. La repressione dell’evasione contributiva e fiscale e al contempo forme di stimolo all’emersione sono tra le misure che vanno prese in considerazione.

 

 

Bibliografia

1 Banca d’Italia. Le opinioni contenute nel testo sono da attribuirsi all’autore e non impegnano l’Istituto di appartenenza.

2 A. Profumo e M. D’Alema (intervistati da M. Giannini), Dialogo sul capitalismo italiano, in «Italianieuropei», 4/2005.

3 Nel decennio 1995-2004 il prodotto è cresciuto in Italia dell’1,6% contro il 2,3 in Francia, il 2,9 in Spagna e il 3,4 nel Regno Unito. La bassa crescita italiana stride inoltre perché il decennio ultimo è stato caratterizzato da un robusto aumento del commercio mondiale (+7% all’anno, tra 1995 e 2004).

4 Negli Stati Uniti, infatti, una quota assai rilevante della crescita della produttività totale dei fattori è legata all’andamento dei servizi, ossia alla diffusione massiccia delle tecnologie digitali in comparti quali la distribuzione, i trasporti, la finanza ecc.

5 Le aziende-uomo, cioè le imprese con un solo addetto, e senza dipendenti (cioè i lavoratori autonomi) secondo l’ultimo Censimento ISTAT del 2001 sono circa 2.400.000.

6 P. Pagano e F. Schivardi, Firm Size Distribution and Growth, in «The Scandinavian Journal of Economics», 2/2004, pp. 255-274.

7 E. Bartelsman, S. Scarpetta e F. Schivardi, Comparative Analysis of Firm Demographics and Survival: Micro-Level Evidence for the OECD Countries, OECD Economics Department Working paper, 348/2003.

8 M. Bianchi, M. Bianco, S. Giacomelli, A. M. Pacces e S. Trento, Proprietà e controllo delle imprese italiane. Alle radici delle difficoltà competitive della nostra industria, Il Mulino, Bologna 2005.

9 Banca d’Italia, Il mercato della proprietà e del controllo delle imprese: aspetti teorici e istituzionali, Numero speciale dei Contributi all’analisi economica, Roma 1994; F. Barca, M. Bianchi, F. Brioschi, L. Buzzacchi, P. Casavola, L. Filippa, M. Pagnini, Assetti proprietari e mercato delle imprese. Volume II.  Gruppo, proprietà e controllo nelle imprese italiane medio-grandi, Il Mulino, Bologna 1994; F. Barca, M.Bianco, L. Cannari, R. Cesari, C. Gola, G. Manitta, G. Salvo e L. F. Signorini,  Assetti proprietari e mercatodelle imprese. Volume I. Proprietà, modelli di controllo e riallocazione nelle imprese industriali italiane,  Il Mulino, Bologna 1994.

10 Bianchi, Bianco, Giacomelli, Pacces e Trento, op. cit.

11 Le ricerche del 2003 si sono avvalse di due indagini. La prima è stata condotta su un campione rappresentativo di 1.855 imprese (Invind). Il secondo questionario utilizzato, denominato Esetra2, è stato appositamente predisposto per la realizzazione della ricerca in questione e costituiva una versione ridotta del questionario utilizzato nel 1993 nella prima indagine sugli assetti proprietari (Esetra1). Il campione selezionato era costituito in questo caso da 468 imprese. La dimensione media delle imprese del campione Invind è pari a 432 addetti (mediana 145), quella del campione Esetra è di 162 addetti (mediana 73).

12 All’epoca della somministrazione dei questionari non era ancora entrata in vigore la riforma del diritto societario. Pertanto i riferimenti alla disciplina di tali strumenti sono relativi al «vecchio» diritto societario.

13 L’indagine sulle imprese quotate si è avvalsa dell’archivio Consob-Banca d’Italia sui gruppi quotati. Cfr. Bianchi, Bianco, Giacomelli, Pacces e Trento, op. cit.

14 S. Giacomelli e S. Trento, Proprietà, controllo e trasferimenti nelle imprese italiane. Cosa è cambiato nel decennio 1993-2003? in «Temi di Discussione», Banca d’Italia, n. 550, giugno 2005.

15 A. Dyck e L. Zingales, Private Benefits of Control: An International Comparison, in «Journal of Finance», 59/2004, pp. 537-600; G. Nicodano e A. Sembenelli, Private Benefits, Block Transaction Premiums and Ownership Structure, in «International Review of Financial Analysis», 13/2004, pp. 227-244.

16 Questa è una delle tesi centrali del volume di Bianchi, Bianco, Giacomelli, Pacces e Trento, op. cit.