Un nuovo incontro tra fede e ragione

Di Piero Fassino Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Viviamo in un mondo percorso da grandi inquietudini e da grandi domande. Il terrorismo è entrato nella nostra vita e nella vita del mondo. Un terrorismo che ci ha rivelato l’intrinseca fragilità di un pianeta interdipendente e globale anche nei livelli di insicurezza e nelle paure. Ogni cittadino del mondo ― che viva a Londra, Madrid, Sharm El Sheikh, Bali, Casablanca, Gerusalemme, New York o in una qualsiasi delle tante altre città che in questi anni sono state ferite dal terrorismo ― si percepisce come un destinatario di una violenza cieca, che può colpire ovunque e chiunque. E ciò determina nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo un diffuso sentimento di inquietudine, di insicurezza, di incertezza che cambia abitudini, relazioni tra le persone, modi di vivere e di pensare.

Viviamo in un mondo percorso da grandi inquietudini e da grandi domande.

Il terrorismo è entrato nella nostra vita e nella vita del mondo. Un terrorismo che ci ha rivelato l’intrinseca fragilità di un pianeta interdipendente e globale anche nei livelli di insicurezza e nelle paure. Ogni cittadino del mondo ― che viva a Londra, Madrid, Sharm El Sheikh, Bali, Casablanca, Gerusalemme, New York o in una qualsiasi delle tante altre città che in questi anni sono state ferite dal terrorismo ― si percepisce come un destinatario di una violenza cieca, che può colpire ovunque e chiunque. E ciò determina nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo un diffuso sentimento di inquietudine, di insicurezza, di incertezza che cambia abitudini, relazioni tra le persone, modi di vivere e di pensare.

La guerra ― oggi in Iraq, ma ieri anche più vicino a noi, nei Balcani ― ci parla di un mondo che non trova le chiavi per dare ai suoi conflitti soluzioni fondate sul consenso, sulla parola, sugli strumenti della mediazione politica. E anche questo è fonte di paure, di inquietudini, di interrogativi che percorrono le società.

Non minori domande e ansie suscitano la globalizzazione e i suoi caratteri tumultuosi, che anch’essi entrano ogni giorno nella nostra vita e la cambiano offrendo molte nuove opportunità certo, ma anche suscitando rischi. La Cina e le nazioni emergenti sono diventate per miliardi di uomini la metafora di una globalizzazione rischiosa, aggressiva, che anche quando è lontanissima, entra nella vita delle persone, mettendo in discussione certezze di lavoro, di reddito, di esistenza quotidiana.

Eventi naturali come lo Tsunami o Katrina, che naturalmente vanno compresi innanzitutto nelle loro dinamiche fisiche, ci pongono interrogativi che riguardano la nostra capacità di governare il mondo, il rapporto tra uomo e natura e la capacità dell’umanità di non dissipare il patrimonio di risorse e di ricchezze che il pianeta incorpora, precipitando il mondo in una lenta distruzione di se stesso.

I referendum in Europa ― quello olandese, quello francese ― ci indicano il serpeggiare sotto la pelle delle società di una paura nuova che ha cambiato, nel giro di pochi anni, la percezione che si aveva del processo di integrazione europea. Per decenni l’Europa è stata considerata dalla stragrande maggioranza dei cittadini un luogo in cui ciascuno era più prospero, più sicuro, più certo. Quella stessa Europa oggi viene avvertita come un luogo più rischioso, meno sicuro, meno capace di tutele e di protezione.

Fenomeni come l’immigrazione ― ormai strutturali nella vita delle nostre società e destinati a crescere sempre di più ― sono vissuti con ansia e preoccupazione, con l’inquietudine di venire a contatto con culture, religioni, lingue, identità sconosciute. E lo sconosciuto, naturalmente, suscita sempre preoccupazione, diffidenza e paure.

Per arrivare agli interrogativi che pongono le frontiere nuove della tecnologia, della scienza, della ricerca in un’epoca nella quale l’uomo è in grado di scoprire qualsiasi cosa, ma si diffonde il timore che le scoperte possano sfuggire al controllo e a un utilizzo eticamente consapevole. Noi viviamo in questo pianeta. In un mondo che suscita ogni giorno domande: domande di senso su l’uomo, il suo destino, la sua vita, il suo rapporto con la natura, il futuro del pianeta. Domande a cui la semplice razionalità umana può non apparire sufficiente per dare risposte esaustive. Sono domande e interrogativi che si pone chiunque, sia chi ha una fede, ma anche chi una fede non ha. Le riflessioni di un filosofo laico come Habermas non sono diverse o lontane dagli interrogativi che si pone un uomo di fede come Ratzinger. Grandi domande “sul senso” nel momento in cui grandi processi che investono l’umanità non sono più governati né dalle grandi ideologie che nel corso del Novecento hanno segnato la vita del pianeta, i suoi conflitti e i suoi drammi, né dalle forme della politica e della democrazia.

D’altra parte tutti avvertiamo quotidianamente la contraddizione sempre più evidente e stridente tra la dimensione nazionale del potere politico e istituzionale che governa le nostre vite e la dimensione globale di processi più larghi di una singola sovranità nazionale. E avvertiamo tutti che in quella contraddizione matura una crisi della democrazia rappresentativa, della sua capacità di governare il mondo di oggi, di dare ordine ad una società e di realizzare con la sola ragione le finalità che la politica si pone.

Insomma, sono questi i tanti motivi per cui tornano così fortemente in campo le religioni. C’è un bisogno angoscioso di trovare risposte! Risposte che la crisi delle ideologie rende più difficili. Risposte che le difficoltà della politica rendono più stringenti e urgenti. Risposte che i limiti della razionalità umana sollecitano a ricercare altrove. E la fede torna a essere per molti la chiave per interpretare il mondo e il suo futuro.

La fede è per un vasto numero di donne e di uomini riferimento essenziale per le scelte di vita, i comportamenti individuali, i principi etici a cui ispirare la propria responsabilità sociale. Un fatto di straordinaria vitalità. Per questo nelle tesi al recente congresso dei Democratici di Sinistra abbiamo riconosciuto il “contributo essenziale della fede e delle religioni per il perseguimento del bene comune”. E quel documento congressuale ha raccolto il consenso dell’80% dei nostri iscritti. Insomma: viviamo in un tempo nel quale abbiamo bisogno di promuovere un nuovo incontro tra fede e ragione per dare risposte ai temi del mondo presente. Naturalmente, è essenziale individuare una tavola dei valori intorno a cui realizzare quell’incontro e lo possiamo fare guardando all’esperienza politica e storica della società in cui viviamo.

Intanto la pace, che non è soltanto assenza di guerra, ma riconoscimento del valore della non violenza come forma di risoluzione dei conflitti, come primato del consenso e della parola ― e cioè dello strumento della democrazia ― in alternativa a relazioni dettate solo dai rapporti di forza. La pace come la cifra intorno a cui costruire il riconoscimento tra culture, civiltà, religioni e dare così una governance al mondo che sia caratterizzata dal multilateralismo. Un multilateralismo che non è soltanto capacità di far dialogare e agire in comune una pluralità di Stati. Il multilateralismo è una cultura, è un modo di guardare al mondo riconoscendo l’essenzialità dei diversi soggetti che a diverso titolo concorrono alle identità del pianeta e alla sua vita. E in questo contesto il dialogo interreligioso non è meno importante di altri strumenti e di altre strategie nell’isolare il terrorismo e nello sconfiggerlo, nell’affermare tolleranza e convivenza, nel costruire un mondo fondato sul riconoscimento delle differenze e sul loro fecondo incontro.

Un secondo grande valore è il rapporto tra uomo e natura, un rapporto mai definito una volta per tutte e che oggi va ripensato fondandolo sulla rinnovabilità, sulla sostenibilità, sulla capacità di valorizzare le risorse naturali e le loro potenzialità in tutte le direzioni. Basterebbe pensare a quanto controversa sia l’adozione da parte di importanti nazioni del Protocollo di Kyoto e come recenti calamità naturali abbiamo messo a nudo la fragilità, anche sociale, di un modello di sviluppo irrispettoso della natura e delle sue leggi.

Penso al valore della dignità dell’uomo, sotto lo specifico aspetto del riconoscimento della sua intelligenza e della sua creatività. Il valore del lavoro umano come fondante l’identità della persona e della società. Il lavoro non soltanto come lo strumento con cui un uomo o una donna procaccia a se stesso le risorse necessarie al suo sostentamento e alla sua riproduzione, ma il lavoro come manifestazione della creatività umana, dell’intelligenza dell’uomo, della sua spiritualità. Il riconoscimento di questo valore nella società di oggi è tutt’altro che scontato! Se solo pensiamo a come il lavoro è venuto perdendo di peso nella società flessibile di oggi, a come le nuove forme di organizzazione del lavoro ― assai più esposte alla precarietà ― ne abbiano svilito il valore, a come il lavoro sia sempre di più letto soltanto nella sua dimensione mercificata con evidente mortificazione della dimensione creativa e umana.

Il valore dell’inclusione sociale, contro tutte le forme di solitudine che con efficace espressione Madre Teresa di Calcutta definiva “la povertà delle nazioni ricche”. Solitudine che insidia la vita degli uomini sia quando si manifestano come solitudine dell’infanzia o degli anziani o delle donne o degli immigrati o di chi ha fatto una scelta di vita sessuale diversa. Oggi uno dei più grandi problemi che affligge le società moderne, le società opulente, le società ricche è la solitudine. Siamo capaci di costruire una società che non sia fatta di individui soli? E che sconfigga la solitudine promuovendo ogni forma di inclusione, di solidarietà, di responsabilità sociale ricostruendo così il senso di una condivisione e di una appartenenza di cui ogni cittadino si senta partecipe.

La centralità della persona e, a partire da essa, la centralità della famiglia come luogo essenziale della manifestazione dell’umanità di ogni persona, della sua affettività, del suo sistema di relazioni. Anche questo è un valore irrinunciabile, a cui occorre far corrispondere politiche che assumano le famiglie e le loro domande come perno di un nuovo welfare.

Ancora, l’uguaglianza delle genti, valore non così scontato, se la seconda carica dello Stato non prova imbarazzo a evocare i pericoli di “meticciato”. Davvero brutta espressione a cui mi piace contrapporre le belle parole di Papa Ratzinger pronunciate nel suo recente viaggio a Colonia, dove ha ricordato “la virtù quasi scomparsa dell’ospitalità, che appartiene alla virtù originaria dell’uomo”. Parole che ci parlano di un mondo nel quale la multietnicità, la multiculturalità, la multireligiosità non siano considerati un rischio ma invece una straordinaria ricchezza da far vivere nell’incontro di culture, civiltà, religioni per costruire insieme quell’umanesimo che è capace di accogliere chiunque.

Il valore essenziale della responsabilità, come parte inscindibile della libertà umana. Noi ci battiamo perché ogni uomo e ogni donna sia libero e libera, in grado di compiere consapevolmente le proprie scelte di vita, affermando così la propria umanità. E al tempo stesso sappiamo che nessun individuo non è una monade assoluta. Ciascuno di noi vive in una società e in un sistema di relazioni che ci sollecita a esercitare la libertà nella consapevolezza della responsabilità che si ha e si deve avere verso gli altri e verso la società. Il rapporto tra libertà e responsabilità è un nodo essenziale per costruire una società in cui ciascuno si senta libero e, al tempo stesso, usi la propria libertà con la responsabilità di chi vuole concorrere al bene comune.

E, infine, una nuova etica pubblica fondata sulla riscoperta del primato dell’interesse generale, della responsabilità sociale, del civismo e le sue virtù, dell’imparzialità delle decisioni pubbliche, della certezza del diritto e dell’uguaglianza della legge.

Ecco, penso che siano questi i valori forti intorno a cui noi possiamo pensare sempre di più un incontro tra fede e ragione, utile al bene comune. Sono questi i valori su cui costruire incontro, confronto, soluzioni condivise, un nuovo umanesimo. Tanto più sulle “questioni eticamente sensibili”, che oggi vengono assumendo una centralità più grande che nel passato: perché viviamo in una società molto più laica, più secolarizzata, più libera e, al tempo stesso, in una società nella quale i prodigi e le scoperte della scienza, della ricerca, della tecnologia ci offrono prospettive che fino a pochi anni fa sembravano del tutto avveniristiche o utopiche. La ricerca scientifica si sta applicando a intervenire, ad esempio, sul gene della vecchiaia e si stima che così la vita potrà essere allungata di altri trent’anni. E con l’allungamento del tempo di vita, cambiano le aspettative individuali, il modo di guardare alla propria esistenza, il sistema delle relazioni interpersonali e sociali, i modi di vivere delle famiglie e la qualità dei rapporti che in essa si esprimono. La vita e la morte non sono più solo affidati a eventi naturali, ma sono oggetto di intervento della scienza e della tecnica. Sfide del tutto nuove in cui la dimensione etica della vita e delle scelte di ciascuno hanno un’enorme peso. Entrano in gioco non soltanto mutamenti degli assetti materiali della società, ma anche nuovi assetti morali, etici, culturali. Monsignor Betori ha usato l’espressione “le grandi questioni antropologiche”. È una terminologia giusta: sì, le grandi questioni che attengono all’uomo, al suo destino, alla sua vita.

Affrontare questi temi con lo strumento con cui a lungo il pensiero laico li ha governati, cioè la “libertà di coscienza”, non è sufficiente, non ci basta più. La libertà di coscienza, naturalmente, non è in discussione, anche perchè appartiene all’insindacabile e indisponibile libertà di ogni persona. Ma non ci basta la libertà di coscienza perché è una categoria che rischia di accreditare un sostanziale agnosticismo e riduce l’intensità della responsabilità sociale a cui ogni persona è chiamata. Al tempo stesso, dobbiamo guardarci dal rischio che si affermi una sorta di “bipolarismo etico” che lacererebbe la società, radicalizzerebbe le diversità trasformandole in conflitto, impedirebbe qualsiasi capacità di realizzare confronto, riconoscimento, soluzioni condivise. Non si governa una società lacerandola. Meno che meno, la si governa lacerandola su questioni eticamente sensibili. Dico di più: se sosteniamo che non si possa cambiare una legge elettorale senza una larga condivisione, si vorrà a maggior ragione riconoscere che non si possano governare le questioni eticamente sensibili a colpi di maggioranza. Su questioni che hanno una tale pregnanza, che investono la vita degli uomini e le loro relazioni, c’è bisogno di promuovere un confronto tra culture, approcci etici diversi, punti di vista religiosi e non, mettendoli in condizione di incontrarsi, di interloquire, di discutere e di costruire soluzioni condivise.

Sto parlando di un metodo che è già stato praticato in Italia: negli anni in cui il centrosinistra ha governato il parlamento ha approvato con larga condivisione leggi delicatissime. Penso alla legge contro la pedofilia approvata, dopo un iter molto lungo, all’unanimità. Il rinnovamento dell’intera legislazione sulle adozioni, nazionali e internazionali, è stato realizzato anch’esso all’unanimità. E con largo consenso abbiamo approvato norme per la tutela delle donne dalla violenza sessuale. È avvenuto perché ogni volta c’è stata da parte di tutti ― dentro il parlamento e fuori di esso ― la ricerca di soluzioni condivise in un confronto in cui ciascuno ― partendo da approcci diversi ― ha accettato di riconoscere l’altro, di discuterne le tesi, di confrontarsi e insieme di costruire le soluzioni ragionevoli capaci di tenere unita una società.

Se una riflessione autocritica può essere svolta sulla vicenda della fecondazione assistita, non sta tanto nella promozione del referendum, che è stato l’epilogo di quella vicenda. Quel che deve far riflettere è che durante un iter legislativo protrattosi per ben sei anni ― tanto è durato l’esame parlamentare della legge sulla fecondazione assistita ― la politica italiana non sia riuscita a costruire un punto ragionevole di incontro e di sintesi. Un’enorme limite, reso ancora più grave dal fatto che non si sia riusciti a costruire una proposta comune neanche nel solo centrosinistra. Il che significa che ciascuno si è misurato con una materia così delicata, con posizioni definite a priori e non partendo dall’idea che su un tema così sensibile e importante si dovesse cercare una soluzione condivisa e accettata.

Insomma, serve davvero costruire una società laica, in cui la laicità sia vissuta non come conflitto, non come strumento di divisione, ma come strumento di sintesi. Serve una società laica che sia capace di superare sia i rischi di agnosticismo che sono insiti nel solo attestarsi sulla libertà di coscienza, sia i rischi di un integralismo etico che minerebbe irrimediabilmente la coesione della società. La laicità è dialogo, è confronto critico, è riconoscimento delle differenze, è comprensione dei valori di ciascuno. La dialettica non è tra laici e credenti, ma è tra laici e integralisti. Perché si può essere credente ed essere laico, come essere non credente ed essere laico; e viceversa si può essere ateo o credente ed essere integralista. Dobbiamo batterci perché si ritorni ad un lessico giusto: è sbagliato contrapporre laico a credente, perché a laico si contrappone integralista. Vogliamo uno Stato laico perché capace di offrire ad ogni cittadino tutele, pari opportunità e uguaglianza di diritti, costruendo soluzioni condivise, realizzate con il riconoscimento e l’incontro di una pluralità di culture e di approcci etici, morali o religiosi.

Vorrei richiamare due esempi. Il primo riguarda proprio la fecondazione assistita: non voglio tornare su tutto quello che c’è stato, ma certo l’esigenza di una buona legge non è risolta dall’esito referendario, come dimostra un’inchiesta da cui emerge che soltanto il 26% degli italiani pensa che la legge debba restare così com’è. Tre quarti degli italiani, invece, pensano che bisogni apportare delle integrazioni e delle correzioni. Sono quegli stessi italiani che non se la sono sentita di andare a votare e di risolvere un problema così complesso con un sì o con un no. Ma quegli stessi cittadini chiedono alla politica di non rinunciare ad andare oltre un sì o un no e di riprendere in mano la materia, per costruire soluzioni civili e condivise e capaci di darci una legge equa e giusta.

Analoghe indicazioni ci vengono dal tema delle convivenze di fatto che sono una realtà, se non altro perché vivono in tale status centinaia di migliaia di persone e di coppie, il 95% delle quali eterosessuali. C’è una Costituzione che all’art. 29 “riconosce il valore della famiglia fondata sul matrimonio”, dettato che corrisponde al sentire di gran parte dei cittadini del nostro paese e che, dunque, deve essere assunto come punto fermo da ogni forza politica. Ma quella stessa Costituzione in un altro suo articolo prescrive “il diritto-dovere dei genitori di educare i figli, in ogni caso, anche quando sono nati fuori dal matrimonio”. Una forma indiretta per riconoscere forme di convivenza diverse dal matrimonio. Non solo, ma proprio la legge sulla fecondazione prevede la possibilità che le sue procedure si applichino a coppie di fatto. Dirò di più: lo stesso regime di dissoluzione del matrimonio, prevedendo tre anni di intercorrenza tra il momento della separazione e il divorzio, riconosce le convivenze di fatto, visto che la legge non obbliga certo alla solitudine affettiva e alla castità. C’è insomma, nel paese, una parte di cittadini che, per tante ragioni, vive una condizione di convivenza di fatto. È un tema che la politica ha il dovere di vedere e di affrontare, lavorando a soluzioni che possano meglio offrire condizioni di tutela, di serenità esistenziale e maggiore sicurezza a chi ha scelto di vivere in quel regime. Anche in una coppia di fatto c’è sempre un soggetto più debole. Ed è compito di uno Stato democratico e di una società laica offrire gli strumenti che siano capaci di tutelarlo.

I pacs sono un’esperienza largamente consolidata in molti paesi europei e possono essere un riferimento per una soluzione legislativa anche in Italia. In ogni caso la ricerca di soluzioni deve essere aperta e libera da pregiudizi. Per questo è importante che ― nella sua relazione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana (cei) ― il Cardinale Ruini, pur contestando i pacs, abbia ammesso che alle esigenze delle coppie di fatto “si possono trovare soluzioni nel diritto comune”. Un’affermazione che indica che anche il Cardinale Ruini riconosce che le convivenze di fatto esistono ed è opportuno individuare soluzioni che offrano ad esse tutele. Proviamo, dunque, a uscire dalla contrapposizione misurandoci l’uno con l’altro e ragioniamo liberamente su quali possano essere le soluzioni, ragionevoli e condivise, capaci ― nel pieno rispetto dell’art. 29 della Costituzione ― di offrire tutela e riconoscimento a chi ha scelto liberamente una convivenza di fatto.

E questa materia collochiamola dentro una strategia capace di assumere la persona e la famiglia come il tema centrale di una nuova politica di welfare. La denuncia, venuta anche dalla Conferenza episcopale, della solitudine nella quale spesso viene lasciata la famiglia italiana, è fondata e giusta. Quando l’Ulivo ha governato questo paese, si è fatto carico di perseguire politiche per la famiglia. E lo abbiamo fatto in questi anni anche dall’opposizione. Ricordo che i ds sono l’unico partito che ha depositato in parlamento una proposta di legge-quadro a sostegno della famiglia. Ricordo che abbiamo promosso un disegno di legge di iniziativa popolare per un grande programma straordinario di scuole per l’infanzia e di asili nido, raccogliendo oltre 200.000 firme di cittadini italiani. Ricordo che da almeno tre anni, in occasione di ogni Finanziaria, proponiamo la creazione di un Fondo nazionale per le persone non autosufficienti alimentato dalla fiscalità generale, proposta che regolarmente viene respinta dal governo di centrodestra, che invoca spesso la famiglia, ma che quando poi deve adottare concrete misure, della famiglia si dimentica.

Insomma, l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno è che qualcuno evochi scontri di civiltà, guerre di religioni, conflitti di culture. Abbiamo bisogno di costruire le condizioni di un incontro e di realizzare sintesi utili al bene comune e all’interesse generale.

In questo scenario grande è il contributo che può venire dalla Chiesa, a cui va riconosciuta piena legittimità di espressione. Non mi sembrano francamente fondate le accuse di un’ingerenza dell’Episcopato italiano. Quando si affrontano temi eticamente sensibili, ci sarebbe da stupirsi che la Chiesa non avesse un punto di vista. E ancor di più ci sarebbe da stupirsi che la Chiesa non manifestasse le sue opinioni, perché essa verrebbe meno alla sua funzione e al suo magistero. Alla Chiesa va riconosciuto pienamente il diritto di intervenire, di esprimere le proprie tesi e anche di organizzare nella società italiana il sostegno alle sue opinioni. Anche perché la cei è un’espressione, un’articolazione del paese, della società italiana. Al tempo stesso, è necessario tenere ben ferma e netta la distinzione tra il punto di vista di una dottrina di fede ― che non solo va riconosciuta, ma con la quale bisogna misurarsi e confrontarsi per i valori che esprime e per il consenso che rappresenta ― e la funzione dello Stato, che non può identificarsi mai in una fede, in una filosofia, in una ideologia. Compito dello Stato è assicurare che ogni uomo, ogni donna quale che sia la sua religione, la sua cultura, la sua lingua, la sua nazionalità, la sua identità, sia tutelato nei suoi diritti e nelle sue scelte e abbia pari opportunità di vita.

Ho trovato parole di Papa Benedetto xvi che bene esprimono questo concetto. Nel suo primo incontro con il presidente Ciampi, Benedetto xvi ha affermato che “è del tutto legittima una sana laicità dello Stato in virtù della quale le realtà temporali ― cioè lo Stato e i suoi poteri ― si reggono secondo le norme loro proprie, senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il fondamento ultimo nella religione”. È una definizione nella quale un laico ― credente o no ― si può riconoscere. Quelle parole, infatti, riconoscono la laicità dello Stato e la sua assoluta indipendenza e, al tempo stesso, ci ricordano che la laicità dello Stato non è mai solo un principio astratto, dovendo sempre fare i conti con la storia di una nazione, la sua cultura, i suoi valori, la sua identità. Che nell’essere laico uno Stato “tenga conto” di riferimenti etici che derivano dalla religione è del tutto normale. È già così oggi. Ogni qualvolta in parlamento si affronta la legislazione su un qualche tema eticamente sensibile, immediatamente ci si interroga su come dare al paese una legge ispirata a principi di laicità e, al tempo stesso, espressione della cultura del paese, della sua storia, dei suoi valori. E anche di quei valori di fede in cui si identificano milioni di italiani.

D’altra parte questa concezione di “sana laicità” corrisponde al sentire della società italiana. Da una recente inchiesta di Renato Mannheimer per “Il Corriere della Sera”, emergono dati che dicono come gli orientamenti dei cittadini italiani siano ispirati a una “laicità democratica”. Ben il 64% dei cittadini italiani, ad esempio, pensa che la legge sulla fecondazione vada modificata. Tra questi ci sono molti di quelli che non sono andati a votare e tuttavia chiedono alla politica di assumersi le sue responsabilità. Il 74% dei cittadini ― e tra questi tantissimi credenti ― dicono che la legge sull’aborto va mantenuta così com’è, o se va modificata, lo deve essere in senso non restrittivo. Il 73% ritiene che non sarebbe opportuno vietare l’aborto se qualcuno avesse in testa di farlo. E anche sull’opportunità che la Chiesa esprima le sue convinzioni esplicitamente, c’è un 38% che pensa che la Chiesa non debba manifestare le proprie tesi, ma c’è un 49% che invece riconosce il diritto di pronunciarsi, purché con indirizzi generali. Insomma, una cultura laica è fondata sulla “ragionevolezza”, una categoria che bene può raccogliere la domanda di una società che vuole essere laica, ma fonda la sua laicità sulla capacità di costruire sintesi condivise e tutela per ciascuno.

In questo scenario il ruolo dei cattolici impegnati in politica è cruciale. Un ruolo che oggi si esercita in modalità e forme diverse da quelle esercitate in altre fasi della vita del nostro paese. Non c’è più l’unità politica dei cattolici, esauritasi con la consunzione dell’esperienza politica della Democrazia Cristiana. Non solo, spesso si riflette poco sul fatto che la consunzione della Democrazia Cristiana italiana ha prodotto nel giro di pochi anni la consunzione dell’unità politica dei cristiani anche in Europa. Perché il ppe da partito dei partiti democratici cristiani sia è trasformato in partito dei partiti conservatori proprio quando il venir meno della Democrazia Cristiana italiana ha fatto trovare, di colpo, la dc tedesca sola in un panorama che, nei principali paesi del continente, non vedeva partiti fondati sull’unità politica dei cristiani o dei cattolici.

Oggi per i cattolici in politica è ormai acquisito un pluralismo di appartenenze. E d’altra parte il fatto stesso che la Chiesa decida sempre di più di parlare in prima persona ne è conseguenza e presa d’atto. La Chiesa non delega ad un soggetto politico la sua rappresentanza e si propone direttamente come un grande soggetto della società. Al tempo stesso consente a ciascun cattolico di essere libero nelle sue scelte di appartenenza politica e di vivere il rapporto tra fede e ragione in modi diversi e plurali.

Questo vale anche per i cattolici che si collocano nel centrosinistra, dove c’è ormai un pluralismo di appartenenza. È fin troppo nota un’inchiesta di Famiglia Cristiana da cui risultava che il 27% di coloro che dichiarano di essere praticanti, frequentando con assiduità la messa domenicale, votano per i Democratici di Sinistra. Dal che si evince che i ds sono un grande partito di cattolici, così come lo sono altre forze politiche italiane. Qualcuno pensa che ciò debba tradursi in una competizione tra i partiti su chi rappresenta più e meglio i cattolici. Un’impostazione vecchia, riflesso condizionato e nostalgico di un’unità politica di cattolici di cui in qualche modo non ci si è liberati. Oggi, le appartenenze politiche di chi è credente e ha una fede, sono plurali. Anche nel centrosinistra. E non appare davvero utile una competizione per chi sia più capace di rappresentare il mondo cattolico. Certamente i ds non sono interessati a questa competizione. Sono, invece, interessati a che l’Unione ― come alleanza larga del centrosinistra ― e l’Ulivo, come esperienza d’incontro tra i riformismi che stanno nel centrosinistra, siano luoghi in cui si realizzi anche un incontro tra credenti e non credenti, tra chi esprime valori e politiche derivandoli dalla fede e chi no, in una concezione plurale e laica del centrosinistra. In fondo l’Ulivo l’abbiamo pensato anche così, come superamento degli steccati e delle barriere che storicamente hanno diviso ― e spesso contrapposto ― cattolici e non. L’incontro dei riformismi è l’incontro di quelle forze che sono figlie e eredi delle grandi esperienze storiche, culturali, religiose del nostro paese. Quale che sia la legge elettorale che avremo di fronte, il problema di rilanciare con forza, con l’Ulivo, l’incontro tra i riformismi, e le loro culture di riferimento, è un obiettivo strategico e prioritario dell’agenda politica.

E tutto questo naturalmente investe anche i Democratici di Sinistra e il loro modo di essere un “partito plurale”. Il passaggio dal pds ai ds è avvenuto esattamente attraverso la scelta di una forte accentuazione della pluralità di culture che caratterizzano l’identità del nostro partito. E nella fondazione dei ds l’apporto dei Cristiano Sociali a questa identità plurale è stata rilevante per allargare e estendere gli orizzonti culturali e la rappresentatività dei Democratici di Sinistra. I ds sono un partito che si colloca nel socialismo europeo e internazionale ed è l’equivalente italiano di quello che sono l’spd in Germania, il Partito socialista in Francia, il psoe in Spagna, il Labour Party in Gran Bretagna. Ma questo collocarci in quell’orizzonte non è per nulla contraddittorio con il pluralismo della nostra identità, perché questo pluralismo si ritrova anche in tutti gli altri partiti socialisti e socialdemocratici. Pensiamo a come i Cristiano Sociali di Delors abbiano partecipato come fondatori al Partito Socialista Francese, a Epinay. Pensiamo a come il presidente dell’Internazionale Socialista Antonio Guterres, già primo ministro portoghese, sia uomo di fede dichiarata e praticata. Pensiamo a come nell’esperienza storica e culturale delle socialdemocrazie scandinave e anche nell’spd tedesca ci sia una forte influenza del pensiero luterano.

Quando si guarda all’Europa, non si può non vedere nella storia delle nazioni e dei popoli europei l’influenza e l’incidenza in tutte le famiglie politiche ― ivi compresa la sinistra, ivi compresa la grande famiglia socialdemocratica ― di un robusto pensiero, culturale, politico, sociale che deriva la sua identità e la sua storia anche dalla fede. E d’altra parte è stato proprio il cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto xvi, a scrivere “in molte cose il socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica. E in ogni caso, esso ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale”. Erano i giovani evangelici e cattolici della Rosa Bianca, una delle pagine più eroiche di opposizione al nazismo, che parlavano di un “socialismo ragionevole” come punto di riferimento della loro generosa scelta di impegno.

Se è così, è del tutto ovvio che dentro un grande partito di ispirazione socialista e socialdemocratica come sono i Democratici di Sinistra, l’esperienza di donne e uomini cattolici sia componente essenziale. E la funzione dei Cristiano Sociali, non è quella di essere una corrente di cattolici, ma di essere una componente essenziale che concorre all’identità culturale, politica, programmatica del partito. Fatto che va reso sempre più evidente con atti significativi nella formazione dei gruppi dirigenti, nei ruoli istituzionali, nonché nell’esposizione e nella visibilità pubblica.

Insomma: il nostro impegno è per una società capace di riconoscere e tutelare le libertà, insieme alla promozione della responsabilità in cui ciascuno è chiamato a esercitare la propria libertà. Il nostro impegno è teso a costruire una società che riconosca il pluralismo culturale, sociale, politico, religioso, promuovendo la ricerca di soluzioni condivise che consentano ad una società di riconoscersi ed essere unita intorno a valori forti. La nostra concezione della politica, insomma, ci spinge a promuovere un nuovo umanesimo e una nuova etica pubblica. Ma sappiamo che essi possono nascere e vivere solo nell’incontro di culture, di esperienze, di identità, di storie. Noi pensiamo così, di contribuire a fare in modo che la società italiana, riconoscendosi in valori condivisi, possa guardare al proprio futuro con maggiore serenità e maggiore forza1.

 

 

 

Nota

1 Questo testo è tratto dal discorso conclusivo al 3° Convegno nazionale di studi dei Cristiano sociali, dedicato a “Laicità, etica pubblica e democrazia”, Assisi 1-2 ottobre 2005.