Religiosità e voto negli anni del maggioritario

Di Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

La contrapposizione tra laici e cattolici ha avuto, come è ben noto, un ruolo decisivo nella formazione del sistema dei partiti e ha condizionato il comportamento elettorale di milioni di italiani. Il suo peso è stato maggiore di altre linee di divisione, come ad esempio il conflitto tra capitale e lavoro. A cavallo degli Settanta e Ottanta, anche in Italia si sono manifestati segni evidenti di una riduzione sensibile del numero di cattolici coinvolti nella vita della Chiesa. Un processo che ha inciso sulle fortune elettorali del partito votato dai cattolici. Ciò è accaduto in particolare nelle regioni settentrionali del paese, quelle per altro dove il voto alla DC si manifestava attraverso l’appartenenza ad una sub-cultura territoriale. Il che ha offerto non piccole opportunità di crescita elettorale a nuove formazioni come la Lega, che del localismo nudo e crudo si sono erte rappresentanti. Tuttavia l’allineamento tra religiosità e voto alla DC si è protratto a lungo. Ancora nelle elezioni del 1992, alla vigilia del terremoto politico del 1993-94, la DC riusciva a conquistare la maggioranza del voto dei cattolici che si recavano a messa ogni domenica. Poi si è mossa la politica; le regole della competizione sono cambiate; è venuta la decisione di sciogliere la DC.

La contrapposizione tra laici e cattolici ha avuto, come è ben noto, un ruolo decisivo nella formazione del sistema dei partiti e ha condizionato il comportamento elettorale di milioni di italiani. Il suo peso è stato maggiore di altre linee di divisione, come ad esempio il conflitto tra capitale e lavoro. A cavallo degli Settanta e Ottanta, anche in Italia si sono manifestati segni evidenti di una riduzione sensibile del numero di cattolici coinvolti nella vita della Chiesa. Un processo che ha inciso sulle fortune elettorali del partito votato dai cattolici. Ciò è accaduto in particolare nelle regioni settentrionali del paese, quelle per altro dove il voto alla DC si manifestava attraverso l’appartenenza ad una sub-cultura territoriale.1 Il che ha offerto non piccole opportunità di crescita elettorale a nuove formazioni come la Lega, che del localismo nudo e crudo si sono erte rappresentanti. Tuttavia l’allineamento tra religiosità e voto alla DC si è protratto a lungo. Ancora nelle elezioni del 1992, alla vigilia del terremoto politico del 1993-94, la DC riusciva a conquistare la maggioranza del voto dei cattolici che si recavano a messa ogni domenica. Poi si è mossa la politica; le regole della competizione sono cambiate; è venuta la decisione di sciogliere la DC. Infine è apparsa sulla scena una nuova offerta politica. La conseguenza è stata che dalle elezioni del 1994 in poi il tenace allineamento tra religiosità e voto si è allentato a tal punto da far pensare che una delle fratture politiche storiche del nostro paese sia stata riassorbita.2

Questo richiamo a fatti arcinoti è utile per attirare l’attenzione sul fatto che in Italia, come del resto anche in altri paesi europei, il rapporto tra religiosità e voto evolve sotto la spinta di due cause diverse: l’erosione del bacino elettorale di riferimento di un partito e il mutamento dell’offerta politica. Il primo è una fattore strutturale; deriva dal processo di secolarizzazione; opera sui tempi lunghi e lentamente. Il secondo ha natura politica e attiene ai processi di ristrutturazione del e nel sistema dei partiti. Dei due fattori è probabile che il secondo sia al dunque quello decisivo. Così probabilmente è stato nel caso italiano, dal momento che la fine dell’allineamento tra religiosità e voto è dipesa più dalla decisione dei leader della DC di dividersi in vari tronconi e dalla comparsa di una nuova offerta che dal lento procedere del cambiamento (quantitativo e qualitativo) della tradizionale base di riferimento della DC costituita da cattolici praticanti regolari, fedeli agli insegnamenti dogmatici e morali della chiesa e sensibili alla voce dei loro pastori sui temi politici. È importante distinguere con chiarezza tra questi due fattori, perché solo separandoli nell’analisi si possono prendere le misure dei loro effetti di interazione sulle fortune di una forza politica che si richiami ai valori religiosi. È vero infatti che le opportunità e i vincoli per un partito sono determinati da fattori di lungo periodo, come, nel caso del voto dei cattolici, dallo stadio raggiunto dal processo di secolarizzazione culturale. Ma è vero anche che una forza politica può in una certa misura forz a re a suo vantaggio i vincoli strutturali. Insomma, una spiegazione solo sociologica della riduzione della frattura religiosa in Italia è insufficiente perché l’offerta politica può ricrearne le ragioni. Ma, di nuovo, ciò può accadere solo entro certi limiti e la storia non si ripete nella stessa forma.

Queste osservazioni non hanno un rilievo solo accademico. Dopo oltre dieci anni di esperienza maggioritaria siamo alle soglie forse di un nuovo cambiamento dell’offerta politica. O meglio, vi sono evidenti tentativi o propositi di procedere in questa direzione. In questo contesto la questione del voto dei cattolici occupa palesemente una posizione centrale.

Nelle pagine che seguono esamineremo alcuni aspetti del voto dei cattolici dagli anni Novanta ad oggi e lo faremo a partire da un termine di riferimento concettuale preciso. Diversi anni fa Parisi e Pasquino definirono il voto dei cattolici come un voto di appartenenza. Con ciò intendevano un voto che esprime una identificazione ad una comunità prepolitica più che l’esito di un processo decisionale individuale. Il che ci obbliga, dovendo parlare di oggi, a chiederci se l’appartenenza alla comunità ecclesiale dei cattolici abbia conservato in questo scorcio di secolo le dimensioni e i tratti di quella che avevano in mente Parisi e Pasquino nel 1977.

Allora il voto dei cattolici veniva descritto come un voto a prescindere, a prescindere cioè da quello che dicevano e facevano i dirigenti del partito votato. È un tratto questo che persiste nel comportamento di voto dei cattolici nella stagione del maggioritario?

Infine, molteplici erano le ancore che stabilizzavano il voto dei cattolici alla DC, ma molte di queste si aggrappavano solidamente al coinvolgimento settimanale dei cattolici alla vita della Chiesa, alla pratica religiosa secondo il precetto. A tal punto che chi si occupa di previsioni elettorali non può che rimpiangere il tempo felice in cui bastava chiedere all’intervistato quanto volte si recava in chiesa per prevedere con un margine minimo di errore il voto di oltre il 60% o il 50% degli italiani, a seconda dei periodi.

Dunque gli interrogativi che ci poniamo in questo contributo sono: come è cambiata l’appartenenza alla comunità ecclesiale dagli anni Settanta ad oggi e come si è evoluto il comportamento di voto dei cattolici nella stagione del maggioritario.

 

L’evoluzione nel tempo della pratica religiosa e della fedeltà agli insegnamenti della Chiesa tra gli italiani

La Tabella 1 mostra l’evoluzione dalla fine degli anni Sessanta ad oggi della pratica.

Tabella 1

La riduzione dei praticanti regolari, cioè di quei cattolici che ottemperano al precetto settimanale, è evidente. La diminuzione si è manifestata con chiarezza negli anni Ottanta. Ma altri studi4 hanno mostrato che il declino è iniziato prima, a metà degli anni Settanta. Da allora la quota di italiani che dicono di recarsi in Chiesa ogni domenica si è mantenuta sino ad oggi a un livello che oscilla tra un quarto e un terzo degli italiani. Il declino della quota dei praticanti regolari è avvenuto in tutte le zone del paese, anche se, come abbiamo già osservato, la diminuzione è stata più intensa negli anni Ottanta nella exzona bianca. Tuttavia la percentuale di cattolici praticanti non è diminuita ad un tasso costante generazione dopo generazione. Ma al contrario la sua diminuzione pare rallentare nelle generazioni più giovani. Infatti, prendendo in considerazione il dato della pratica religiosa all’interno di cinque generazioni nel periodo dal 1990 al 2005 scopriamo che la differenza tra la percentuale di praticanti regolari appartenenti alle due generazioni più anziane è di circa -8 punti percentuali. Quella che intercorre tra le due generazioni più giovani di 0,2 punti percentuali. Si tratta di una differenza sensibile con quanto è accaduto in Spagna dove invece il declino della religiosità è proseguito in misura accentuata anche tra le generazioni più giovani.5

La frequenza alla Messa domenicale è tuttavia solo un aspetto dell’identità cattolica, quello immediatamente visibile. Per descrivere i tratti dell’essere cattolici oggi è opportuno prendere anche in considerazione altri aspetti più riposti del rapporto con la religione degli italiani. Tenuto conto degli inevitabili margini di errore, è utile osservare in che misura i cattolici praticanti regolari manifestano credenze religiose, aderiscono a valori e manifestano opinioni coerenti con l’insegnamento dogmatico, etico e pastorale della Chiesa.

Sotto questo profilo diversi studiosi hanno rilevato con dovizia di dati l’esistenza di un sensibile pluralismo nelle credenze e nelle condotte morali anche all’interno dei praticanti regolari.6 I dati raccolti dall’indagine World Value Study nel 1999 relativi all’Italia confermano una certa eterogeneità tra i cattolici praticanti. Per esempio, solo il 60% di costoro condivide tutte le seguenti credenze: che Dio sia un persona e non una forza impersonale, che esistano il paradiso e l’inferno, che ci sia la vita dopo la morte e che esista il peccato. Una percentuale simile condivide in toto un codice etico in base al quale l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il suicidio, l’omosessualità e la frequentazione di prostitute sono valutati come comportamenti inammissibili per i propri valori.7

Insomma, vedendola dal punto di vista speculare, è interessante notare come una minoranza sensibile di cattolici praticanti nel 1999 manifestava orientamenti non completamente in linea con i dogmi e la morale cattolica.

Nel passato il grado di coerenza, soprattutto in relazione al codice etico della tradizione cattolica, era decisamente maggiore, come si può vedere dalla Tabella 2 che compara la percentuale di adesione alla visione etica cattolica del 1981 con quella del 1990 e del 1991.

Tabella 2

In tutte e tre le rilevazioni i cattolici praticanti aderiscono alla visione etica proposta dalla Chiesa in una misura più stretta dei non praticanti o dei completamente estranei alla religione. Ma è un dato ovvio. Non è invece ovvio il fatto che dal 1980 al 1999 la quota di coloro che sono d’accordo con il codice etico proposto dalla Chiesa in materia morale diminuisca all’interno dei praticanti regolari, il nucleo dei fedeli cioè più coinvolti nella vita della comunità ecclesiale. Si passa infatti dal 78% del 1981 al 61% nel 1999.

In sintesi, a fronte di una quota praticante regolare che da qualche anno si è attestata a circa il 25-30% degli italiani, i cattolici che aderiscono in toto all’insegnamento della Chiesa sono diminuiti in misura notevole e negli ultimi anni rappresentano un segmento dell’elettorato che oscilla tra il 18% e il 20% degli italiani.

Questi dati fanno forse capire meglio cosa ha in mente la Chiesa quando prende posizione contro il relativismo. Si sta infatti diffondendo nel nostro paese, come negli altri, anche tra i fedeli più vicini all’istituzione una religiosità á la carte che evidentemente non può non preoccupare l’istituzione. Anche perché la percentuale più alta di fedeli pluralisti la troviamo tra la generazione dei nati dopo il 1970. Una generazione al cui interno molti vanno in Chiesa regolarmente, presumibilmente erano affascinati della personalità del vecchio pontefice, ma tutto ciò non sembra tradursi in opinioni e atteggiamenti in linea con il magistero della Chiesa.

Dunque, tirando le fila del discorso, l’identità cattolica degli italiani valutata sulla base di questi grossolani dati appare un po’ diversa da quella di trenta anni fa, in particolare sotto il profilo della non piena corrispondenza tra appartenenza alla comunità ecclesiale e condivisione dei valori proposti dall’insegnamento tradizionale. La domanda a questo punto è: in quale rapporto stanno l’identità cattolica così com’è e il comportamento di voto?

 

Identità cattolica e comportamento di voto nella stagione del maggioritario

Il voto dei cattolici prescindeva da quello che la DC faceva, si diceva poco sopra. Il che voleva dire che votare il partito di riferimento era il frutto di una long standing decision. In effetti nel passato, alla domanda sui tempi della decisione di voto, la quota dei cattolici praticanti che rispondeva di aver deciso molto tempo prima delle elezioni era superiore alla quota presente nel resto del campione. Negli anni Novanta, secondo vari indagini Itanes, le cose sono cambiate e tra costoro la quota di chi vota a prescindere è stata minore della quota presente nel campione. Insomma, tra i cattolici praticanti pare essere aumentata nel corso degli anni Novanta la propensione ad affrontare la scelta di voto con una serenità minore di quando essi votavano DC senza avvertire il peso che ogni decisione porta con sé.

Inoltre, in questi ultimi anni è anche aumentata l’instabilità del voto dei cattolici. Sempre considerando i dati Itanes, tra i cattolici praticanti sono lievemente sottorappresentati gli elettori che nel passaggio 1996 e 2001 hanno votato per lo stesso partito e la stessa coalizione.

Inoltre, a conti fatti, in tutte le elezioni del ciclo maggioritario la direzione di voto dei cattolici praticanti si è sempre grosso modo equidistribuita tra le due coalizioni. Ma questa è una storia già raccontata altrove.8 Una storia, per altro, che pare continuare anche dopo il 2001, come mostra la Tabella 3, che raccoglie le intenzioni di voto tra il gennaio e il settembre 2005 (dati IPSOS).

Tabella 3

La differenza tra le intenzioni di voto al centrosinistra e al centrodestra all’interno dei praticanti regolari è di solo 4 punti a vantaggio del primo, mentre quella all’interno dei non praticanti è maggiore. La parte inferiore della tabella mostra come si distribuiscono tra i partiti le intenzioni di voto dei due segmenti di elettori. Nel campo di centrosinistra il consenso di quote non piccole di elettori cattolici praticanti va anche ad un partito (i DS) fuoriuscito da tradizioni politiche distanti o contrapposte a quelle verso cui andava normalmente il voto dei cattolici. La Margherita, che incorpora al suo interno gli ex-popolari, mostra una percentuale di voto cattolico di poco superiore ai DS. Tutto ciò sembra smentire chi ama pensare che gli elettori dei due partiti maggiori di centrosinistra siano ancora nel cono d’ombra delle identità del passato. Nel campo di centrodestra Forza Italia è il partito che attrae la percentuale più alta del voto cattolico.

Va da sé che se consideriamo l’incidenza del voto cattolico praticante all’interno dell’elettorato di ciascun partito allora le forze con più elettori cattolici sono l’UDC e la Margherita. Ma questo dipende in parte dalle dimensioni del consenso elettorale complessivo di tali partiti.

La Tabella 3 mostra un altro dato. Tra i praticanti regolari una quota non piccola, il 30%, non ha espresso una esplicita intenzione di voto. Si è dichiarata indecisa o ha detto che intendeva votare scheda bianca o non ha risposto alla domanda sul voto. In altre parole, un cattolico praticante su tre appartiene alla schiera degli elettori reticenti e indecisi.9 Un gruppo nel quale di solito abbondano coloro che non hanno propensioni forti per uno o per altro schieramento. Magari hanno qualche inclinazione, ma non così ben definita da poter essere dichiarata esplicitamente e soprattutto tradotta in un comportamento di voto scontato e indifferente a quel che accade in una campagna elettorale. Non c’è bisogno di sottolineare che la mobilitazione o smobilitazione di questo segmento elettorale può rappresentare la circostanza chiave di una vittoria elettorale.

Un esempio virtuale di quanto si sta dicendo viene offerto dalla Figura 2. È un esempio virtuale perché riguarda l’evoluzione delle intenzioni di voto maggioritario, secondo le indagini IPSOS, tra il maggio e gli inizi di luglio del 2005, il periodo cioè prima e dopo il referendum del 12 giugno sulla pro c reazione assistita. Ma è un esempio, crediamo, illuminante.

Figura 1

Come si vede, nei due mesi a ridosso del referendum, tra i cattolici praticanti la differenza tra i due schieramenti si azzera, mentre sale la p e rcentuale di quelli che dicono di non sapere per chi votare. L’andamento delle intenzioni di voto in quelle settimane non giunge a modificare la prevalenza del centrosinistra nel complesso del periodo tra il gennaio e il settembre 2005, come emerge dai dati della Tabella 3. Ma il clima d’opinione creatosi attorno al referendum evidentemente ha lasciato una traccia. Si noti che l’andamento, nello stesso periodo, delle intenzioni di voto dei non praticanti è praticamente piatto. Il che vuole dire che sono i cattolici praticanti a risentire di più del clima d’opinione creatosi attorno al referendum e sui temi del referendum. Forse quel clima ha ridotto il numero di dichiarazioni di voto a favore del centrosinistra e ha aumentato la schiera di chi si trincera dietro il non so o l’indecisione. Insomma, pare proprio che la pratica religiosa non sia più un buon predittore del voto. Non basta chiedere all’intervistato quante volte va a messa per capire la sua direzione di voto. La pratica religiosa non riesce neanche più a predire bene se alla fine l’elettore si recherà alle urne e voterà come ha sempre votato. D’altra parte, lo abbiamo visto poco sopra, nemmeno sapere che un elettore è un cattolico che va in Chiesa ogni domenica ci assicura sulla coerenza completa delle sue credenze e della sua visione etica con quanto insegnato dal Magistero.

Considerando tutto ciò, viene da pensare che nel tentativo di analizzare il rapporto tra voto e religiosità negli anni Novanta stiamo usando l’indicatore sbagliato. Perché non prendere in considerazione, al posto della frequenza alla messa, il grado di adesione dei cattolici praticanti ai valori etici proposti dalla Chiesa? Forse, hanno ragione coloro che dicono che per capire il rapporto tra religione e politica dobbiamo guardare alla coerenza personale con cui si vive la propria fede piuttosto che attardarci a considerare la sola frequenza ai riti (che per altro rimane un precetto importante per l’istituzione).

In realtà, se prestiamo fede ai dati del World Value Study del 1999, le cose sono più complicate di quanto si immagini chi paventa o si entusiasma per il cosiddetto ritorno dei valori sulla scena politica. Le intenzioni di voto dei cattolici praticanti le cui credenze e codice etico sono coerenti in toto con la tradizione cattolica sono distribuite in modo equo tra i due schieramenti (grosso modo il 27% per il centrosinistra e altrettanto per il centrodestra, con un 45-46% di non so, non voterei, sono indeciso e non voglio rispondere). Dunque, neanche la condivisione di valori etici non consoni con quello che i più considerano lo spirito dei tempi pare discriminare tra gli schieramenti.

Sarebbe però un errore considerare conclusivo questo dato. Anzitutto dobbiamo osservare che stiamo parlando di credenze e di valori etici che possono venire percepiti appartenere a una sfera non politica. Detto in altre parole, chi ritiene che per lui non sia ammissibile l’aborto, l’eutanasia, il suicidio e il divorzio non è detto che sia a favore di una legislazione statale che imponga un divieto a chi non la pensa così. Chi condivide una morale convenzionale non per ciò stesso è un integrista. Lo diviene quando pensa che i suoi valori debbano essere alla base della legge, di un dispositivo cioè prodotto da un atto politico. Il confine tra condivisione di valori etici personali e integrismo viene superato quando i valori etici diventano un’opinione su issue politici, quando cioè i valori etici vengono tematizzati entro un discorso pubblico altamente divisivo, perché articolato in opposte retoriche valoriali.10 Non occorre dire che di questi tempi da più parti spuntano molti imprenditori politici interessati a mettere in scena tali retoriche. Cosa accade sul piano dei comportamenti quando i codici morali divengono retoriche valoriali? Non lo sappiamo bene. Abbiamo però alcuni dati che ci suggeriscono una tesi.

I dati. Secondo l’indagine Itanes del 2001 i cattolici praticanti regolari d’accordo sia con l’affermazione che la legge dell’aborto era sbagliata, sia nel negare il riconoscimento del diritto al matrimonio alle coppie gay, sia sul finanziamento delle scuole cattoliche hanno votato per il 70% per la Casa delle Libertà. Si noti che le tre domande non riguardavano la posizione degli intervistati sull’ammissibilità o meno di comportamenti personali, ma la loro opinione su issue del discorso politico corrente. Allo stesso modo, secondo un’indagine SWG, nel periodo tra il 2002 e il 2005, i praticanti regolari che sono sia d’accordo sul valore dell’insegnamento della Chiesa, sia contro la legge sull’aborto sia contro una proposta di legge sull’eutanasia, hanno dichiarato una preferenza sensibile verso il centrodestra, anche se tra costoro prevalgono quelli che dicono di non sapere per chi votare.11

La tesi. Se i valori etici si trasformano in issue politiche, aumenta la probabilità che i cattolici praticanti coerenti con le posizioni della Chiesa sui valori etici sviluppino una preferenza verso il centro-destra o una sospensione della scelta di voto.

 

Considerazioni finali

Il quadro che emerge da questa analisi appare complesso. Proviamo a mettere in fila i punti principali emersi. L’identità cattolica alla base del voto religioso appare oggi più frastagliata di quando c’era la DC. La semplice appartenenza alla comunità ecclesiale non predice più bene il voto. La direzione di questo non è scontata. Il voto dei cattolici non è più a prescindere. Tutto questo ci porta a concludere che il tempo per un partito di impianto tipico democristiano è definitivamente tramontato. Tuttavia imprenditori strategicamente accorti potrebbero gettare le ancore del voto verso le aree dei valori, trasformando le opzioni personali a favore di codici morali tradizionali in issue politiche divisive. In questo modo si potrebbero ricreare le condizioni per un allineamento tra religiosità e voto apparentemente simile a quello del passato, ma dalla natura completamente diversa. È evidente che questa è una possibilità che trae la sua forza dalle virtù della politica più che dalle opportunità concesse dallo stato delle cose a livello sociostrutturale. Il che è come dire che i cattolici praticanti, in particolare quelli che non considerano la loro fede un menu á la carte ma non sono ancora integristi, costituiscono un terreno di competizione strategico.

 

 

Bibliografia

1 P. Segatti, Religiosità e territorio nel voto alla Democrazia Cristiana dal 1948 al 1992, in «Polis», 1/1999, pp. 45-68.

2 G. Sani e P. Segatti, Fratture sociali, orientamen zti politici e voto: ieri e oggi, in S. Bartolini e R. D’Alimonte (a cura di), Maggioritario finalmente? La transizione elettorale 1994-2001, Il Mulino, Bologna 2002; P. Corbetta e P. Segatti, Un Bipolarismo Senza Radici, in S.Ceccanti e S. Vassallo (a cura di), Come Chiudere la transizione, Il Mulino, Bologna 2004.

3 I dati provengono dalle seguenti fonti: per il 1968 l’indagine Barnes, per il 1972 lo studio Barnes e Sani, per il 1985 la ricerca 4 Nazioni, per il periodo tra il 1990 e il 2001 la serie Itanes-Cattaneo, per il 2004 e 2005 le indagini IPSOS, i cui principali ricercatori vogliamo ringraziare per averci concesso l’accesso ai loro dati.

4 Segatti, Religiosità cit.; M. Pisati, La domenica andando alla Messa. Un’analisi metodologica e sostantiva di alcuni dati sulla partecipazione degli italiani alle funzioni religiose, in «Polis», 1/2000, pp. 113-136.

5 J. R. Montero, Cambiamento religioso e cambiamento politico in Spagna, in «Polis», 1/1999, pp. 25-44.

6 Per esempio si vedano i contributi nel recente volume: F. Garelli, G. Guizzardi e E. Pace (a cura di), Un singolare pluralismo, Il Mulino, Bologna 2003.

7 L’indice fedeltà al dogma è stato costruito sommando i punteggi di sei indicatori dicotomici di credenze religiose. L’indice di coerenza al codice etico è stato costruito sommando assieme i punteggi di indicatori di ammissibilità di sei comportamenti e poi dividendo il risultato per il numero di item (con l’avvertenza di escludere i casi individuali con risposte mancanti su più di tre indicatori di base). I punteggi degli indicatori di base variavano da 1 a 10. Alla fine l’indice è stato suddiviso in tre segmenti. Coerenti sono stati considerati quelli con media pari a 9 o superiore.

8 Sani e Segatti, op. cit.; Corbetta e Segatti, op. cit.

9 In passato la reticenza era diffusa di più tra gli elettori di sinistra e quindi non praticanti. Ora, a giudicare dai dati IPSOS è grosso modo di pari livello.

10 Chiamiamo retorica valoriale una modalità del discorso pubblico che nel far derivare le opinioni su issue politici dai sistemi di valori personali tende a rimuovere l’intrinseca conflittualità di questi. In questo modo la retorica fornisce alla persona una gerarchia preconfezionata di valori e altrettanto preconfezionate regole di applicazione dei principi generali ai casi particolari. Le retoriche valoriali in sostanza aiutano ad aggirare la difficoltà della decisione individuale tra valori egualmente condivisi ma in conflitto tra loro.

11 I cattolici praticanti che sembrano condividere in toto le opinioni integriste, secondo i dati Itanes e SWG, sono molti di meno di quei cattolici praticanti che paiono aderire in toto alla visione etica cattolica secondo i dati World Value Study del 1999. I primi ammontano a circa il 20% dei cattolici praticanti, mente i secondi al 60%. I dati Itanes mostrano inoltre che, prese singolarmente, le opinioni sulla legge sull’aborto, sull’equiparazione dei diritti degli omosessuali e sul finanziamento delle scuole private discriminano poco la scelta di voto, mentre, come abbiamo visto, discrimina molto se l’intervistato è allo stesso tempo contrario ai primi due e a favore del terzo. Si ringrazia infine SWG per aver potuto esaminare i dati delle loro indagini.