Governance e sviluppo economico dell'area metropolitana milanese

Di Luigi Vimercati Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Negli ultimi vent’anni Milano è stata oggetto di una grande trasformazione, che ne ha completamente cambiato la struttura produttiva. Questa trasformazione ha posto fine alla storia della città quale capitale dell’industria fordista italiana, con un numero limitato di grandi fabbriche che assorbivano la maggior parte dell’occupazione, e ha dato vita a un sistema produttivo fortemente frammentato e contrassegnato da un’accentuata terziarizzazione.

Negli ultimi vent’anni Milano è stata oggetto di una grande trasformazione, che ne ha completamente cambiato la struttura produttiva. Questa trasformazione ha posto fine alla storia della città quale capitale dell’industria fordista italiana, con un numero limitato di grandi fabbriche che assorbivano la maggior parte dell’occupazione, e ha dato vita a un sistema produttivo fortemente frammentato e contrassegnato da un’accentuata terziarizzazione.

 

Milano è la «Grande Milano»

Milano è una grande metropoli, con più di 326.400 imprese, 1.650.000 occupati, un prodotto interno lordo pari a oltre il 10% di tutto il PIL nazionale. Una «città infinita» per il sociologo Aldo Bonomi, uno dei più acuti studiosi della realtà metropolitana milanese. Non dissimile è il punto di vista dell’OCSE, chiamato a studiare il «caso Milano» dall’Amministrazione provinciale. Per la più importante organizzazione internazionale nel campo della cooperazione e dello sviluppo, Milano è una grande area funzionale che va ben oltre i confini stessi della provincia e si caratterizza come una metropoli dal forte dinamismo, che fonda la sua nuova identità sul terziario, la finanza, la ricerca, l’università. Una metropoli per vari aspetti magmatica, comunque capace di generare centinaia di migliaia di opportunità di lavoro ogni anno. Pochi dati, ma sufficienti per far capire quanto Milano sia ancora una locomotiva del sistema economico e produttivo del nostro paese, una protagonista di primo piano in Europa e nel mondo.

E come tale ancora riconosciuta all’estero.

Tutto bene, dunque? No. I problemi della città e dell’area milanese – dall’inquinamento al traffico, all’immigrazione, alle nuove povertà, al declino delle periferie – ne fanno una città segnata da profonde disuguaglianze sociali, da rilevanti fenomeni di degrado urbano e da un livello di qualità della vita tra i più bassi al confronto con altre realtà metropolitane europee. Questo perché la trasformazione che da vent’anni sta cambiando Milano è avvenuta in modo spontaneo, senza alcun rapporto con un progetto politico di ampio respiro. Le Amministrazioni comunali guidate dai sindaci Marco Formentini prima e Gabriele Albertini poi hanno governato all’insegna dell’antipolitica, in omaggio alla logica «dell’amministratore di condominio», più attenta a giardinetti e marciapiedi che a investimenti di carattere strategico.

Mentre nelle altre grandi città italiane ed europee in questi anni sono state attivate rilevanti istituzioni culturali e realizzate infrastrutture pubbliche, a Milano non uno dei progetti annunciati è diventato realtà, con l’eccezione della nuova Fiera a Rho. Milano è l’unica città a non avere, per esempio, un museo di arte contemporanea, a non avere una grande biblioteca pubblica. Così come non è stata costruita alcuna nuova linea della metropolitana. Né l’Amministrazione comunale si è dotata di un piano strategico, che si è rivelato strumento cruciale per esempio nel nuovo sviluppo di Barcellona, capace di coniugare lo sviluppo economico con i grandi investimenti infrastrutturali, per dare così risposta al bisogno di mobilità di persone e merci nel rispetto dell’ambiente.

 

Un grande progetto politico per superare la sindrome di Peter Pan 

C’è insomma una palese contraddizione tra il dinamismo del sistema produttivo e l’insufficienza di una politica locale di centrodestra, affetta dalla sindrome di Peter Pan. Incapace di riconoscere in Milano una grande città metropolitana e di elaborare un progetto di governance all’altezza dei suoi bisogni, dei suoi problemi, delle sue aspirazioni, della sua reputazione. E proprio tale piccolezza, citando lo scrittore Luca Doninelli, sembra essere il male più difficilmente guaribile: «Una città affetta dalla piccolezza, in che modo potrà diventare grande? Ecco il male maligno, soprattutto trattandosi di una città, come Milano, nata con la vocazione alla grandezza e cresciuta, in certe epoche, secondo una vera e propria ingegneria della grandezza».

È necessario dunque partire da questo punto, dal riconoscimento di Milano come una grande città metropolitana, se si vogliono affrontare con successo le sfide poste dal cambiamento epocale.

Se ciò è vero, in vista delle elezioni comunali della prossima primavera, il compito primario del candidato sindaco dello schieramento di centrosinistra è dare vita a un progetto forte, credibile e concreto, in grado di coniugare lo sviluppo competitivo della città con la coesione sociale. Fondamentale, per dare una risposta di governo alla vocazione di grandezza della città, è porre la questione di una modifica profonda degli assetti istituzionali, affinché la grande Milano sia finalmente guidata da un potere autorevole e democratico.

 

La necessità di una visione strategica

In un’intervista pubblicata recentemente sul «Corriere della sera», il primo ministro britannico Tony Blair ha detto che ci sono due visioni dell’Europa: «Una è quella, pessimista, che vede la globalizzazione e l’allargamento come minacce. L’altra, ottimista, le vede come straordinarie opportunità e ritiene che l’Europa possa diventare più larga e approfondita mentre affronta e vince le sfide. Dovremo avere comunque chiaro che Cina e India non faranno concorrenza solo con le produzioni di massa e il lavoro a basso costo, ma già si affacciano nei settori dei beni a valore aggiunto e dei servizi. Allora, ci riformiamo per affrontare queste sfide o, invece, cerchiamo rifugio nel passato?».

Un ritorno al passato è impossibile. Innanzitutto perché il mondo è cambiato e indietro non si può tornare. Come l’Europa, anche Milano ha bisogno di una nuova visione strategica per arrivare a elaborare e mettere in pratica un’Agenda di governo per i prossimi dieci anni, come quella proposta nel 2000 dal Consiglio europeo a Lisbona. E al centro di tale Agenda milanese ci devono essere le politiche pubbliche finalizzate a sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza.

Come è noto, il bilancio dei primi anni della Strategia di Lisbona non è lusinghiero, anche per lo scarso impegno di molti governi, tra i quali quello italiano, che non ha saputo definire misure concrete per rilanciare e supportare la competitività del «sistema Italia». I rapporti di André Sapir e Wim Kok hanno evidenziato ritardi e nebulosità nella tabella di marcia, ribadendo la centralità della conoscenza e dell’innovazione come chiavi per affrontare con successo il tema della competitività e per assicurare un futuro prospero agli abitanti dell’Unione. Cionondimeno, la sfida posta a Lisbona rimane l’asse strategico di fondo per consentire alle imprese di competere sul mercato globale.

 

Perché innovare è di rigore

Le considerazioni sul tema dello sviluppo economico, che attribuiscono un valore strategico alla questione dell’innovazione, aprono la porta a una domanda cruciale: perché è di rigore innovare? Solo per ricercare nuove soluzioni tecnologiche da trasferire alle aziende, affinché cerchino di superare il divario di produttività che separa l’Italia e l’Europa dalle economie più dinamiche, in un contesto nel quale il ciclo di vita di ogni prodotto e know-how, dunque il vantaggio competitivo, sono sempre più brevi e la pressione concorrenziale crescente? O c’è sotto qualcos’altro, una diversa visione del ruolo e delle finalità dell’innovazione?

Anche per il «sistema Milano» la risposta è vitale. Lo scenario del processo innovativo è, in effetti, più sfaccettato e multidimensionale. In particolare, l’innovazione va intesa come espressione di imprenditorialità, come ricorso a una discontinuità positiva di fronte alle pressioni competitive. Il che presuppone una cultura di impresa viva, aperta al rischio e alla sperimentazione come elementi fondanti del business, sostenuta da un’infrastruttura finanziaria e di servizi orientata verso tali valori. L’innovazione – e qui è il punto che richiede un’attenta riflessione – va vista inoltre come responsabilità di governo del territorio, come un processo che ha per destinatario finale le imprese, ma le cui variabili fondamentali risiedono in massima parte sul territorio stesso. Ciò significa assegnare ai sistemi territoriali e alle istituzioni responsabili dello sviluppo economico locale un ruolo essenziale nel determinare il livello di innovazione e, di conseguenza, la competitività di tutti gli attori che operano in quel contesto, intervenendo su variabili al di fuori dei meccanismi di mercato. Senza contare che i più recenti contributi sulle dinamiche dello sviluppo economico individuano proprio nel livello regionale e metropolitano l’ambito ottimale per un efficace intervento in materia di innovazione.

La sfida della competizione globale già vede a Milano la convergenza della Provincia e della Camera di commercio, che hanno deciso di istituire un grande centro per l’innovazione delle imprese. Gli obiettivi che la città deve porsi sono: supportare la nascita di nuove imprese e il radicamento di una cultura imprenditoriale diffusa sul territorio; sostenere lo sviluppo dei settori emergenti nell’area milanese e la crescita di vocazioni imprenditoriali a elevato valore aggiunto; favorire l’accesso delle piccole e medie imprese al mercato dell’innovazione; valorizzare il sistema delle agenzie territoriali di sviluppo e il sistema delle partnership tra attori dell’innovazione per migliorare l’offerta alle aziende locali; promuovere l’accesso alle risorse finanziarie per sostenere i processi di innovazione; valorizzare la proprietà intellettuale e incentivare il ricorso alla brevettazione europea; qualificare l’offerta di lavoro e le competenze per l’innovazione delle risorse umane del territorio; potenziare il ruolo delle pubbliche amministrazioni nei processi innovativi.

 

Milano capitale dell’economia della conoscenza

L’evoluzione dello sviluppo economico dell’area milanese dal modello di stampo fordista a quello postfordista ha portato alla ribalta nuove eccellenze. Il futuro, in sostanza, non è legato soltanto ai tradizionali settori di punta della moda e del design, che indubbiamente vanno tutelati e valorizzati insieme a tutto il comparto delle industrie creative su cui si è edificata un’ampia fetta del prestigio internazionale della metropoli, ma anche a novità quali la ricerca biomedica e biotecnologica. A Milano si concentra la maggior parte dei centri di ricerca e delle imprese che in Italia si occupano di scienze della vita: in particolare, vi ha sede il 37% delle aziende biotech.

Tutti i comparti di eccellenza che gravitano sull’area metropolitana milanese non possono che candidarla a essere una delle capitali europee dell’economia della conoscenza. Il che comporta, tra l’altro, uno stretto rapporto con il sistema universitario milanese per riuscire a disporre di ricercatori capaci di entrare in sintonia con le esigenze del mondo imprenditoriale e di giovani laureati in grado di inserirsi positivamente nel nuovo sistema produttivo. È chiaro che, per poter assolvere il loro compito, le università devono essere aiutate dalle pubbliche istituzioni per qualificare meglio le loro proposte di alta formazione, finalizzate all’economia della conoscenza. Ed è altresì essenziale che gli atenei si pongano l’obiettivo di aumentare la presenza, ancor esigua, di studenti stranieri provenienti in particolare dai paesi emergenti sul mercato mondiale, quali la Cina, l’India, il Brasile, la Russia. E di rendere ancor più internazionale il corpo docente.

Di pari importanza è la necessità di sostenere la cultura scientifica e tecnica, spesso trascurata dai giovani nella scelta della facoltà universitaria. Essa è, infatti, parte fondamentale della sfida globale che si è aperta e che vede nuovi e vecchi competitori compiere passi da gigante nel rapporto tra sviluppo economico e, appunto, pensiero tecnico-scientifico.

Milano deve pertanto tornare a essere un luogo di interazione tra scienza e impresa. Come lo fu in anni non lontani quando, per esempio, gli studi sui polimeri di Giulio Natta, docente del Politecnico milanese e premio Nobel per la chimica nel 1963, portarono allo sviluppo del moplen, una materia plastica utilizzata nella fabbricazione di tantissimi oggetti di uso comune al posto di materiali meno plasmabili e resistenti.

 

Impresa e cultura

L’arte e la cultura sono oggi fondamentali per il nuovo sistema economico, ne sono l’elemento fertilizzante. In molti casi internazionali di rilancio produttivo, dalle città britanniche a quelle spagnole, la cultura ha svolto il ruolo fondamentale di pilastro del nuovo sviluppo, l’humus per felici contaminazioni tra un ambiente ricco e vitale e l’innovazione di prodotti e processi. E anche in Italia, piccole e grandi città – da Mantova, a Genova, a Torino – hanno messo a fuoco modelli produttivi fortemente incentrati sul ruolo catalizzante della cultura. A Milano invece, nonostante una storia costellata di tali positive contaminazioni tra arte e impresa (si pensi a una figura poliedrica di artista e designer come Joe Colombo, del quale si è celebrato l’ingegno con una mostra alla Triennale), gli investimenti in cultura languono e si fatica a percepirne il nesso con il nuovo sistema produttivo.

Il rapporto tra impresa e cultura è stato anche al centro del discorso di insediamento del neo presidente dell’Associazione lombarda degli industriali, Diana Bracco, la quale ha sottolineato le opportunità offerte dalla cultura e la necessità «che su questo importantissimo settore, volano straordinario di promozione, attrattività, creatività, opportunità di incontro e di relazione, convergano risorse sia da parte pubblica che da parte delle imprese».

Investire in cultura, dalla musica all’arte contemporanea in cui Milano ha avuto e ha tuttora una posizione di preminenza, è dunque una priorità delle politiche pubbliche, che devono sostenere in maniera adeguata associazioni, circoli ed enti. A cominciare da quelli tradizionali (teatri di prosa, musei, la Scala) per finire con quelli di avanguardia. L’intervento in campo culturale delle pubbliche istituzioni deve essere mirato non solo a rafforzare il tradizionale rapporto tra cultura e turismo, peraltro campo tra i più trascurati nella recente storia milanese, ma soprattutto con i residenti, affinché chi abita nella città abbia l’opportunità di dialogare, di scambiare esperienze e opinioni. La città può così diventare una sorta di incubatore di innovazione, con ricadute realmente positive sul mondo dell’impresa. Del resto Milano non è nuova al rapporto tra tecnica e arte, se si pensa a Leonardo da Vinci che a Milano venne invitato a lavorare presso la corte ducale: le sue opere sono diventate un perfetto esempio di fusione ben riuscita tra la fantasia dell’artista e le competenze tecniche dell’ingegnere.

 

Competitività e coesione sociale

Per uno sviluppo stabile e duraturo, è inoltre necessario che le politiche pubbliche siano in grado di coniugare competitività e coesione sociale, in linea con quanto auspicato a Lisbona nel 2000 e ribadito dall’autorevole convegno sul tema organizzato a Montreal dall’OCSE nell’ottobre scorso. Ciò è importante, perché quello della competitività è un tema che interessa non soltanto le aziende, ma tutto il territorio in cui sono inserite. Un territorio socialmente poco coeso è poco competitivo. La dimensione sociale, il benessere della collettività, la tutela dei diritti dei lavoratori, il sostegno alle fasce deboli della popolazione sono pertanto fattori imprescindibili dalla crescita economica.

A Milano si sta invece determinando una specie di ossimoro sociale: c’è più lavoro, ma anche più povertà. Abbiamo un sistema economico e un mercato dell’occupazione in cui le opportunità di lavoro non permettono a tanti cittadini di costruire un progetto di vita e, talvolta, neppure di avere un reddito sufficiente per arrivare a fine mese. Del resto, le statistiche dell’Osservatorio provinciale del mercato del lavoro parlano chiaro: un occupato su due, oggi, è un lavoratore autonomo e, tra quelli dipendenti, più di uno su due è un atipico. Il che vuol dire, spesso, un precario con scarsi diritti o, peggio ancora, un lavoratore in nero senza alcuna tutela.

E, fatto nuovo, è in aumento il numero dei poveri: 162.000, più del 12% della popolazione che risiede dentro i confini comunali, secondo un’indagine della facoltà di sociologia dell’Università degli studi di Milano Bicocca. Non si tratta di emarginati, di senza fissa dimora, ma di persone che in questi anni, complice appunto l’assenza di politiche sociali connesse con azioni a sostegno dello sviluppo da parte delle forze di centrodestra, sono scivolate da una decorosa esistenza alla povertà: non solo pensionati, ma anche piccoli artigiani, lavoratori non standard, il cui reddito è inferiore del 50% a quello medio del cittadino milanese.

 

La città metropolitana: un’occasione per vincere le sfide

Se una città ospita disuguaglianze e grandi contraddizioni sociali difficilmente può mantenere a lungo la propria capacità di competere. Le situazioni di conflitto, infatti, hanno gravi conseguenze sulla stabilità politica ed economica. Allo stesso modo, una città caratterizzata da una negativa organizzazione del territorio e da una mobilità caotica difficilmente può risultare attrattiva nei confronti delle aziende, delle organizzazioni e dei talenti.

La soluzione delle contraddizioni e dei problemi che investono Milano non può tuttavia essere limitata all’ambito municipale. Milano, infatti, è una regione urbana popolata da quasi 5 milioni di abitanti e da un numero impressionante di imprese e di lavoratori. Cuore pulsante di un’area interregionale che si estende a Ovest fino a Torino e a Sud fino a Genova, crocevia dei grandi assi di traffico, attuali e futuri, che collegano l’Europa settentrionale a quella meridionale. Una regione, per farla breve, che per dimensioni, infrastrutture viarie, ferroviarie, aeroportuali e per potenziale economico può competere alla pari con la California, la Catalogna, Shangai.

La scala di misura deve essere pertanto quella della governance metropolitana ed è per tale motivo che l’Amministrazione provinciale guidata da Filippo Penati ha lanciato la proposta di una legge speciale per sciogliere la Provincia e istituire la nuova città metropolitana, come previsto dalla riforma del Titolo V della Costituzione. La proposta è finalizzata a rafforzare la programmazione e il coordinamento delle politiche pubbliche dell’area milanese, mettendo in rete tutte le istituzioni e le parti sociali interessate, e confermando nel contempo il ruolo centrale dei comuni nella gestione delle funzioni amministrative dei territori di loro giurisdizione. La nuova istituzione non dovrà sovrapporsi né penalizzare i poteri lasciati ai singoli comuni, ma occuparsi di poche e definite competenze: traffico, sicurezza, ambiente, lavoro, sviluppo economico, trasporti e mobilità.

Solo questa profonda modifica istituzionale consentirà di adeguare la governance della regione metropolitana alla gestione e soluzione dei problemi posti dal rilancio produttivo di un’area vasta e complessa come quella milanese. E di connettere le politiche di welfare con quelle dello sviluppo economico, al fine di cogliere gli obiettivi di coesione sociale. Le esperienze di città similari a Milano – quali Barcellona, Monaco di Baviera, Lione – confermano che affrontare i problemi in termini di governance metropolitana ha portato consistenti benefici: oggi, infatti, queste città sono metropoli molto dinamiche e attrattive. Lo stesso può accadere a Milano, se si avrà il coraggio e la capacità di dar vita a un progetto di ampio respiro, che superi la ristretta visione municipalistica, facendo sì che la politica accetti la sfida di misurarsi con i cambiamenti dell’economia e della società.