La promozione della democrazia e il ruolo dell'Italia

Di Maurizio Massari Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Sul perché promuovere la democrazia, al di là delle ovvie motivazioni etiche e politiche («la democrazia è la peggior forma di governo, con l’eccezione di tutte le altre», diceva Churchill) il dibattito teorico si è incentrato soprattutto sulla natura pacifica delle democrazie e, più di recente, sul rapporto tra democrazia e terrorismo. Alla legge empirica «kantiana» secondo cui i governi democratici sono anche più pacifici (o più correttamente non tendono a farsi la guerra l’uno contro l’altro) si è aggiunta, dopo l’11 settembre 2001, l’argomentazione, promossa dall’attuale amministrazione americana, secondo cui la democrazia sarebbe il migliore antidoto contro il terrorismo. Ma è proprio quest’ultimo assunto quello che è oggi sotto processo, a causa degli sviluppi degli ultimi anni in Medio Oriente. È stato fatto notare da parte di molti analisti che al Qaeda non agisce per affermare gli ideali della democrazia nel mondo arabo, bensì per resuscitare l’idea del califfato islamico, che i terroristi islamici più che per la democrazia lottano soprattutto contro l’occupazione straniera, e infine che, senza la previa maturazione di un solido contesto istituzionale, la spinta verso la democrazia elettorale produce regimi illiberali (come sostiene Fareed Zakaria) o addirittura favorisce l’ascesa al potere di gruppi terroristici, come si è visto nel caso di Hamas.

 

Perché la democrazia

Sul perché promuovere la democrazia, al di là delle ovvie motivazioni etiche e politiche («la democrazia è la peggior forma di governo, con l’eccezione di tutte le altre», diceva Churchill) il dibattito teorico si è incentrato soprattutto sulla natura pacifica delle democrazie e, più di recente, sul rapporto tra democrazia e terrorismo. Alla legge empirica «kantiana» secondo cui i governi democratici sono anche più pacifici (o più correttamente non tendono a farsi la guerra l’uno contro l’altro) si è aggiunta, dopo l’11 settembre 2001, l’argomentazione, promossa dall’attuale amministrazione americana, secondo cui la democrazia sarebbe il migliore antidoto contro il terrorismo. Ma è proprio quest’ultimo assunto quello che è oggi sotto processo, a causa degli sviluppi degli ultimi anni in Medio Oriente. È stato fatto notare da parte di molti analisti che al Qaeda non agisce per affermare gli ideali della democrazia nel mondo arabo, bensì per resuscitare l’idea del califfato islamico, che i terroristi islamici più che per la democrazia lottano soprattutto contro l’occupazione straniera, e infine che, senza la previa maturazione di un solido contesto istituzionale, la spinta verso la democrazia elettorale produce regimi illiberali (come sostiene Fareed Zakaria) o addirittura favorisce l’ascesa al potere di gruppi terroristici, come si è visto nel caso di Hamas. Il rapporto tra democrazia e terrorismo è effettivamente assai complesso ed è forse corretto concludere, anche alla luce degli attentati terroristici in Europa, da Madrid a Londra, che la prima non necessariamente elimina il secondo. I paesi democratici non sono esenti dalla minaccia terroristica, anche perché il terrorismo attuale, come sostiene Oliver Roy, è globale e quindi non risparmia nessuno. Diverso è però il discorso quando parliamo del rapporto tra democrazia e sicurezza in senso più ampio. Qui non possono esservi troppi dubbi sul fatto che le «democrazie efficaci» (quelle dove al di la del processo elettorale, esistono istituzioni funzionanti e trasparenti, garanzie costituzionali, separazione di poteri, rispetto del diritto) sono, a differenza delle altre forme di governo, quelle meno suscettibili di produrre instabilità e insicurezza. Le democrazie non producono quelle violazioni dei diritti umani e delle minoranze che abbiamo visto essere state fonte di tensioni e conflitti ovunque, dai Balcani al Medio Oriente, all’Africa; non producono flussi di rifugiati; ostacolano la proliferazione di armi di distruzione di massa, e tendono, più di qualsiasi altro tipo di governo, ad applicare i loro parametri interni di trasparenza, rispetto della legge (o dei trattati) e prevedibilità anche alle relazioni internazionali. Insomma, se è vero che la diffusione della democrazia non elimina necessariamente il terrorismo, le cui cause sono più complesse, essa può tuttavia aumentare il coefficiente complessivo di sicurezza internazionale. 

 

Dove promuovere la democrazia?

Secondo Freedom House 89 paesi (il 46% del pianeta) sarebbero oggi pienamente liberi e democratici (free); 58 paesi (il 30%) sarebbero «parzialmente liberi», mentre 45 (il 24%) sono i regimi autoritari (not free). Il trend verso la democratizzazione è crescente. Trent’anni fa, nel 1975, si contavano soltanto 40 paesi liberi (il 25% del totale) e 65 paesi not free (il 41%). La disaggregazione geografica indica che, in proporzione, l’area meno democratica è il Medio Oriente/Nord Africa, dove 11 paesi su 18, pari al 61% della popolazione, sono not free, percentuale ben più alta anche rispetto all’Africa Sub-sahariana (dove su 48 paesi i not free sono 14, pari al 29% della popolazione). Nelle aree d’importanza geograficamente primaria per l’Italia, e in particolare nei Balcani, soltanto la Croazia e la Serbia e Montenegro sono considerati pienamente liberi, mentre la Bosnia, l’Albania e la Macedonia sono solo «parzialmente libere». Anche la Turchia è «parzialmente libera». Tra i territori il cui status resta indeterminato il Kosovo è considerato not free. Meritano attenzione anche i dati relativi alle repubbliche ex sovietiche geograficamente più prossime, se non altro per il fatto che le loro istituzioni deboli le rendono esportatrici di instabilità (soprattutto il traffico di esseri umani). Tra queste solo l’Ucraina è oggi considerata «libera», la Moldova è «parzialmente libera», mentre la Belorussia e l’enclave della Transnistria sono not free. Se la democrazia, come sembrerebbe logico, deve essere promossa nei paesi con maggior deficit democratico, questi dati rappresentano una bussola importante. Se ne deduce, infatti, che tra le aree maggiormente bisognose di democrazia ci sono anche quelle a noi geograficamente più prossime e dove i nostri interessi nazionali sono maggiormente coinvolti (Medio Oriente/Nord Africa e, parzialmente, i Balcani e la Turchia). Sono queste le aree sulle quali una politica italiana efficace di promozione della democrazia dovrebbe concentrarsi.

 

Quali metodi, quali strumenti?

Sul come esportare la democrazia il dibattito sulle «lezioni apprese» degli ultimi anni ha dimostrato l’inutilità dello strumento militare e l’illusorietà della democrazia intesa in senso unicamente elettorale. Assimilate queste lezioni «negative», il dibattito si sposta quindi sui metodi e gli strumenti «positivi» da utilizzare per promuovere un’agenda democratica credibile ed effficace.

Il metodo principale non può che essere quello del «multilateralismo efficace»; lo strumento chiave è invece l’institution building. È chiaro che nessun paese può, da solo, immaginare di avere successo in un’azione così complessa e costosa come quella di promuovere la democrazia. I tentativi occidentali di promuovere la democrazia nei paesi emergenti producono spesso reazioni opposte, sono in questi ultimi visti come un’imposizione, come atti di arroganza, con finalità più o meno velatamente egemoniche. Quanto più lo sforzo di promozione della democrazia è condotto attraverso istituzioni multilaterali e inclusive, con un coinvolgimento diretto degli attori locali (ownership) tanto più esso verrà percepito come legittimo e benevolo e maggiori saranno anche le probabilità di successo. Non è tra l’altro realistico immaginare che una sola istituzione multilaterale possa addossarsi tutte le responsabilità di promozione della democrazia. Occorre, come dice Francis Fukuyama, pensare in termini di «multi-multilateralismo», anche se occorre riconoscere che, in quanto ad efficacia, alcune istituzioni «sono più eguali di altre». Il problema attuale è che mentre in Europa, l’area a minor deficit democratico, abbiamo una sovrabbondanza di istituzioni multilaterali promotrici di democrazia (Unione europea, NATO, OSCE, Consiglio d’Europa), le aree dove c’é maggior bisogno di rafforzare la democrazia, come il Grande Medio Oriente e il Nord Africa, sono proprio quelle meno «istituzionalizzate», dove mancano cioè organizzazioni multilaterali regionali che possano assumersi responsabilità dirette in questo settore. La vera sfida di medio-lungo termine che l’Occidente ha davanti a sé, ancor più che cercare di esportare direttamente la democrazia in questo o quel paese, consiste piuttosto nel cercare di favorire la nascita di un multilateralismo regionale autoctono, che possa produrre e consolidare standard normativi e comportamentali che siano compatibili con i principi democratici universali delle Nazioni Unite. L’esperienza istituzionale europea (l’OSCE potrebbe essere un buon punto di partenza, in virtù della flessibilità delle sue strutture) potrebbe costituire una sorta di template a cui i paesi del Grande Medio Oriente potrebbero almeno ispirarsi, adattandolo ovviamente alle peculiarità del conteso regionale. È vero, come sosteneva tempo fa Samuel Huntington, che «l’Occidente è unico e non universale» e che i contesti culturali variano, ma è anche vero che alcuni principi di base sul rispetto dei diritti umani e democratici si sono gradualmente affermati – dalla Dichiarazione sui diritti dell’uomo del 1948 ad oggi – come «universali» e sono diventati, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, parte dell’acquis giuridico-normativo internazionale.

Lo strumento pratico di diffusione della democrazia è invece quello dell’institution building. Le democrazie sono governi «istituzionalmente forti» per quanto riguarda il rigoroso rispetto della legge (law enforcement), lo Stato di diritto (rule of law). I paesi non democratici sono invece nella maggior parte dei casi istituzionalmente deboli se non addirittura failed States, dove mancano leggi adeguate, oppure la loro applicazione è puntualmente disattesa, dove alta è la corruzione e scarse sono le garanzie per i cittadini, le minoranze e la società civile. Gli sforzi internazionali di promozione della democrazia devono mirare, più che al cambio del governo (regime change), a porre in essere, in maniera strutturale, le basi legislative e istituzionali per costruire, nel tempo, democrazie forti. Si tratta di sforzi generazionali, che richiedono tempo, e pazienza, monitoraggi costanti, mix di incentivi e punizioni e che non prevedono, una volta che ci si impegna, rapide exit strategies. Lasciando le cose a metà nei paesi in via di democratizzazione, magari dopo il successo di uno o due cicli elettorali, si rischia piuttosto di aumentare i pericoli di instabilità. Qualificati studi di scienza politica indicano che le democrazie incompiute o le «semi-democrazie» sono – ancor più dei regimi autoritari – esposte ai pericoli di instabilità e ritorno alla violenza, laddove le nuove élite democraticamente elette tendono e riescono, in mancanza di adeguati meccanismi istituzionali di checks and balances, a mobilitare le masse con programmi nazional-populisti e progetti bellicosi.

È del resto evidente che la democrazia per affermarsi ha bisogno anche di un contesto esterno favorevole. La mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese, i conflitti in Iraq e Afghanistan rappresentano ostacoli cruciali per la democratizzazione del Grande Medio Oriente. Occorrerà chiudere positivamente questi capitoli per rendere efficace l’agenda democratica in questa regione.

 

L’Italia e la promozione della democrazia

Può l’Italia impegnarsi per una politica di promozione della democrazia su scala globale, oppure dobbiamo circoscrivere le nostre ambizioni ad un ambito regionale? Azione regionale e globale non si escludono a vicenda e possono essere perseguite entrambe. Vanno tuttavia identificate le priorità e le nostre ambizioni calibrate sulla base degli strumenti e delle risorse disponibili.

È evidente che l’Italia ha maggiori possibilità di incidere sul piano regionale, concentrando risorse politiche, diplomatiche ed economiche in quei paesi vicini, dalla cui democratizzazione dipende più direttamente anche la nostra sicurezza. Per l’Italia è realistico puntare sull’Unione europea quale istituzione chiave per la democratizzazione dei Balcani e dell’Europa sud-orientale fino alla Turchia, attraverso il processo di allargamento. Dovrebbe essere questa la nostra priorità.

L’enlargement fatigue, qualora dovesse prevalere, comprometterebbe il processo di democratizzazione e stabilizzazione avviato nei paesi dell’ex Jugoslavia, con gravi danni per i nostri interessi nazionali. Ma dovremmo continuare a impegnarci attivamente, tramite l’Unione europea, anche per stabilizzare e democratizzare quei paesi per i quali non si prevede una futura adesione. Ciò riguarda soprattutto i paesi oggetto della Politica europea di vicinato (ENP), tra cui l’Ucraina, la Moldova, i paesi del Caucaso e quelli della sponda sud del Mediterraneo (Tunisia, Marocco, Giordania e così via), con i quali l’Unione europea dovrebbe share everything but institutions. Potremmo anche considerare di proporre la creazione di un Inviato speciale ad hoc dell’Alto rappresentante dell’UE Solana, una personalità di alto profilo per la promozione della democrazia (la figura attualmente esistente del rappresentante personale di Solana per i diritti umani non è riuscita a dare sufficiente visibilità al dossier della promozione della democrazia).

Sul piano globale l’Italia può puntare sui meccanismi istituzionali dell’ONU, tra cui il neo-riformato Comitato per i diritti umani, sul G8 e l’iniziativa BMENA, sulla «Comunità delle democrazie», il raggruppamento nato sei anni fa a Varsavia e che riunisce oltre cento paesi più o meno like-minded. La ratifica da parte di un maggior numero di paesi dei Patti sui diritti civili e politici e quelli economico e sociali, a quarant’anni dalla loro firma e trent’anni dalla loro entrata in vigore, dovrebbe essere più attivamente incoraggiata da parte della «Comunità delle democrazie» (ad oggi, soltanto 154 paesi sono vincolati dal Patto sui diritti civili e politici).

Sul piano nazionale, per rafforzare l’efficacia e il profilo del nostra agenda democratica, si potrebbe esplorare la possibilità di alcune nuove iniziative. Tra le ipotesi, ad esempio, la creazione di una fondazione sul modello della NED americana (National Endowment for Democracy) privata, non partisan, ma che si avvarrebbe di fondi pubblici per la promozione di iniziative in favore della democrazia o anche la realizzazione di un raccordo sistemico pubblico-privato con le ONG italiane per la messa a punto e la realizzazione di una «strategia nazionale» per l’incoraggiamento della democrazia nei paesi di maggior interesse e significato per l’Italia.

 

Democrazia e multiculturalismo nelle società europee

Un aspetto da non trascurare è anche quello del rapporto tra promozione della democrazia e sviluppo democratico delle società europee. Le nostre società diverranno sempre più eterogenee e multiculturali, con una percentuale sempre maggiore anche di musulmani. Le proiezioni demografiche per i prossimi decenni indicano che le popolazioni dei paesi dell’area del Nord Africa e del Medio Oriente aumenteranno vertiginosamente, a fronte di un sensibile calo demografico nei paesi della «vecchia Europa». Per la stessa Italia è previsto un calo dagli attuali 58 milioni a 50 milioni entro il 2050; altri paesi europei, come la Germania, subiranno analoghi cali demografici. È evidente che le esigenze economiche e le forze della globalizzazione porteranno le società europee a dover assorbire un numero sempre maggiore di immigrati, dalla cui piena e positiva integrazione dipenderà anche la credibilità della nostra agenda democratica e la nostra sicurezza interna. Per essere credibili nella nostra agenda di promozione della democrazia all’estero, dovremo innanzitutto essere credibili a casa nostra.

Le difficili esperienze degli ultimi anni in Iraq e Afghanistan e la vittoria di Hamas in Palestina hanno introdotto un «demo-pessimismo» che occorre superare. È giusto imparare dagli errori commessi e inserire le ambizioni di promozione della democrazia in un quadro di maggior realismo. L’«idealismo realistico» della Albright o il «wilsonianismo realistico» di Fukuyama rappresentano in quest’ottica un necessario aggiustamento di tiro. Ma le difficoltà attuali non devono far rinunciare l’Italia, l’Europa e la comunità transatlantica ad un’agenda democratica ambiziosa nei prossimi anni.1

 

 

Nota

1 Le opinioni dell’autore sono strettamente personali e non necessariamente riflettono quelle del ministero degli affari esteri.