Il rapporto tra pubblica amministrazione e identità nazionale in Italia e in Europa

Di Andrea Silvestri Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

In coincidenza con l'avvio della cosiddetta seconda Repubblica, è tornato in voga il dibattito sull’identità nazionale, che in Italia è vivo e lacerante da secoli ma che era stato anestetizzato nei lunghi anni del duopolio DC/PCI, entrambi partiti di ispirazione transnazionale. È peraltro sfuggita all’analisi della maggior parte degli osservatori la stretta interrelazione tra il concetto di identità nazionale e quello di Stato/pubblica amministrazione, percepiti dai più come nozioni distinte. In realtà i due fenomeni, pur godendo di una propria autonomia, convergono sia sul piano storico sia su quello pratico: va infatti considerato che non v’è forte identità e coesione nazionale senza una forte amministrazione pubblica (sia essa centralizzata o meno). Esemplare è il caso della Francia, in cui la nozione di Stato e quella di Repubblica – intesa come spazio democratico e luogo in cui i diritti dei cittadini vengono riconosciuti – sono sostanzialmente coincidenti, tant’è vero che il secondo termine assorbe e sostituisce frequentemente il primo.

In coincidenza con l'avvio della cosiddetta seconda Repubblica, è tornato in voga il dibattito sull’identità nazionale, che in Italia è vivo e lacerante da secoli ma che era stato anestetizzato nei lunghi anni del duopolio DC/PCI, entrambi partiti di ispirazione transnazionale.1

È peraltro sfuggita all’analisi della maggior parte degli osservatori la stretta interrelazione tra il concetto di identità nazionale e quello di Stato/pubblica amministrazione,2 percepiti dai più come nozioni distinte. In realtà i due fenomeni, pur godendo di una propria autonomia, convergono sia sul piano storico sia su quello pratico: va infatti considerato che non v’è forte identità e coesione nazionale senza una forte amministrazione pubblica (sia essa centralizzata o meno).3 Esemplare è il caso della Francia, in cui la nozione di Stato e quella di Repubblica – intesa come spazio democratico e luogo in cui i diritti dei cittadini vengono riconosciuti – sono sostanzialmente coincidenti, tant’è vero che il secondo termine assorbe e sostituisce frequentemente il primo.4 Ma, sia pur con le differenze del caso, anche Gran Bretagna e Germania beneficiano di un quadro di istituzioni amministrative forti e stimate, articolate su un piano di poteri diffusi e bilanciati nel caso inglese e su un sistema federale regionale nel caso tedesco.

Sul piano empirico, poi, è evidente la reciproca influenza tra i due fenomeni. È infatti anche nel rapporto quotidiano con lo Stato, e in particolare nell’interazione con gli uffici della PA, che il cittadino si forma un’idea più o meno positiva della nazione a cui appartiene.5

Nel caso italiano, invece, per motivi storici lo Stato (che a lungo si è identificato con regimi impopolari guidati da dinastie straniere) continua ad essere percepito come un ente esterno, da un lato fonte di tasse ingiuste e doveri, dall’altro inefficiente erogatore di servizi e prebende. La generale perdita del cosiddetto «senso dello Stato» nella seconda metà del secolo scorso ha portato ad un’ulteriore divaricazione dell’amministrazione rispetto al comune sentire. Il risultato attuale è che in Italia non è raro sentire sia la gente della strada, sia alcune alte personalità politiche scagliarsi contro lo Stato, perennemente considerato inadeguato rispetto alle aspettative dei cittadini.6

Questa percezione non è affatto generalizzata in Europa e negli altri paesi occidentali. Nella maggior parte dei nostri principali partner l’amministrazione gode infatti, complessivamente, di una discreta considerazione.7 Nel caso della Francia, ad esempio, pur soffrendo di eccessiva rigidità e autoritarismo,8 l’amministrazione gode di una buona fama e il cittadino, sentendosi da questa sufficientemente tutelato, riesce ad identificarsi con essa e a proiettare sentimenti positivi anche sulla stessa République. A Parigi, d’altra parte, la legge (della cui applicazione l’administration è supremo garante) è concepita come lo strumento che storicamente ha permesso il superamento democratico e liberale dell’arbitrio del sovrano e dei particolarismi locali, per cui patto repubblicano tra cittadini e uniformità della legge e della sua applicazione vengono a formare un tutto unico.9 Considerazioni tutto sommato analoghe possono essere svolte anche per il Regno Unito, dove l’amministrazione di Sua Maestà (e in particolare il suo apparato centrale, il civil service) contribuisce al prestigio della corona e concorre positivamente all’autostima britannica.

I fattori che sono all’origine della fragilità dello Statoamministrazione italiano (e della sua scarsa interazione con la dimensione nazionale) sono numerosi e ben noti.10 In primo luogo, un’unificazione amministrativa ritardata rispetto a quella degli altri principali paesi europei11 e, di fatto, anche rispetto alla stessa unità d’Italia. Quindi, l’assenza di una tradizione militare e coloniale di successo e la mancanza di una vera élite amministrativa, fenomeno che a partire dall’età giolittiana ha contribuito alla progressiva trasformazione della PA in luogo di compensazione dei conflitti sociali anziché «testa» del paese. Infine, un’organizzazione amministrativa centralizzata ispirata al modello francese ma, anche nella fase iniziale dell’unità nazionale, sostanzialmente molto più debole.

Altri tratti rilevanti sono stati, dopo l’iniziale main mise dei «piemontesi», la graduale «meridionalizzazione» del personale della pubblica amministrazione e la sua progressiva giuridicizzazione (ovvero la prevalenza dell’impronta civilista e la parallela espulsione dei saperi tecnici e del personale di formazione economico-statistica, per cui il reclutamento dei quadri e dei dirigenti privilegia i laureati in giurisprudenza e scienze politiche). Va inoltre considerata la debolezza della dirigenza amministrativa di fronte al parlamento e ai politici in senso lato,12 che presenta eccezioni solo in alcuni settori.13 È qui che il confronto con la Francia appare più stringente: l’ENA e le altre Grandes Ecoles, infatti, forniscono la quasi totalità della classe dirigente francese, alimentando tanto i vertici del mondo amministrativo (la cosiddetta haute fonction) quanto quelli della sfera politica ed economico-finanziaria.14

La scissione tra l’alta dirigenza della PA italiana e la classe politica, oltre a contribuire all’ipertrofia del corpus delle leggi amministrative (che vengono chieste al legislatore dalla stessa amministrazione per «difendersi» dalle pressioni esterne) di recente ha fatto emergere un fenomeno collaterale, accennato in precedenza, che, seppure comune ad altre democrazie mature, da noi assume contorni più preoccupanti: i responsabili politici ultimi di ogni livello amministrativo – siano essi ministri, presidenti di giunta regionale o sindaci – invece di difenderne e valorizzarne l’azione, si presentano a volte come ostaggio o addirittura come avversario della pubblica amministrazione, con cui sarebbero in lotta per meglio garantire i diritti dei cittadini.

In parte si tratta di un fenomeno contemporaneo e transnazionale, che discende dalla diffusione di un’ideologia anti-burocratica e stateless d’importazione anglosassone. Essa deriva infatti dalla confluenza tra le tradizioni politiche della critica allo Stato etico, moderno leviatano, da un lato, e dalla visione smithiana del libero mercato, rilanciata con vigore dalla scuola di Chicago e dai suoi epigoni nello scorso cinquantennio, dall’altro. Entrambe le dottrine convergono poi nell’idea di uno Stato «leggero», che non invada la sfera di autonomia dei cittadini e non ostacoli il libero manifestarsi degli animal spirits del capitalismo.

In Italia, tuttavia, tale fenomeno si è oltremodo acuito nella seconda Repubblica, con l’arrivo al potere di forze politiche espressione di categorie sociali emergenti e non legate al pubblico impiego, che viene anzi da esse percepito come una classe sociale a sé, privilegiata e inefficiente. Al fenomeno ha contribuito anche la riduzione delle sfere di intervento pubblico, dovuta alla difficile situazione della finanza pubblica (con la conseguente riduzione di varie forme di spesa sociale e il blocco delle assunzioni) e alle numerose privatizzazioni di imprese pubbliche che hanno anch’esse ridotto gli spazi di azione para-amministrativi. Un «dimagrimento» solo parziale, intervenuto dopo che negli anni Ottanta il numero di impiegati pubblici era cresciuto notevolmente, ma che ha imposto a numerose amministrazioni di «tirare la cinghia».

Giocano poi nel rapporto tra cittadino e PA anche alcuni tratti tipici del costume italiano, per cui lo Stato viene considerato un’entità esterna, da cui si può pretendere senza limiti. Sintomatica è in questo senso la frequenza dei ricorsi in tribunale contro decisioni dell’amministrazione che hanno respinto richieste infondate e che vengono invece basati sull’interpretazione estensiva o strumentale di norme la cui ratio era finalizzata a situazioni specifiche. Di fatto la nostra PA si trova sempre più spesso ad operare tra l’incudine della pubblica opinione15 e il martello del potere politico. Da un lato i cittadini manifestano nei suoi confronti sfiducia e mancanza di deference,16 che a loro volta agiscono da fattori moltiplicativi dei casi di contenzioso, dall’altro, si tenta di utilizzare la PA per soddisfare interessi particolari.17

Nemmeno è da sottovalutare il senso di «inadeguatezza» che pervade gli stessi dirigenti pubblici di fronte alle sempre maggiori richieste di intervento di cui sono destinatari.18 Paradossalmente esso ingenera la disponibilità da parte di ogni struttura amministrativa ad aumentare le proprie competenze. Sono così cresciute anche le duplicazioni dei ruoli tra le diverse articolazioni della PA.19 Tutto ciò, peraltro, rischia di tradursi in un’insoddisfazione ancora maggiore – in termini complessivi – da parte degli utenti. Utilizzando il linguaggio delle imprese, dirigenza e classe politica non riescono più a definire chiaramente la mission e il core-business dei dicasteri centrali20 e ciò porta ad una specie di crisi di identità degli stessi.

A rendere più fragile l’azione amministrativa ha inoltre contribuito, negli ultimi quindici anni, l’accentuarsi della frammentazione del potere amministrativo centrale, in senso sia verticale che orizzontale. Questo è, in parte, un processo comune a molti altri paesi dell’Europa occidentale, che si trovano sottoposti ad una duplice pressione. In senso verticale operano da un lato le pulsioni centripete generate dall’integrazione europea e dalla globalizzazione, intese sia come trasferimento di tradizionali competenze dello Stato a organismi internazionali come l’UE e l’OMC, sia come generale riorganizzazione economico-sociale conseguente all’apertura dei mercati; dall’altro le tendenze centrifughe consistenti nelle rivendicazioni avanzate dalle forze politiche che pretendono di rappresentare le cosiddette piccole patrie, le macro-regioni o altri agglomerati diversi dallo Stato-nazione, e che hanno spinto a ridisegnare in senso federale le strutture degli Stati, o comunque a rafforzare le competenze delle regioni.21 Nel caso italiano, dopo il varo delle regioni nel 1970, con l’elezione diretta dei governatori e la riscrittura del Titolo V della costituzione si è avviato una riforma in senso semi-federale dagli esiti molto controversi22 e i cui costi non sono affatto indifferenti.23 Nell’ambito di questo trend, negli ultimi anni le regioni hanno provveduto a creare a loro volta nuovi uffici, agenzie ed enti pubblici.

Occorre quindi ricordare che, in senso orizzontale, nel corso degli anni Novanta, in parallelo con le importanti privatizzazioni di enti pubblici e le liberalizzazioni dei mercati ad essi afferenti, in Italia sono fiorite anche le cosiddette authority,24 nonché numerose agenzie specializzate poste sotto la sorveglianza dei ministeri di settore25 e in via generale si è accentuata la tendenza ad esternalizzare alcuni servizi che in precedenza erano svolti direttamente. Si sono create così sempre più amministrazioni, e con personale non sempre adeguato,26 mentre le strutture centrali hanno subito ripetuti blocchi del turnover che hanno inciso negativamente sia sulla quantità che sulla qualità del personale.27 La nostra amministrazione si confronta però anche con un serio problema ordinamentale, dovendo applicare un corpus giuridico enorme e contraddittorio, con una contabilità pubblica la cui struttura di fondo risale agli anni Venti, e utilizzando per tutto questo un approccio giuridico e formale, più che gestionale e sostanziale.28

Ma la debolezza della PA ha avuto anche un’altra importante conseguenza: la sua tendenza ad amministrare sempre meno: ogni «sano» processo amministrativo, infatti, si basa in certa misura su decisioni. Negli ultimi decenni si è invece assistito ad un declino della stessa cultura della decisione, ad una crescente abdicazione della discrezionalità, a fronte della crescita del contenzioso – sottoforma di ricorsi al TAR e, di recente, anche al giudice civile – e del para-contenzioso. Un fenomeno stimolato da un sistema molto ampio di garanzie che, a differenza di quello anglosassone, non dissuade in alcun modo le liti temerarie, e di cui beneficiano, di fatto, soprattutto gli stessi impiegati della PA.

A frenare ulteriormente l’azione amministrativa ha concorso poi l’affermarsi di spazi sempre più vasti per la concertazione con le organizzazioni sindacali e la moltiplicazione dei livelli intermedi all’interno delle amministrazioni centrali;29 tutti fenomeni che, a loro volta, finiscono per accentuare i caratteri negativi della burocratizzazione, riducendo ancora di più gli spazi di decisione amministrativa.30

Non tutti i vincoli, peraltro, sono di natura esterna. In molti casi emergono anche dei deficit «culturali» interni all’amministrazione. Oltre all’italica scarsa attitudine al «lavoro di squadra» (che nell’antropologia nazionale fa da pendant all’individualismo), va considerata la storica mancanza di una scuola di formazione centrale per l’alta dirigenza (limite solo parzialmente sanato con l’istituzione della Scuola superiore di pubblica amministrazione). Sono inoltre ancora assai diffuse le culture del learning by doing – che implica refrattarietà alla formazione e all’innovazione – e del «lavoro in emergenza», per cui si lavora sovente con scadenze non programmate ma fissate all’ultimo minuto, operando – si perdoni la contraddizione in termini – in una situazione di «crisi perenne».31

In questo quadro, non mancano certo aspetti positivi.

Negli ultimi dieci anni è infatti continuato il procedimento di integrazione amministrativa europea32 e sono state varate alcune buone riforme, quali quella sul procedimento amministrativo e sulla trasparenza degli atti,33 quella sulla protezione dei dati personali34 e anche la legge Bassanini sulla semplificazione amministrativa,35 che è stata copiata dalla Francia. Sul lato degli strumenti si è avuto invece un ricorso sempre più ampio all’informatizzazione intesa in senso ampio.36 Per quanto riguarda il personale si è iniziato a spendere di più in formazione e sono stati promossi tentativi – invero timidi – di differenziazione salariale in funzione delle attività e dei risultati. Sempre sul lato della gestione delle risorse umane si è cercato di diffondere una cultura della customer satisfaction rispetto ai cittadini/utenti37 e sono stati introdotti nuovi istituti, quali gli strumenti di misurazione dei risultati. Più in generale si è tentato di promuovere la cultura degli obiettivi e del loro raggiungimento. A livello macro sono stati introdotti i Servizi di controllo interno, per verificare la rispondenza dell’operato dell’amministrazione rispetto alle linee tracciate dal ministro, mentre a livello micro sono stati formalizzati gli obiettivi per i dirigenti e i Centri di responsabilità. Entrambe le procedure, peraltro, rischiano di evolversi in forme burocratizzate,38 così come l’autonomia e la responsabilità del dirigente-manager rischiano di essere delle mere finzioni giuridiche in virtù del fatto che egli non ha il potere di scegliersi i propri collaboratori.

Insomma, nell’ultimo decennio si è senza dubbio compiuto uno sforzo importante di modernizzazione della PA, accompagnato anche da una discreta politica di comunicazione.39 Sono peraltro emerse significative differenze fra un’amministrazione e l’altra, e il processo di modernizzazione appare in ogni caso ancora incompleto e non organico. Non è mancato chi ha sottolineato come nell’ultimo decennio si siano avute molte «piccole riforme», ma nessuna «grande riforma» riuscita.40 Anche la cosiddetta «privatizzazione» della PA avviata negli anni Novanta41 ha avuto effetti parziali. Infatti, se sulla carta ci sono gli strumenti per applicare una managerialità moderna e «privatistica » all’azione amministrativa,42 è mancata tuttavia un’evoluzione culturale capace di superare in concreto i vecchi meccanismi che nella gestione del personale premiano l’anzianità di servizio e i benefici economici a pioggia a prescindere dell’effettivo merito dei singoli. Al di là dei vincoli ordinamentali, c’è insomma anche una difficoltà a fare (auto)riforme organizzative, legata ai sopradescritti vincoli culturali e anche alle pressioni a cui continua a essere sottoposta la dirigenza, che è stata emancipata dal potere politico solo sulla carta.43 A livello politico, inoltre, non si devono sottacere le remore ad attuare riforme profonde, tenuto conto anche delle resistenze sindacali rispetto a significative innovazioni dello status quo, nonché dell’importanza del bacino elettorale rappresentato dai funzionari pubblici.

Negli ultimi anni è stato pertanto possibile indirizzare sforzi notevoli sulla riforma costituzionale e del sistema politico, puntando sul rafforzamento dell’esecutivo e sul bipolarismo da un lato, e sull’organizzazione in senso federale dello Stato dall’altro. In questo quadro è stata invece dedicata un’attenzione molto minore alla necessità di ridisegnare – a parità di costi umani e finanziari – una PA centrale armonicamente integrata con quella regionale e comunitaria e con competenze chiare e non conflittuali, 44 con il rischio di rendere sempre più divergenti la riforma costituzionale e quella amministrativa.45 Eppure l’ammodernamento e la riforma della pubblica amministrazione costituiscono un’autentica priorità per la nostra nazione, per la sua efficienza interna e per la sua proiezione esterna.46 Al di là di ogni retorica, infatti, senza una valida e stimata amministrazione non potrà mai esistere un «sistema-paese» di successo.

 

Bibliografia

1 Occorre inoltre considerare l’impatto devastante sul senso di patria conseguente alla sconfitta subita nel secondo conflitto mondiale, nonché il fatto che il fascismo aveva pesantemente investito sull’enfatizzazione dell’ideale nazionale. Sul tema cfr. E. Galli della Loggia, La morte della Patria, Laterza, Roma-Bari 1996.

2 Sulla genesi e sulla natura dello Stato moderno vedi W. Reinhard, Storia del potere politico in Europa, il Mulino, Bologna 2001. Secondo lo studioso tedesco, la moderna concezione dello Stato nascerebbe dalla confluenza di tradizione monarchica militare germanica, fondamenti classici greco-romani veicolati dalla Chiesa e idea di sovranità messianica di origine giudaico-cristiana. Sullo stretto legame tra Stato ed Europa occidentale, vedi anche H. Schulze, Aquile e Leoni. Stato e nazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 7. Schulze evidenza come sul piano storico, nella maturazione delle nazioni moderne da parte delle élite, sia intercorso uno stretto rapporto di reciprocità tra sfera culturale e sfera statale.

3 P. Barile, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova 1987. Barile distingue tra Stato-apparato, inteso come complesso organizzativo che realizza il potere supremo, e Stato-comunità, inteso come complesso organizzativo di alcuni soggetti cui lo Stato riconosce un ruolo autonomo. In questa sede ci riferiamo alla PA nel senso di complesso delle organizzazioni amministrative pubbliche, intendendo con ciò sia le amministrazioni centrali che quelle «deconcentrate» (emanazioni periferiche di un potere centrale) o decentrate (entità autonome e non derivate). Ciò premesso, è evidente che il rapporto di maggiore o minore identificazione nazionale si svolge rispetto alle amministrazioni centrali e alle loro emanazioni sul territorio, piuttosto che rispetto a quelle deconcentrate e decentrate.

4 In Italia, invece, dopo il referendum del 2 giugno 1946 il termine «Repubblica» ha perso rapidamente la sua connotazione innovativa e «rivoluzionaria » ed è ormai impiegato raramente.

5 Cfr. S. Cassese, Lo Stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli, Roma 1998, pp. 16-17.

6 Sintomatica è stata l’affermazione dell’ex primo ministro italiano, che all’accusa di non avere il «senso dello Stato» ha replicato di avere quello «dei cittadini», come se i due concetti dovessero essere necessariamente antitetici.

7 Un recente studio apparso sul sito della World Bank dal titolo Perceived Corruption & Low Public Respect evidenzia come in molti paesi OCSE i cittadini abbiano spesso più fiducia nei funzionari pubblici – di cui è riconosciuta la terzietà e l’autonomia – che nei politici. Secondo un sondaggio effettuato negli Stati Uniti il 2 maggio 2005 dalla Partnership for Public Service, gli americani si fiderebbero molto più dei funzionari pubblici che non dei titolari di cariche elettive (rispettivamente in ragione del 62% e del 15%). Secondo lo studio della World Bank sopra citato, in Canada la qualità del settore pubblico è ritenuta uguale o superiore a quella del settore privato.

8 La stessa introduzione nella Francia del XVIII secolo del termine burocratie corrisponde all’emergere di lamentele contro il burocratismo. Cfr. M. S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2000.

9 Si capisce pertanto perché nel torrido dibattito che si è avuto tra il 2000 e il 2003 in relazione all’adozione di uno statuto speciale per la Corsica, i cosiddetti neo-giacobini e i «sovranisti» abbiano insistito tanto sul vulnus che sarebbe stato recato al patto repubblicano dal riconoscimento all’assemblea regionale corsa di una facoltà legislativa propria, sia pure limitata. Quest’area intellettuale si opponeva anche ai fenomeni di globalizzazione in corso su scala mondiale. Su quest’aspetto e più in generale sul cosiddetto «processo di Matignon» si veda L. Silveri, La Marianna lacerata. Il nuovo statuto della Corsica ed i rapporti tra Stato e Regioni in Francia, in «Affari Sociali Internazionali», 2/2002.

10 Per un’analisi complessiva cfr. Cassese, Lo Stato introvabile cit. e Cassese, La Costruzione del diritto amministrativo, in Cassere (a cura di), Trattato di Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2003, ma anche G. Melis, Storia dell’Amministrazione italiana, il Mulino, Bologna 1996 e La storia del diritto amministrativo, in Cassese (a cura di), Trattato di Diritto amministrativo cit.

11 È il caso ad esempio della Francia con Luigi XI (1461-1483), della Gran Bretagna con Enrico VII (1485-1509) e della Spagna con i re cattolici Isabella e Ferdinando (1474-1516), in cui l’unità territoriale ha corrisposto alla formazione di un apparato amministrativo. Germania e Italia raggiungeranno invece l’unità politica solo nel XIX secolo. Per un paradosso, tuttavia saranno proprio le culture italiana e tedesca a fornire i maggiori contributi all’elaborazione concettuale dello Stato, la prima con la fondazione della scienza della politica da parte di Machiavelli e la seconda con l’elaborazione hegeliana dello Stato etico.

12 Cassese spiega tale fenomeno come conseguenza della progressiva frattura tra l’élite amministrativa e la classe dirigente del paese, in particolare con la classe politica. Cfr. Cassese, Histoire et caractéristiques de l’Etat italien, in Cassese (a cura di), Portrait de l’Italie actuelle, La documentation française, Parigi 2001, p. 30.

13 È il caso ad esempio della Banca d’Italia, gelosa della sua autonomia, e della magistratura, che insiste sul suo carattere di «potere» secondo l’accezione di Montesquieu, mentre la nostra Costituzione si limita a definirla semplicemente un «ordine». Per un’analisi «esterna» del rapporto tra magistratura e potere politico in Italia, si veda «Laboratorie italien-Politique et societé», 2/2001.

14 Da questo punto di vista il raffronto con gli altri paesi europei evidenzia minori difformità. Inoltre, anche in Italia nella prima metà degli Novanta si sono avuti diversi governi «tecnici» con un’alta presenza di grands commis provenienti soprattutto dalla Banca d’Italia.

15 Nel 1996 ben il 60% dei cittadini esprimeva un parere negativo sulla PA. Su questo punto cfr. Cassese, Lo Stato introvabile cit., p. 16. Gli studi effettuati dall’Osservatorio sugli atteggiamenti verso la riforma della pubblica amministrazione in Italia (istituito presso il dipartimento per la funzione pubblica al fine di monitorare periodicamente le opinioni e le percezioni dei cittadini e delle imprese nei confronti della PA) evidenziano un certo miglioramento di tali dati, che è stato maggiore tra chi ha avuto un contatto recente con la PA, soprattutto dopo il rilancio delle autocertificazioni. Stenta ad affermarsi, invece, il ricorso ai nuovi strumenti tecnologici a cui la PA ricorre in misura sempre maggiore.

16 Cassese, Lo Stato introvabile cit., p. 61.

17 Secondo Cassese, nella seconda Repubblica la stabilizzazione degli esecutivi da un lato e la diminuzione di posti e funzioni in precedenza riservate a nomine politiche hanno al contrario aumentato la tentazione del potere politico di dare impiego non più attraverso il settore pubblico, ma direttamente all’interno della PA, e segnatamente nei suoi vertici. In tal senso va la riforma dello spoil system, la crescita degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e il diffuso ricorso alle consulenze esterne (Cassese, Modelli del centro?, relazione al convegno su «Il nuovo assetto organizzativo dei ministeri, tra sfide europee e sussidiarietà», Forum della pubblica amministrazione, Roma, 10 maggio 2004), ma pure l’aumento dei cosiddetti dirigenti esterni, che nel quinquennio 2001-2005 sono aumentati del 272,9% (D. Lisi e M. Rogari, Meno dirigenti ma boom di assunzioni dai privati, in «Il Sole 24 Ore», 7 aprile 2006). Cesare Salvi e Massimo Villone stimano che tra eletti ai vari livelli e loro consulenti, dirigenti, assunti nelle società miste e collaboratori esterni delle pubbliche amministrazioni centrali, le persone che compongono e gravitano attorno al potere politico rappresenterebbero un ceto che ha ormai raggiunto 800.000/1.000.000 unità. Cfr. C. Salvi, M. Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, Milano 2005.

18 Il problema della motivazione del personale pubblico – e in primis dei dirigenti – è emerso anche da un recente sondaggio del Formez. Cfr. G. Parente, Burocrazia degli sprechi, in «il Sole 24 ore», 5 dicembre 2005.

19 Negli ultimi anni, ad esempio, sono stati istituiti all’estero uffici delle regioni, che si sono sommati alla rete già esistente di ambasciate, consolati e istituti di cultura, uffici ICE, ENIT, Camere di commercio italo-locali, ecc. Su tutte svetta la Lombardia che ha già aperto 24 uffici all’estero (fra gli altri a Cuba, Shangai, Pechino), ma anche la Campania e la Sicilia, che hanno aperto sedi a New York, Parigi e Tunisi. Su questo punto cfr. M. Pirani, Politica e spese record un eccesso da fermare, in «La Repubblica», 12 dicembre 2005.

20 Un caso emblematico è la cosiddetta «tutela» dei connazionali all’estero, competenza posta dalla vigente normativa a carico del ministero degli esteri in termini assai generici, ma che nella vulgata mediatica attuale sembrerebbe implicare la capacità di assistere i nostri connazionali in qualsiasi circostanza, ventiquattro ore su ventiquattro e in qualsiasi luogo. Una siffatta protezione tous azimuts non viene peraltro offerta da nessun altro paese occidentale. Una prima riflessione critica in tal senso è stata avanzata ad inizio gennaio dal presidente della commissione esteri del senato Gustavo Selva, che ha provocatoriamente proposto di far pagare, ai turisti che si sono recati in località a rischio, finendo ostaggi di gruppi criminali, le spese sostenute dalla Stato per il loro rilascio. Cfr. A. Avaro, Polemiche sulle frasi dell’On. Selva e del Codacons «Paghino le spese allo Stato». Le assicurazioni: Vedremo, in «Il Gazzettino on line», 12 gennaio 2006.

21 Oltre al tentativo francese fallito sulla Corsica (ma in precedenza si può ricordare la legge Deffere del 1982 che ha istituito le regioni), si può ricordare l’evoluzione federale del Belgio, l’autonomia sempre maggiore raggiunta dalla Catalogna in Spagna, la devolution in Scozia e Galles, e, per quanto ci riguarda, la riforma del Titolo V della nostra costituzione attuato nel 2001 e la sua ulteriore accentuazione nel 2005 con la cosiddetta devolution. Sull’erosione di competenze e strumenti subita degli Stati-nazione vis-à-vis degli organismi internazionali e sovranazionali cfr. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari 2001.

22 Sulla natura della riforme apportate dalle leggi costituzionali 1/1999 e 3/2001 si veda, T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Giappichelli, Torino 2001.

23 Secondo stime ISAE se la devolution fosse stata già attuata nel 2004, la spesa decentrata aggiuntiva in capo alla pubblica amministrazione locale sarebbe ammontata a 70 miliardi di euro, pari al 5,2% del PIL. Cfr. R. Bocciarelli, Una devolution da 70 miliardi, in «Il Sole 24 ore», 24 marzo 2006.

24 Si tratta di autorità indipendenti (quali l’autorità per l’energia e il gas, l’autorità per la tutela della concorrenza e del mercato, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ecc.) ispirate a modelli anglosassoni e provviste di ampi poteri. Dopo una fase di grande espansione, le loro attribuzioni sembrano adesso in via di ridimensionamento.

25 È il caso dell’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), dell’agenzia per le entrate, dell’agenzia per il lavoro, ecc.

26 Al di là delle considerazioni sul livello qualitativo, il personale delle regioni soffre anche di alcuni squilibri quantitativi. Ad esempio, presso la regione Sicilia prestano servizio circa 5.000 dirigenti a fronte di 6.000 dirigenti per tutta la PA centrale.

27 I risultati di tali blocchi non sono stati eccezionali, ma neanche trascurabili. Alla fine del 2005 i dipendenti della pubblica amministrazione erano poco meno di 3.350.000, mentre nel 1995 erano 3.411.145 (nel 1999 invece si era raggiunto un minimo di 3.232.974). Cfr. Il blocco del turnover non fa ancora miracoli, in «Il Sole 24 ore», 24 marzo 2006. Tali limitazioni sono state parzialmente compensate con il maggiore ricorso a forme di lavoro flessibile nonché all’outsourcing di alcuni compiti amministrativi e para-amministrativi.

28 Emblematico è il caso dei magistrati della Corte dei conti – che per certi versi potrebbe essere equiparata ad una società di auditing – che tuttora vengono reclutati essenzialmente nell’ambito dei laureati in giurisprudenza anziché di quelli in economia.

29 Cassese stigmatizza in tal senso il gigantismo degli uffici di diretta collaborazione e l’effetto di allungamento della catena decisionale che essi provocano. Cfr. Cassese, Modelli del centro? cit.

30 Avviene così che nell’ambito delle prove orali di esame per concorsi pubblici si ricorra a liste di domande da estrarre a sorte dal singolo candidato, senza possibilità per i commissari di formulare domande aggiuntive o di chiarimento in quanto ciò potrebbe essere evocato in sede di contenzioso.

31 Tali approcci non mancano peraltro di avere alcune ricadute positive: infatti contribuiscono a favorire nei funzionari una maggiore flessibilità (nonché una maggiore attitudine a risolvere i casi concreti) rispetto a personale di amministrazioni più strutturate quali quella francese.

32 Attualmente circa il 92% della normativa italiana è di origine comunitaria.

33 Legge 241/909 e d.lgs. 29/1993.

34 Legge 675/1996 e successive modifiche, da ultimo confluite nel d.lgs. 196/2003.

35 Legge 127/1997, poi confluita nel d.p.r. 456/2000.

36 Essa va intesa sia come dotazione informatica delle pubbliche amministrazioni (e, in misura sempre maggiore, come interconnessione fra di loro), sia come informatizzazione dei loro procedimenti, anche rispetto agli utenti. L’incarico di guidare tali processi è stato affidato al Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA).

37 Per facilitare l’accesso di questi ultimi ai servizi sono stati anche creati «sportelli unici» e uffici per i rapporti con il pubblico.

38 Per alcuni ciò dipenderebbe dalla natura intrinseca dell’azione amministrativa, difficilmente misurabile in termini quantitativi. Altri puntano invece l’indice sulle «resistenze culturali» della dirigenza ad applicare i sistemi di misurazione dei risultati (così anche la citata indagine del Formez apparsa su «Il Sole 24 Ore», 5 dicembre 2005).

39 In tal senso va il ricorso a campagne di informazione e il tentativo di utilizzare eventi, quali il Forum della PA, per richiamare l’attenzione del pubblico sulle innovazioni in corso.

40 Cassese, nel criticare la mancanza di una strategia complessiva di riforma, sostiene che in questi anni il dipartimento per la funzione pubblica abbia di fatto cessato di funzionare come centrale di pianificazione. G. De Rita e L. Diotallevi in Sogni e incubi della burocrazia, apparso su «Il Sole 24 ore» del 16 febbraio 2006, evidenziano che dopo tante riforme i procedimenti strumentali, relativi al funzionamento e al personale, hanno continuato ad aumentare rispetto a quelli finali connessi al raggiungimento dei fini dell’amministrazione.

41 Con questa espressione si intende un complesso di interventi normativi realizzati a partire dagli anni Novanta, che hanno coinvolto gli enti pubblici (privatizzazione), le attività (liberalizzazione), i beni (oggetto di dismissioni e cartolarizzazioni) e le discipline (tra cui la cosiddetta «contrattualizzazione» del pubblico impiego, a cui ci riferiamo essenzialmente in quest’articolo). Sul fenomeno cfr. R. Tamosi, Il nuovo diritto privato della PA, UTET, Torino 2004.

42 La riconduzione del pubblico impiego alla disciplina del diritto privato, avviata con la legge delega 421/1992 è stata attuata con il d.lgs. 29/1993, il d.lgs. 396/1997, il d.lgs. 80/1998 (il cui art. 17 ha riportato al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie di lavoro, superando così definitivamente le leggi speciali sul pubblico impiego) e da ultimo il d.lgs. 165/2000. Per una visione critica di tale impianto, giudicato frutto di un approccio dottrinario, vedi R. Remotti, La riforma della pubblica amministrazione: alcune riflessioni da un punto di vista giuridico, articolo apparso nell’aprile 2003 sul sito Diritto e Diritti, www.diritto.it .

43 Se la il d.lgs. 29/1993 ha precisato la sfera della gestione amministrativa, escludendola dalla responsabilità dei vertici politici a cui competono invece le funzioni di indirizzo e controllo, le cosiddette riforme sullo spoil system varate dai ministri Bassanini e Frattini (rispettivamente il d.lgs. 80/1998 e la legge 145/2002), introducendo il contratto a tempo (di durata mano a mano inferiore) per i dirigenti generali, rischiano di indebolirne de facto l’autonomia. Cfr. Cassese, Come funziona lo «spoils system» all’italiana, in «Giornale di diritto amministrativo dell’IPSOA», 12/2002.

44 Sul tentativo di riorganizzazione del «Centro» rappresentato dal d.lgs. 300/98 (che aveva ridotto il numero dei ministeri) si è fatto marcia indietro nella XIV legislatura. Sulla necessità di ridisegnare l’architettura della PA in senso poliarchico, si veda anche l’articolo già citato di De Rita e Diotallevi.

45 Cfr. G. De Rita, L’architettura dello Stato esclusa dall’agenda politica, in «Il Sole 24 Ore», 3 marzo 2006, e Cassese, Modelli del centro? cit.

46 Il tema dell’ammodernamento della pubblica amministrazione è molto sentito anche in altri paesi europei, che però partono da servizi pubblici generalmente considerati più efficienti e più stimati. In Gran Bretagna è in corso un’azione che punta a definire le priorità di riforma del civil service mentre in Francia sono stati costituiti nel 2003 tre servizi interministeriali incaricati della reforme de l’Etat legislatura non è stata confermata in quella successiva.