L'Italia e il rilancio delle relazioni transatlantiche

Europa e Stati Uniti sono certo più vicini di tre anni fa. Da entrambe le parti ci si sforza di cooperare – pure sulle questioni mediorientali che più ci hanno diviso – e ricucire una trama, un abito di collaborazione che faccia riacquisire a tutti i potenziali vantaggi dell’agire multilaterale. Il caso Iran è quello al momento più importante ed emblematico, ma non è certo l’unico. Sia pur lentamente, ci andiamo allontanando da quello scontro transatlantico che, nato intorno al progetto d’invasione dell’Iraq, si era rapidamente rigonfiato ad aspro confronto di valori e principi, con una contrapposizione che non riguardava solo i governi ma le culture pubbliche e le coscienze collettive.

Le nuove priorità della politica estera di USA e UE

Lo scorso autunno qualcuno, a sinistra, temeva che un’eventuale e desiderata presidenza di John Kerry ci potesse mettere di fronte al dilemma di una politica estera non poi troppo diversa da quella di Bush. Ora abbiamo invece dovuto paradossalmente constatare che la seconda presidenza Bush si è marcatamente spostata non tanto verso un’inesistente agenda di Kerry, ma certo verso il suo stile e i suoi accenti. Nei discorsi del presidente e del Segretario di Stato Condoleeza Rice la democratizzazione del Medio Oriente non è più un processo da mettere in moto con atti di forza, ma una tendenza da assecondare sostenendone i promotori interni; e la Road map per il negoziato israelo-palestinese torna a ricevere un’attenzione non puramente verbale. Sul piano dottrinario gli accenti si sono spostati verso una visione wilsoniana che incentra la costruzione di un contesto internazionale pacifico e sicuro sulla diffusione della libertà, mentre nella retorica pubblica il richiamo all’urgenza della forza ha lasciato il campo all’utilità della cooperazione e del consenso.

Un mandato per la continuità... con ostacoli crescenti

I risultati elettorali del 2 novembre proiettano la Casa Bianca verso una sostanziale continuità della politica estera nel secondo mandato. Vi potranno essere taluni mutamenti di stile, ma non c’è motivo di attendersi un ripensamento di fondo o un cambio di direzione. L’assertività unilaterale degli Stati Uniti rimarrà la bussola principale, e la sostituzione di Colin Powell con Condoleeza Rice alla guida del Dipartimento di Stato rende l’Amministrazione ancor più omogenea su tale impostazione. Il vero interrogativo riguarda gli spazi di manovra e le risorse disponibili per una simile strategia, visto che sembrano entrambi progressivamente più rastremati.

 

Bush vs Kerry

La campagna elettorale negli Stati Uniti è ormai avviata, e nei prossimi sei mesi coinvolgerà sempre più non solo i cittadini americani ma, in diversa misura, tutti noi. Sull’importanza del suo esito non c’è bisogno di soffermarsi, visto che proprio gli ultimi quattro anni hanno mostrato quale drammatica differenza possa correre tra un presidente e l’altro. Né ha senso fare pronostici, che in questa fase sarebbero non solo aleatori, ma frutto di pura fantasia. Una delle poche cose chiare fin da ora, infatti, è che siamo di fronte a una competizione incerta e aperta all’influsso di molte variabili imprevedibili. I sondaggi fotografano una sostanziale parità tra George W. Bush e il senatore John F. Kerry, ma hanno valore davvero effimero.

 

Non solo unilateralismo. La nuova strategia di sicurezza e il senso della potenza americana

Guerra preventiva? No, grazie: essa accrescerebbe enormemente i pericoli di destabilizzazione, distrarrebbe dalla lotta al terrorismo e darebbe vita a un neoimperialismo fondato sull’uso unilaterale della forza. Sono queste le tre critiche fondamentali mosse alla «dottrina Bush» dopo la pubblicazione – il 17 settembre 2002 – del documento che la incapsula: la National Security Strategy of the United States of America (NSS). Benché contengano fondate preoccupazioni ed evidenti elementi di verità, queste critiche rischiano di non cogliere la portata della NSS perché si focalizzano su un solo aspetto della dottrina, e neppure il più importante.

 

La guerra come metafora: la costruzione di una strategia internazionale per gli Stati Uniti

In questa guerra «di tipo nuovo» materializzatasi l’11 settembre 2001 il primo problema riguarda la sua definizione. Con gradi assai diversi di calma lucidità o di smaniosa ignoranza (quest’ultima particolarmente evidente in molti media italiani, in primo luogo quelli televisivi), intorno alla parola guerra si è cercato di individuare i possibili contorni del futuro prossimo e, al tempo stesso, di esorcizzare gli scenari più apocalittici. Il nodo è quello dello «scontro di civiltà» che (quasi) tutti vorrebbero scongiurare ma che tutti temiamo possa mettersi incontrollabilmente in moto. Perché non è facile frenare e depotenziare le pulsioni xenofobiche che in vario modo attraversano le società occidentali, e perché vi sono segmenti del radicalismo integralista islamico che tale scontro di civiltà lo predicano e lo attuano. In fondo è quest’ultima la verità più scomoda a cui gli attentati dell’11 settembre ci hanno messo inesorabilmente di fronte.