Introduzione

Di Roberto Cerreto Venerdì 16 Gennaio 2009 16:54 Stampa
Questo Quaderno, ancor prima che una raccolta di saggi individuali, rappresenta il frutto di quattro mesi di attività del gruppo di lavoro sul federalismo promosso dalla Fondazione Italianieuropei. Il gruppo ha il compito di svolgere ricerche e approfondimenti su natura, funzionamento e limiti del federalismo italiano, senza preconcetti o tesi precostituite, anche lasciando emergere – come avviene nei saggi qui presentati – posizioni diverse e non sempre conciliabili. E ciò anche sui temi di maggiore rilevanza politica, come l’attuazione del federalismo fiscale.

Questo Quaderno, ancor prima che una raccolta di saggi individuali, rappresenta il frutto di quattro mesi di attività del gruppo di lavoro sul federalismo promosso dalla Fondazione Italianieuropei. Il gruppo ha il compito di svolgere ricerche e approfondimenti su natura, funzionamento e limiti del federalismo italiano, senza preconcetti o tesi precostituite, anche lasciando emergere – come avviene nei saggi qui presentati – posizioni diverse e non sempre conciliabili. E ciò anche sui temi di maggiore rilevanza politica, come l’attuazione del federalismo fiscale. Per questo, il gruppo di lavoro è stato costituito seguendo come principale criterio le competenze dei singoli esperti, volutamente prescindendo da ogni requisito di omogeneità culturale. Il secondo criterio è stato l’interdisciplinarità. E qui ci si avvicina al merito della questione: il federalismo – al pari e forse più di altri fenomeni istituzionali – non può essere ridotto alla dimensione giuridica. È noto infatti che il federalismo nasce, in tempi piuttosto recenti, per rispondere a fratture di ordine economico, sociale, politico, culturale, religioso, etnico, presenti sul territorio di uno Stato. Nonostante questo, del federalismo italiano (e talvolta anche del federalismo fiscale!) spesso si parla tra giuristi soltanto, senza interrogarsi sulle basi, vere o presunte, del federalismo nella società italiana. La composizione interdisciplinare del gruppo di lavoro intendeva colmare questa lacuna. Ma naturalmente non è sufficiente riunire studiosi di discipline diverse per ottenere un approccio interdisciplinare. Si è cercato perciò di indurre ciascun esperto a “uscire” dal suo ambito specialistico, attraverso una serie di riunioni volte a inquadrare i nodi essenziali del federalismo italiano inteso come fenomeno politico complesso. Solo dopo si è proceduto alla suddivisione su base “quasi volontaria” dei temi da approfondire, continuando però a usare gli stessi contributi, nelle varie fasi della loro elaborazione (schemi, bozze ecc.), come base per ulteriori confronti tra gli autori. Sin dalla prima riunione del gruppo di lavoro, è emersa con forza l’esigenza di inserire la pur necessaria riflessione sul federalismo fiscale nel quadro più ampio di un esame del processo di decentramento che dura da quindici anni e che ha conosciuto un punto di svolta con la riforma costituzionale del 2001. Per far questo, il gruppo si è dotato di un elenco di questioni, che vale la pena di riassumere qui, perché costituiscono la guida migliore per orientarsi tra i saggi che seguono. Una prima serie di questioni – intorno a cui ruotano i contributi raccolti nella prima parte, Il federalismo e l’Italia – concerne i fondamenti e i caratteri del
federalismo italiano. Ci si chiede, cioè, se le linee di frattura che attraversano la società italiana rendano davvero necessario – al di là delle contingenze politiche che ne hanno promosso l’avvento, come lo stimolo esercitato dalla Lega Nord – un assetto di tipo federale. Se questo assetto trovi ragioni ulteriori nelle dinamiche sovranazionali di portata globale ed europea. E se la strisciante “presidenzializzazione” della politica, riscontrabile ai vari livelli della governance e in vari paesi, non possa trovare proprio nel decentramento dei poteri su base territoriale (oltre che uno dei suoi effetti) un suo bilanciamento. Questo quanto ai fondamenti. Quanto ai caratteri, bisogna chiedersi se e in che misura, a sette anni dalla riforma costituzionale e alla luce della giurisprudenza da allora formatasi, quello italiano possa essere considerato uno Stato federale. Interrogativo che, a sua volta, obbliga a fare chiarezza sui caratteri distintivi dei modelli federali, anche sulla scorta dell’esame comparatistico. Questa riflessione sul federalismo e l’Italia, tuttavia, sarebbe incompleta se non si estendesse dai modelli istituzionali ai soggetti politici. I partiti politici nazionali rappresentano un fondamentale fattore di coesione in molto Stati federali, mentre i partiti regionali sono un fenomeno di crescente interesse che, negli ultimi anni, sembra prendere piede anche in Italia, non solo al Nord. Relativamente poco studiate erano, tuttavia, le interazioni tra le caratteristiche dei modelli federali e la configurazione dei sistemi partitici: può sorprendere, ad esempio, il fatto che una struttura costituzionale federale capace di mediare interessi regionali e nazionali – attraverso una seconda Camera che permetta alle autonomie di partecipare alle decisioni del centro o attraverso efficaci conferenze interistituzionali – rappresenti, in genere, un freno allo sviluppo asimmetrico del sistema dei partiti. La seconda parte del Quaderno è, dichiaratamente, la più eterogenea, poiché verte sulle non poche, e disparate, questioni aperte nell’evoluzione della forma di Stato italiana verso un modello federale. Anche in questo caso, tuttavia, può essere utile fornire una “griglia” molto sintetica delle principali questioni intorno alle quali si sono sviluppate le riflessioni del gruppo di lavoro, precisando che molte di esse intersecano più contributi. Un primo nodo riguarda il problematico rendimento della forma di governo regionale e dei sistemi elettorali che concorrono a definirla, nonché l’esigenza, da molti avvertita, di un riequilibrio a favore delle assemblee legislative. Riequilibrio che, peraltro, non potrà far perno soltanto, né forse principalmente, sulla funzione normativa tradizionalmente intesa. Abbastanza evidente è poi il nesso tra questo insieme di problemi e i fenomeni di “presidenzializzazione” della politica esaminati, nella prima parte, in relazione alle ragioni di fondo del processo di federalizzazione. Una seconda questione concerne la partecipazione delle autonomie territoriali alla definizione e alla modifica dell’assetto costituzionale, almeno per quanto attiene alla distribuzione dei poteri su base territoriale, elemento che, di norma, contraddistingue i sistemi federali. Accanto all’utile ricognizione comparatistica, gli spunti di maggior interesse riguardano le prime aperture in tal senso registratesi in un ordinamento, quello italiano, che non prevede tale
partecipazione, se non nella debolissima forma dell’iniziativa (anche per l’assenza di una Camera territoriale). È il caso, ad esempio, del regionalismo differenziato, un meccanismo evolutivo i cui limiti e le cui potenzialità non si sono ancora espressi, ma che certo attribuisce alle Regioni interessate un ruolo significativo nel procedimento di modifica del riparto ordinario delle competenze legislative definito dall’articolo 117 della Costituzione (seppur con l’esito paradossale, qui giustamente evidenziato, che lo Stato potrebbe poi, unilateralmente, modificare i presupposti costituzionali del regionalismo differenziato, travolgendo la differenziazione concordata tra lo Stato e le singole Regioni). Un terzo punto di riflessione – che costituisce, per così dire, una sorta di generalizzazione del precedente – riguarda la costruzione di strumenti e sedi di raccordo tra i diversi livelli di governo. Vengono qui in rilievo questioni di portata molto diversa – dalla mancata attuazione dell’articolo 11 della legge costituzionale 3/01, in materia di integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie territoriali, alla riforma ed eventuale costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze, fino all’istituzione del Senato federale – che ruotano però intorno al medesimo problema: come favorire la creazione di sedi di composizione unitaria del pluralismo istituzionale su base territoriale e, dunque, la partecipazione delle autonomie territoriali alla definizione delle politiche nazionali, con la comune assunzione di responsabilità che da questa partecipazione discenderebbe. Altre questioni aperte – come l’opportunità di rivedere il riparto di competenze legislative di cui all’articolo 117, il disegno di riassetto complessivo della pubblica amministrazione all’insegna della sussidiarietà insito nell’articolo 118, i poteri sostitutivi dello Stato per tutelare l’unità giuridica ed economica e i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, le reciproche implicazioni tra federalismo interno e integrazione europea, il bilancio politico dei rapporti Stato-Regioni-autonomie locali nei primi sette anni di attuazione del nuovo Titolo V – sono oggetto di singoli contributi, cui sarà pertanto sufficiente qui fare rinvio. La terza parte, dedicata all’attuazione del federalismo fiscale, è più “compatta”, nel senso che fa perno sul disegno di legge governativo (l’unico progetto di legge in materia, del resto, all’esame del Parlamento alla data di stesura di questi saggi). Compatta, ma comunque ampia, sia per l’evidente attualità politica dell’argomento, sia perché la definizione del grado di autonomia finanziaria dei vari livelli di governo è, per sua natura, un punto d’osservazione privilegiato per mettere in luce i nodi problematici di una determinata distribuzione dei poteri e delle funzioni. Il set di questioni elaborato dal gruppo di lavoro, perciò, spazia in questo caso dal metodo (i raccordi tra governo e autonomie territoriali nella fase di elaborazione del testo e in quella di attuazione delle deleghe), al merito (i principi innovativi del disegno di legge, i suoi nessi con le riforme istituzionali e con l’assetto del sistema politico, i profili di costituzionalità e le garanzie in ordine al rispetto dei vincoli comunitari), fino a un’analisi, in termini economici, dell’idoneità del nuovo sistema di tributi a far coincidere realmente autonomia
di spesa e di entrata e ad assicurare, attraverso meccanismi perequativi, il godimento dei diritti essenziali su tutto il territorio nazionale. Si aggiungono alcune questioni solo apparentemente più specialistiche, come il ruolo delle autonomie speciali e il coordinamento della finanza pubblica nella prospettiva del federalismo fiscale, gli interventi speciali dello Stato a favore di determinate aree del paese o, ancora, il federalismo del personale, che, in realtà, attengono a snodi essenziali di ogni processo di decentramento: il grado di unitarietà dell’ordinamento, la tutela della coesione sociale, il rischio di duplicare le strutture e moltiplicare i costi. Naturalmente, non tutte le questioni individuate dal gruppo di lavoro e qui riepilogate sono state – né, forse, potevano essere – approfondite nella stessa misura. Non lo consentivano né il tempo né lo spazio a disposizione. Soprattutto, non lo consentiva la natura aperta e incompiuta del processo di decentramento. La cui evoluzione, infatti, il gruppo intende continuare a seguire, nei prossimi mesi, non rappresentando questo Quaderno, a ben vedere, se non una prima ricognizione, seppur ampia, dello “stato dell’arte”. Tale ricognizione consente tuttavia di provare a individuare, adesso, i profili evolutivi del federalismo italiano su cui può essere utile che il gruppo continui a esercitare un monitoraggio. Sarà interessante, innanzitutto, seguire l’iter parlamentare del disegno di legge sul federalismo fiscale, verificando se e in che misura il Parlamento riuscirà a incidere su un provvedimento che è frutto di un’ampia ed efficace negoziazione tra il governo e le autonomie territoriali. Più ancora che l’ampiezza delle modifiche, conterà la misura in cui il Parlamento, attraverso tali modifiche, vorrà e saprà costruire strumenti e procedure per giocare un ruolo attivo, non di mero spettatore, nella fase di attuazione delle deleghe recate dal disegno di legge. In ogni caso, è forte la sensazione che il risultato con cui si chiuderà questa partita sia destinato a pesare sugli equilibri “a regime” del federalismo fiscale, per esempio condizionando la possibilità che il Parlamento e le assemblee regionali divengano effettivamente i soggetti istituzionali preposti alla verifica e alla convalida dei dati che, forniti dai diversi apparati tecnici, confluiranno nelle banche dati in materia di finanza pubblica (come opportunamente ipotizzato nella Nota di sintesi del Rapporto 2008 sullo stato della legislazione curato dalla Camera dei deputati). Del resto, la disponibilità di banche dati oggettive e condivise è presupposto indispensabile per un efficace coordinamento della finanza pubblica e per garantire il rispetto dei vincoli europei da parte di tutti i livelli di governo. Quanto ai contenuti del disegno di legge, sarà importante analizzare, soprattutto nella fase attuativa delle deleghe legislative, alcuni profili di funzionamento del federalismo fiscale che uniscono, a un’elevata complessità tecnica, un impatto rilevante e diretto sul livello dello sviluppo socioeconomico e delle prestazioni sociali. È il caso dei meccanismi applicativi di alcuni principi che, in quanto tali, sono oggetto di condivisione pressoché unanime, come il passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard per il finanziamento delle prestazioni. È altresì il caso degli istituti volti a far valere la responsabilità degli amministratori locali, trattandosi al riguardo di verificare,
anzitutto, se le nuove norme realizzeranno una vera corrispondenza tra autonomia di spesa e di entrata, presupposto essenziale di ogni efficace clausola sanzionatoria. Ed è il caso, naturalmente, dei meccanismi di perequazione, degli interventi speciali dello Stato, nonché della cosiddetta fiscalità di vantaggio (non solo per i Comuni confinanti con le autonomie speciali), la cui reale praticabilità e compatibilità con la giurisprudenza europea in materia di aiuti di Stato potrà essere verificata solo alla prova dei fatti. Allargando lo sguardo, bisognerà valutare se e in che modo sarà affrontato il problema di un “completamento” del processo di decentramento, mediante la costruzione di sedi e strumenti più adeguati di raccordo e collaborazione tra i diversi livelli di governo, lungo un’ideale scala graduata che va dall’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali e dalla riforma delle Conferenze fino all’istituzione del Senato federale. Se da un lato, infatti, non si può negare che la giurisprudenza costituzionale, in nome del principio di leale collaborazione, abbia rafforzato gli aspetti cooperativi del federalismo italiano, sviluppando le (invero piuttosto timide) indicazioni in tal senso contenute nelle legge costituzionale 3/01, è pur vero che la cooperazione si risolve quasi totalmente nella negoziazione tra gli esecutivi, senza le garanzie di trasparenza e di controllo proprie del confronto parlamentare. Strettamente legato all’evoluzione del sistema istituzionale è il problema dell’adattamento del sistema politico al mutevole assetto dei rapporti tra centro e periferia. Negli ultimi mesi questo tema è emerso con maggior evidenza all’interno di una forza politica, ma è ragionevole supporre che tutti i principali partiti nazionali, specie quando sarà attuato il federalismo fiscale, dovranno trovare un equilibrio dinamico tra il loro ruolo nazionale (di governo o di opposizione) e la capacità di rappresentare gli interessi delle comunità locali, elaborando a tal fine modelli organizzativi adeguati. Il successo dei partiti regionali in Italia, nei prossimi anni, dipenderà in larga misura dalla maggiore o minore capacità dei partiti nazionali di riformare se stessi e le istituzioni, creando i presupposti per la composizione unitaria delle tendenze autonomistiche. Un ultimo aspetto di interesse – in un elenco che, peraltro, è dichiaratamente parziale e meramente indicativo – consiste nell’attuazione del federalismo amministrativo alla luce dei principi contenuti nel nuovo Titolo V e, in particolare, nell’articolo 118 della Costituzione. È noto, infatti, che l’attuazione del federalismo fiscale sarà accompagnata da una serie di provvedimenti volti a ridefinire le funzioni degli enti locali. Occorrerà tuttavia verificare se questi interventi saranno l’occasione per riforme amministrative più ampie, volte a far derivare – più di quanto non sia avvenuto sino ad oggi – dal decentramento e dall’attuazione del principio di sussidiarietà uno snellimento e un recupero di efficienza da parte delle amministrazioni regionali e locali, anche mediante quei processi di semplificazione e di aggregazione (liberalizzazioni, gestioni associate, consorzi, aggregazioni di comuni ecc.) di cui da tanti anni si parla. Basterebbero queste sommarie indicazioni per rendere la complessità dei problemi che il gruppo di lavoro dovrà approfondire. Le competenze presenti
al suo interno, insieme a quelle di cui ancora potrà arricchirsi, e i primi risultati presentati in questo Quaderno, giustificano tuttavia un cauto ottimismo.

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Desidero rivolgere un ringraziamento particolare alla Fondazione Italianieuropei per avermi chiesto di coordinare l’attività del gruppo di lavoro sul federalismo, lasciandomi completa autonomia nella scelta degli esperti da invitare a far parte del gruppo. Scelta che è avvenuta unicamente, come detto, sulla base delle competenze tecniche e delle intersezioni disciplinari ritenute più utili. Era, questa completa autonomia, condizione indispensabile perché potessi assumere tale compito. Questa attività, tuttavia, non sarebbe stata possibile se alla costruzione del gruppo di lavoro e al suo coordinamento non avessero concorso anche i professori Raffaele Bifulco e Nicola Lupo, cui voglio esprimere in questa sede la mia più profonda gratitudine. Un ringraziamento sincero va inoltre al dottor Giuseppe Provenzano, per il suo prezioso contributo alla conduzione del gruppo e al lavoro redazionale e a tutti i membri del gruppo di lavoro.