insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa
Di mestiere faccio lo storico della filosofia, e tendo a comprendere le situazioni, e quindi anche l’esito elettorale del 4 marzo, in questa chiave. A mio parere, è il punto di approdo, certo provvisorio, di una lunga fase della storia italiana che – volendo proporre una periodizzazione – comincia con gli anni Novanta, quando la magistratura e la Lega distruggono un intero sistema politico: quello, come è invalso dire con una espressione sommaria, della prima Repubblica.
Ma il problema è più profondo: in effetti, in quegli anni, andava in crisi, per non più sollevarsi, tutta l’architettura politica e costituzionale generata dalla cultura dell’antifascismo e soprattutto iniziavano a incrinarsi i pilastri della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Anche in questo caso si trattava di un processo che veniva da lontano, dalla seconda metà degli anni Settanta: è allora che le forze di sinistra persero una guerra campale, con effetti profondi su tutto quello che sarebbe accaduto nei decenni successivi.
Di fronte ai grandi cambiamenti che stanno avvenendo su tutti i piani – demografico, religioso, dei rapporti personali, della politica e dello Stato –, invece di mostrare capacità di visione e di elaborazione di soluzioni, le società europee si chiudono in se stesse, formano barriere, elaborano in termini integralmente negativi la categoria del “diverso”, vedendo in esso solo il nemico da abbattere e da cui difendersi. Ne scaturisce una sorta di feudalizzazione della società, che spezza il principio dell’unità, affermando il primato del particolare, del locale, dell’individualismo nella forma più gretta ed egoistica. È su questo piano, culturale prima che politico, che la destra vince.
La crisi del partito di cui tanto si parla riguarda in realtà il partito di massa novecentesco e non il partito in quanto tale. Anche nell’epoca della post-politicizzazione di massa esso rimane, infatti, un cardine dell’azione politica, così come rimangono centrali i valori che ne caratterizzano l’azione, ossia le prese di posizione sulla realtà che esso propone, sviluppa, sostiene. Certo, valori nuovi, che vanno rimessi a fuoco e adattati a una realtà mutata, a una nuova consapevolezza dell’esperienza e della dimensione individuale, che concernono, oltre al lavoro e alle dinamiche tipiche delle società di massa novecentesche, il rapporto con la natura, le relazioni tra i generi, la consapevolezza del limite entro cui si muove la storia dell’uomo.
Il problema dei legami è in positivo e in negativo, direttamente o indirettamente, uno dei punti centrali della riflessione filosofica e politica moderna. Se si volesse però individuare un grande classico che lo pone al centro della sua riflessione si potrebbero citare i “Discorsi” di Machiavelli e, in modo particolare, i capitoli del primo libro in cui si affronta
La “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896” di Federico Chabod è senza alcun dubbio uno dei capolavori della storiografia italiana del XX secolo. Venne pubblicato nel 1951 e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere il primo di cinque volumi che tuttavia non videro la luce. L’editore Laterza ritenne di dover continuare a stampare quel solo volume – intitolato “Premesse” – perché «quest’opera vive a sé» dal momento che «illustra gli aspetti insieme etico-politici ed economico-sociali di un intero periodo della storia nazionale».
Nell’analisi dei principali aspetti del rapporto fra governanti e governati, devono essere considerati la “politicizzazione di massa” tipica del Novecento (e la crisi in cui essa è entrata negli ultimi anni) e la nuova centralità assunta, nello stesso periodo, dall’individuo e dall’individualismo. Un punto di svolta è rappresentato in questo contesto dal Sessantotto, che ha aperto una cesura via via più netta fra governanti e governati, fino al punto di riaprire il problema stesso delle “fonti” della sovranità nel nostro paese.