Verso una dimensione politica dell'UE

Di Roberto Gualtieri Giovedì 20 Marzo 2014 13:21 Stampa

La scelta del presidente della Commissione europea sulla base del ri­sultato delle elezioni e dell’indicazione da parte dei partiti politici europei dei rispettivi candidati può innescare un circolo virtuoso tra legittimazione democratica delle istituzioni dell’Unione e progressiva costruzione di un vero sistema politico europeo. La concreta possibi­lità che alla presidenza della Commissione venga eletta, inoltre, sulla base di una piattaforma programmatica ambiziosa, una figura dallo spiccato profilo europeo come Martin Schulz può offrire ai Socialisti e democratici l’opportunità di assumere la guida del rilancio in senso progressista del processo di integrazione.

Il voto che al Congresso del PSE di Roma ha sancito la nomina di Mar­tin Schulz a candidato dei Socialisti e democratici alla presidenza della Commissione europea costituisce un passaggio di grande rilievo nella definizione del profilo di un nuovo “europeismo progressista” capace di offrire una guida politica all’Unione dopo la lunga stagione dell’egemo­nia conservatrice. La possibilità di imprimere una svolta alle politiche europee nella direzione della crescita, dell’occupazione e della coesione sociale è legata infatti in modo inscindibile alla capacità di perseguire la costruzione di una democrazia europea imperniata sulle istituzioni comunitarie. Solo superando la contraddizione tra il carattere europeo delle politiche (policies) necessarie al governo della moneta unica e quello nazionale della politica (politics) sarà infatti possibile legittimare la pro­gressiva costruzione di un vero governo economico dell’euro, dotato di risorse e competenze sufficienti ad andare oltre una governance basata sulle regole e inevitabilmente fondata sul primato della disciplina di bi­lancio e delle politiche dell’offerta.

In questo quadro, la scommessa di un’elezione del presidente della Com­missione sulla base del risultato del voto europeo e dell’indicazione da parte dei partiti politici europei dei rispettivi candidati rappresenta un passaggio fondamentale e una leva, che può attivare un circolo virtuoso tra legittimazione delle istituzioni dell’Unione e progressiva costruzione di un vero sistema politico europeo. La piena “parlamentarizzazione” della procedura che porta all’elezione del presiden­te della Commissione, fino ad oggi caratterizzata da un negoziato di tipo intergovernativo tra gli Sta­ti membri, determinerà la politicizzazione di una figura (e quindi di un’istituzione) che finora ha sempre avuto un carattere prevalentemente (anche se in realtà solo in apparenza) tecnico, e ne aumen­terà la legittimazione democratica e l’accountabil-ity dinanzi ai cittadini. Ciò a sua volta rafforzerà inevitabilmente la Commissione nei confronti del Consiglio europeo e il Parlamento nei confronti del Consiglio, riequilibrando il pilastro comunitario dell’Unione rispet­to a quello intergovernativo, oggi decisamente prominente. Inoltre, il confronto tra i top-candidates dei diversi partiti favorirà una maggiore “europeizzazione” della campagna elettorale per il Parlamento, finora fortemente segmentata tra i diversi Stati membri e totalmente ancorata al dibattito interno di ciascuno di essi, incentivando la formazione di un embrione di spazio politico a dimensione continentale imperniato sui partiti politici europei.

È quindi significativo che sia stato il PSE a lanciare questa sfida nel suo congresso di Praga, proprio all’indomani delle elezioni del 2009 e della riconferma di Barroso, che avevano segnato il punto di massima debolezza politica del socialismo europeo e di maggiore forza del PPE.

Dalle urne era emerso infatti un Parlamento con una chiara maggio­ranza conservatrice (che si affiancava a quella ancora più schiacciante presente nel Consiglio), che si espresse nelle nomine ai vertici delle isti­tuzioni dell’Unione e nelle politiche da essa realizzate. Peraltro, Barroso era stato indicato dal PPE come il proprio candidato alla presidenza della Commissione già prima delle elezioni (al congresso di Varsavia), mentre il PSE non era stato in grado di fare lo stesso e successivamente si era malamente diviso in aula al momento del voto, con la maggio­ranza del gruppo S&D che si era astenuta, i socialisti francesi che ave­vano votato contro e spagnoli, portoghesi e inglesi che avevano votato a favore.

Se quindi, per certi aspetti, si potrebbe persino dire che nel 2009 la transizione verso la politicizzazione della Commissione si era già avviata sotto l’egida del PPE, va sottolineato che Barroso era il presidente della Commissione uscente, e che la sua prima elezione nel 2004 era stata il risultato di una complessa trattativa tra governi nella quale né il Parla­mento né gli elettori né i partiti politici europei avevano avuto alcun ruolo. Anzi, come Tony Blair ricorda con orgoglio nelle sue memorie, Barroso aveva alla fine prevalso su Guy Verhofstadt, sostenuto da Chi­rac e Schröder, grazie alla determinazione con cui il premier britannico aveva voluto una figura che garantisse che l’UE non si sarebbe sviluppata in senso federale (e che peraltro era stata al suo fianco nel sostegno alla guerra di Bush in Iraq).

La riconferma di Barroso non si caratterizzava dunque come una propo­sta politica del PPE rivolta all’elettorato, ma come un impegno alla con­tinuità che il Parlamento uscito dalle urne doveva limitarsi a garantire, esprimendo il proprio consenso (secondo la formulazione pre-Lisbona dei Trattati in vigore in quel momento) alla scelta compiuta dai gover­ni su una figura che avrebbe garantito una linea conservatrice e non avrebbe messo in discussione la preminenza Consiglio europeo sulla Commissione. Le modalità della rielezione di Barroso dimostravano, comunque, la forza egemonica del PPE e la sua capacità di esprimerla in forme coerenti con quel “metodo dell’Unione” fondato sul primato del metodo intergovernativo che sarebbe stato teorizzato da Angela Merkel.

Dopo questa sconfitta, la decisione del PSE di avviare una procedura democratica di selezione del proprio candidato alla successione di Bar­roso collegata alla definizione di una piattaforma programmatica, e la successiva qualificazione di questa strategia come il tentativo di costruire una “politica europea” (European politics) per dare corpo e sostanza de­mocratica al rafforzamento delle istituzioni dell’Unione introdotto dal Trattato di Lisbona (risoluzione di Varsavia del dicembre 2010), costitu­ivano dunque un vero e proprio rilancio politico. Il PPE veniva sfidato a misurarsi fino in fondo sul terreno della “politicizzazione” dell’UE, e l’elaborazione programmatica assegnava una inedita (per i socialisti) centralità al metodo comunitario e alla necessità di declinare compiuta­mente su quel piano una nuova agenda progressista che andasse oltre sia il tradizionale riformismo nazionale che le suggestioni globaliste e “mer­catiste” di una Terza via, il cui impianto era ormai radicalmente messo in discussione dalla crisi economico-finanziaria.

Di fronte alla determinazione e ai passi concreti precocemente assunti dal PSE, che già nel novembre 2011 definì criteri e procedure per la selezione del proprio candidato alla presidenza della Commissione, al congresso di Bucarest del 2012 anche il PPE si espresse a favore di tale procedura, che fu quindi solennemente sancita dal Parlamento europeo con l’approvazione a larghissima maggioranza della sua risoluzione del 20 novembre 2012. Tuttavia, molti Stati membri hanno mantenuto una posizione di scetticismo e in molti casi di aperta ostilità alla prospettiva di una parlamentarizzazione e politicizzazione della scelta del presiden­te della Commissione, e il PPE ha a lungo esitato prima di prendere atto che sarebbe stato politica­mente impossibile sottrarsi alla sfida lanciata dai socialisti con la candidatura di Martin Schulz, e di arrivare alla designazione di Jean-Claude Juncker al congresso di Dublino dopo un acceso duello con Michel Barnier. Ancora adesso molti ritengono (e alcuni auspicano) che il Consiglio europeo non ter­rà conto dei candidati designati dai partiti e che il prossimo presidente della Commissione sarà scelto dopo una normale trattativa tra governi, sottovalutando sia la portata dell’innovazione isti­tuzionale introdotta dal Trattato di Lisbona sia soprattutto la dinamica politica innescatasi sulla base degli orientamenti assunti dai partiti poli­tici europei.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre sottolineare come, in base all’articolo 17.7 del Trattato sull’Unione europea, il presidente della Commissione sia ora “eletto” dal Parlamento europeo su proposta del Consiglio europeo, e non più “nominato” da quest’ultimo e “confer­mato” dai deputati, e che la proposta del Consiglio europeo, formulata con un voto a maggioranza qualificata, deve tenere conto del risultato delle elezioni europee e delle successive consultazioni con il Parlamento. Inoltre, l’elezione (a voto segreto) richiede la maggioranza assoluta degli aventi diritto, e non più solo quella dei votanti, il che rafforza ulterior­mente la posizione del Parlamento.

Ma è soprattutto il processo politico che si è innescato ad apparire dif­ficilmente reversibile. In primo luogo, anche Liberali, Verdi e Sinistra europea (GUE) hanno designato il loro top candidate (rispettivamente Guy Verhofstadt, la “coppia” José Bové e Ska Keller, e Alexis Tsipras), e tra i principali gruppi parlamentari solo l’ECR dei Tory britannici si è sottratto a questa procedura. Peraltro, occorre sottolineare come quasi tutti i candidati abbiano, in forme diverse, uno spiccato profilo euro­peo. Schulz è il primo politico in Europa ad aver conquistato peso e notorietà popolare sulla base di una carriera tutta interna alle istituzioni dell’Unione, e in questo senso può essere considerato il prototipo di un nuovo tipo di “leader politico dell’UE”. Juncker è stato a lungo primo ministro, ma il fatto che provenga dal Lussemburgo collega il suo pro­filo assai più alla funzione svolta alla presidenza dell’eurogruppo. An­che Verhofstadt ha un passato da primo ministro, ma svolge da tempo il ruolo di presidente del gruppo ALDE, mentre Bové ha guidato un movimento con un forte radicamento in Francia ma con un carattere spiccatamente transnazionale. Il solo caso in cui la funzione nazionale è preminente rispetto a quella europea è quello di Tsipras, leader di partito e aspirante primo ministro in Grecia, che a differenza di tutti gli altri non sarà neanche candidato al Parlamento europeo, anche se l’obiettivo della

GUE/NGL sarà quello di provare fare del caso greco una sorta di em­blema dei mali dell’austerità (anche se ciò di fatto avverrà in un numero limitato di paesi e non nell’Europa del Nord).

Tornando al processo politico, l’infittirsi di sondaggi sulla composizione del prossimo Parlamento sembra inoltre indicare che almeno una parte del sistema dell’informazione concentrerà in misura crescente la propria attenzione sulla contesa per il primo posto tra PPE e PSE e sui loro rispettivi candidati. Infine, l’investitura quasi plebiscitaria a Schulz (in sostanza con la sola eccezione dei laburisti britannici) da parte di un PSE che oggi può contare su dodici primi ministri ed è al governo in dician­nove paesi su ventotto dell’Unione, rende scarsamente realistico pensare che, nel caso i Socialisti e democratici risultassero il primo gruppo in Parlamento (ipotesi accreditata dai sondaggi attuali), il Consiglio euro­peo possa proporre un nome diverso, ma anche che una maggioranza parlamentare relativa del PPE possa sfociare in un’indicazione diversa da quella di Juncker da parte del Consiglio europeo.

La convocazione di una cena informale dei capi di Stato e di governo già la sera del 27 maggio, cioè subito a ridosso delle elezioni, a cui ha fat­to immediatamente seguito da parte del Parlamento la convocazione di una “Conferenza dei presidenti” (cioè dei capigruppo) straordinaria per quella stessa mattina, indica dunque chiaramente che le elezioni del 22- 25 maggio sono destinate ad assumere una inedita centralità nel definire un indirizzo alla transizione istituzionale che porterà alla scelta dei nuovi vertici dell’Unione, e che il Parlamento e i suoi gruppi politici svolge­ranno per la prima volta un ruolo da protagonisti in quel processo, che porterà alla guida della Commissione il candidato del gruppo più forte.

L’iniziativa del PSE (nel frattempo rafforzato anche dall’ingresso a pieno titolo del Partito Democratico) appare quindi de­stinata a cambiare in profondità la politica europea e a offrire un terreno nuovo e solido per il rilancio del processo di integrazione. La concreta possibili­tà che alla presidenza della Commissione sia eletto un uomo come Martin Schulz e la definizione per la prima volta di una piattaforma programmatica ambiziosa, che riprende alcuni dei principali pun­ti qualificanti del lavoro svolto in questi anni dal gruppo S&D al Parlamento ed è fortemente europeistica, offrono ai progressisti l’opportunità di assumere la guida di questo processo, e di affrontare la sfida difficile e appassionante di rilanciare il modello sociale europeo nell’epoca della globalizzazione e di costruire compiutamente una dimensione continentale della democrazia e dei diritti.

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