L’idea di impresa pubblica nel mutare del clima culturale

Di Salvatore Biasco Lunedì 22 Maggio 2017 16:16 Stampa

L’affermarsi di una visione contrattualistica e privatistica del funzionamento e degli obiettivi delle imprese ha finito per abbracciare anche la visione dell’impresa pubblica, facendo sì, per quanto la riguarda, che il concetto di efficienza sociale lasciasse il passo a quello di efficienza privata. In questo modo, la funzione dell’impresa pubblica ha finito per essere spogliata di ogni ruolo sociale e i suoi obiettivi omologati a quelli diventati totalizzanti per l’impresa privata: la creazione di valore per gli azionisti. Ciò è avvenuto sull’assunto che la conduzione pubblica sia meno efficiente di quella privata; assunto che mantiene ampio credito nonostante l’evidenza empirica non lo comprovi. Invece, in una visione strategica di sviluppo del paese che le ricomprenda, le imprese pubbliche possono tornare a essere uno strumento importante di politica economica, come è evidente (in negativo) in alcuni recenti casi concreti.

 

L’IMPRESA PUBBLICA E LO STATUTO DELL’IMPRESA PRIVATA

Per capire il clima culturale – ma anche l’orizzonte politico e di po­litica economica – che matura attorno all’impresa pubblica possia­mo prendere a prestito il memorandum che Paolo Sylos Labini stila per una audizione alla Camera già nel 1962.1 Egli vede nell’impresa pubblica sia un countervailing power nel mercato sia uno strumento della politica economica. Per quanto debba essere indipendentemen­te gestita, essa è in entrambi i ruoli un agente del decisore pubblico con il compito di mantenere elevati gli investimenti, assicurare una concorrenza nei mercati dominati da poche imprese soggette a un at­teggiamento collusivo, partecipare a un riequilibrio territoriale delle produzioni e, soprattutto, con la missione di ridurre i prezzi nei pro­dotti di base. In qualche modo, egli la inserisce in una visione dello sviluppo del paese. Anche civile. Perché è sottinteso che nell’impresa pubblica si debba realizzare un equilibrato e moderno sistema di re­lazioni industriali.

Egli è esplicito sull’esigenza che le imprese pubbliche operino con economicità, nel senso di non essere in perdita. Ma sa perfettamente che l’impresa pubblica partecipa a un concetto di efficienza sociale che non è strettamente quello di efficienza privata. I fini sono com­plessi quando si tratta di fini pubblici e non si misurano solo in ter­mini di bilancio, ma anche di esternalità che l’impresa genera e che alla fin fine sono la sua ragione d’essere. A essa attiene un codice di condotta che esalti la responsabilità sociale e il dovere fiduciario ver­so lavoratori, banche, fornitori, territorio e istituzioni e quant’altro coincida con l’interesse collettivo.

Il clima culturale può essere colto in modo più completo guardando allo statuto implicito che in quegli anni attiene all’impresa privata nel processo collettivo. La cultura economica diffusa enfatizza la na­tura cooperativa del processo di produzione, che fa leva conseguen­temente su un concetto di capitale come bene sociale, soggetto quindi a responsabilità sociale. Il che non contraddice la proprietà privata e il perseguimento del profitto individuale nell’attività produttiva, ma presuppone che alle imprese, in qualsiasi campo, sia assegnato un ruolo implicito di agenti attraverso i quali raggiungere un interesse collettivo, di occupazione, produzione, progresso tecnico, stabilità. Presuppone che vi sia un presidio/sorveglianza/ausilio/supplenza da parte dello Stato nello svolgimento di tale ruolo.

LA VISIONE CONTRATTUALISTICA CHE SUBENTRA

Possiamo confrontare da subito questa visione cooperativistica in cui è inserita l’impresa privata con la visione contrattualistica e privati­stica che ne prenderà il posto, prima come ispirazione culturale e poi man mano nella pratica. Si tratta della lex mercatoria. Con essa, il presidio del diritto nei confronti dei comportamenti di impresa e della finanza (e, in generale, degli attori economici) lascia il passo all’autonomia dei soggetti, supposti in grado di autoregolarsi e dicondurre – liberi da interferenze – ai risultati ottimali e più efficienti per l’economia. La fonte di diritto diventa il contratto privato e la norma deve adattarsi alle esigenze del mercato piuttosto che viceversa. Dentro questa concezione, il mercato ha il compito di svolgere il ruolo di selettore naturale delle imprese, e il concetto di efficienza sociale si scioglie in quello di efficienza privata. Allo Stato spetta solo predisporre nella sfera microeconomica condizioni opportune per­ché questa selezione possa operare (condizioni di deregolamentazio­ne, flessibilizzazione, competizione, apertura, affidamento ai privati delle decisioni produttive e rimozione degli automatismi di spesa sociale, e simili). Sempre meno gli indirizzi che ne discendono sono questione di specifica valutazione di opportunità ed efficienza perché le alternative sono ormai private di dignità intellettuale da un proces­so culturale uniformante.

Allo Stato non viene quindi riconosciuta una particolare responsa­bilità in economia. La concorrenza è ciò che basta e avanza come stella polare della politica economica. Qualsiasi decisione pubblica discrezionale (o rimessa a una discussione politica) diviene per sua natura inefficiente o inefficace, a meno che non tenda a organizzare e sorvegliare la concorrenza medesima. Saranno gli animal spirits che si scatenano in un contesto di mercato concorrenziale (e il più possibile liberato dalla vischiosità che crea la sfera pubblica) a dare impeto al motore dello sviluppo.

L’idea che prende il sopravvento è quindi che l’impresa sia solo un coacervo di contratti individuali con un’unica missione: la “creazione di valore” per gli azionisti. Il suo ruolo sociale si esaurisce nei profitti che crea e nella salute di cui gode, di cui beneficiano un vasta gamma di agenti (e il paese nel suo complesso). Attorno a questa visione ruota l’intero processo normativo, oltre che la prassi gestionale che la riguarda, che spingono entrambi in direzione coerente: rendiconta­zione a breve, norme pro scalata, stock option, ruolo degli investitori istituzionali, incentivi ai manager sulla performance di breve perio­do. Vanno in quella direzione la creazione di mercati e le tipologie di operatori che sorgono con la loro infrastrutturazione normativa. Con il passaggio dal capitalismo fordista a quello finanziario si mo­dificano sensibilmente le regole di controllo delle imprese. Questo è affidato agli investitori istituzionali, alle banche, al capitale interna­zionale, alla pressione degli azionisti che chiedono, appunto, aumen­ti del valore delle azioni e crescita della distribuzione di dividendi. Il mercato finanziario deve essere organizzato in modo tale da assicura­re che avrebbe selezionato efficacemente e razionalmente le imprese, valutando assieme profittabilità, scalabilità e governance.

Diventano assiomi che lo scorporo sia meglio dell’integrazione ver­ticale, la liberalizzazione meglio del controllo, che le reti operino meglio se separate dal gestore del servizi, che gerarchizzazione e co­mando nella conduzione dell’impresa siano meglio del compromesso interno con gli attori del processo produttivo. Al di là degli adempi­menti di legge, le imprese non sentono di dover rispondere ad alcu­na autorità o all’opinione pubblica o agli interessi di terzi. Pressate, come sono, dall’imperativo della competitività e della crescita azien­dale, internalizzano i dettati e le domande del mercato globale e si riservano il massimo di flessibilità per continue ristrutturazioni, snel­limenti e decentramenti produttivi, o scelte comunque convenienti.

L’IMPRESA PUBBLICA NEL NUOVO QUADRO

In questo quadro, l’impresa statale o municipale perde qualsiasi connotazione positiva avendo perso una missione da compiere. Non ha più scopo oltre quello di porsi all’interno di questo scru­tinio del mercato che governa ora lo statuto dell’impresa privata. E ciò richiede l’affrancamento dall’orbita pubblica (quanto meno la societarizzazione); affrancamento, cioè, da ciò che ne deriva per definizione: l’invasività della politica, il carico di compiti non com­merciali, le cordate politiche cui i manager si connettono. Si dà per scontato che la conduzione pubblica sia meno efficiente e che il mercato sia superiore alle burocrazie sotto controllo centralizzato. Si tirano in ballo interpretazioni ispirate all’individualismo meto­dologico, in cui l’istituzione non viene più distinta dalle motivazio­ni e ambizioni dei manager e singoli controllori istituzionali (che deviano da logiche di profitto massimizzando la propria rendita politica, consista essa nel prestigio, nei rapporti interni o esterni all’impresa, nel mantenimento del posto, nei vantaggi relazionali, nella rielezione ecc.). È rendita di posizione anche quella che gli stessi lavoratori traggono dall’appartenenza dell’impresa alla sfera pubblica, dove si dà per scontato che abbiano retribuzioni privile­giate e maggiore stabilità di impiego.

L’EVIDENZA EMPIRICA

Vi sono ovviamente molte vicende di impresa pubblica che danno alimento a questi convincimenti. Il che rende necessario ricondurre le storie di privatizzazione ai processi specifici che le hanno ispirate. Non che siano in assoluto ingiustificate in casi e contesti specifici. Ciò che è ingiustificato è l’idea generale che si diffonde che tutti gli obiettivi pubblici possono esser assicurati su basi private. La storia italiana deve ricomprendere anche la degenera­zione del sistema delle partecipazioni statali e la necessità di guadagnare fiducia nei mercati in­ternazionali, che chiedevano lo smantellamento di un sistema eccessivamente esteso di proprietà pubblica e l’abbattimento del debito statale. Ma sarebbe difficile non iscriverla anche nel disfa­vore in cui era caduta l’idea di Stato (di cui era certamente partecipe la Commissione europea quando praticamente ce le impose).2

Questo disfavore verso lo Stato imprenditore, che – non solo in Italia, ma un po’ ovunque nel mondo occidentale – è alla base delle privatizza­zioni, ignorava (e ignora) il flusso compatto di evidenze empiriche che già allora concludevano che non vi fossero prove sistematiche di una differenza in termini di efficienza o di altri indicatori rispetto al settore privato.3 Lo stesso Fondo monetario in­ternazionale (in un documento scritto in collaborazione con la Ban­ca mondiale) conclude nel 2004 che «non si può dare per scontato il fatto che i partenariati pubblico-privato siano più efficienti rispetto ai servizi forniti da enti pubblici e con investimenti pubblici».4 Willner e Parker, dopo aver studiato le performance di imprese pubbli­che e private sia in paesi industriali che emergenti, concludono che «dall’evidenza empirica risulta che il passaggio di proprietà dal setto­re pubblico a quello privato non è necessariamente la cura richiesta per un’organizzazione che abbia un rendimento molto inferiore alle sue capacità».5

Anche tutta la letteratura rivolta alla valutazione di performance del­le imprese privatizzate (a distanza di tempo dal loro passaggio di proprietà) non corrobora nessuna delle ipotesi con cui sono state poste sul mercato (la letteratura è ormai sconfinata, per essere qui richiamata).6 Né sono veri gli assunti (ad esempio che le retribuzioni incorporassero rendite dei lavoratori, quando l’evidenza empirica le rileva inferiori a quelle private o per lo meno non registra differenze di scarti tra il pre e il post privatizzazione, nonostante l’indebolimen­to dei sindacati), né sono convalidate le aspettative di maggiori in­vestimenti e produttività. È documentata ormai, pur con distinzioni che vanno fatte per singoli casi, la perdita con le privatizzazioni – oltre che di investimenti e di centri di ricerca (sacrificati allo short-termism delle logiche imprenditoriali private che richiedono taglio dei costi) – di occupazione e di competenze specialistiche e gestionali disponibili nel settore pubblico (cui fa da pendant un rafforzamento sociale di chi di quelle competenze dispone). Dell’alienazione di quei cespiti non ha neppure beneficiato il bilancio pubblico sia in termini attuariali (flusso di dividendi persi rispetto al flusso di interessi risparmiati) sia in quelli di consuntivo tracciato ad alcuni anni di distanza dalla loro vendita.7 Quell’alienazione ha rappresentato una perdita a carico dei contribuenti (sempre) e dei lavoratori (spesso), a vantaggio di consu­matori (talvolta), di azionisti, investitori finanziari (spessissimo) e di contractors (sempre).

Non si può dire che, a compensazione di questi sviluppi, il profilo di produttività sia migliorato, perché non comprovato dalle statisti­che, mentre, dove vi è stato incremento dei profitti, questo è deri­vato dalle rendite monopolistiche trasferite ai privati per incentivarli all’acquisto, dai flussi di cassa garantiti e dalla successiva cattura del regolatore, oltre che dalla delocalizzazione e dai prezzi. Nemmeno la qualità del servizio e la soddisfazione degli utenti è migliorata.8

Quanto affermato finora non è frutto di impressioni derivate da un pregiudizio ideologico, ma da conclusioni di studi specifici. Per tutti, in Italia, si veda l’impietoso rapporto della Corte dei Conti.9

Neppure si può dire che nel settore delle municipalizzate la realtà dell’impresa pubblica locale sia più vicina a quella rappresentata nelle analisi critiche, perché anche in questo settore il giudizio è smentito dalla verifica concreta. Una notevole varietà di analisi svolte nel set­tore idrico in Asia, Africa, America Centrale e del Sud (recensite in due penetranti review articles) porta alla conclusione che «per quan­to riguarda l’efficienza non esistono prove che inducano a dedurre che un gestore pubblico sia intrinsecamente meno efficiente e meno efficace». Oppure, che sono state «largamente deluse le aspettative»che consideravano la privatizzazione «una modalità utile per portare investimenti, efficienza, e una gestione più efficace delle acque nei paesi in via di sviluppo».10 Né la conclusione cambia se l’analisi è riferita ai gestori dei paesi OCSE.11 E neppure è limitata al settore idrico (che è solo il più studiato); anche per quello dei rifiuti il giu­dizio non cambia e il miglioramento riscontrato nel tempo risulta identico in ambito pubblico e in quello privatizzato.12

Per quanto riguarda l’Italia, la ricerca della Corte dei Conti su oltre 4200 imprese nei servizi locali non raggiunge conclusioni certe.13 Poca considerazione riceve, poi, il fatto che il settore dei servizi pub­blici appartiene all’ambito della cittadinanza. Anche dove la privatiz­zazione è un successo, ciò che gli “utenti” guadagnano come consu­matori lo perdono come cittadini di una collettività.

IMPRESA PUBBLICA E STRATEGIE PER IL PAESE

Tutto ciò porta a una opzione aprioristica a favore dell’impresa pub­blica? Bisogna chiederselo soprattutto in una fase in cui gli eventi traumatici ascrivibili al modo d’essere del nuovo capitalismo e delle nuove concezioni di politica economica portano a una messa in di­scussione di orientamenti puramente privatistici e a una certa rivalu­tazione del ruolo pubblico in economia (se non a una ri-pubblicizza­zione della stessa).14 Il mantenimento nella sfera pubblica di imprese rilevanti non è un fine in sé. È un mezzo per raggiungere alcuni scopi produttivi (in un contesto di controllo e stimolo alla loro efficienza). È quindi legittimata la presenza pubblica diretta in economia se tor­nano in primo piano le strategie. Queste presuppongono una visione del sistema paese, disegni di lungo periodo, progetti di investimenti che pongano in movimento interi comparti (o quanto meno presup­pongono una cultura del settore). In sintesi, si può essere a favore di una forte presenza pubblica in relazione a finalità progettuali. E que­ste non sono solo di carattere nazionale ma anche locale. Ad esem­pio, è inutile interrogarsi sull’opportunità della presenza pubblica nei trasporti urbani fuori dal profilo socio-urbanistico tracciato per lo sviluppo di una città, di cui la mobilità è un aspetto importante. Se ai problemi dell’impresa pubblica ci si avvi­cina solo per tematiche amministrative e di gover­nance che sembrano dominare gli interventi dei governi e il dibattito pubblico non si va lontano.

Qui è calzante l’esempio di Poste Italiane, una privatizzazione (sia pur parziale) emblematica del 2015. È del tutto evidente come un’impresa sui generis come Poste sia stata sottoposta a una logica più stringentemente privatistica prima che la classe politica (attuale e passata) si fosse chie­sta come utilizzare in una strategia per il paese il preziosissimo patrimonio che essa rappresenta. Combinando sportelli (13.000), consegna, rete informatica (che è la seconda in Italia), logistica, telefonia e altro, Poste presenta sinergie ideali per i progetti di e-government e di informatizzazione dell’Am­ministrazione Pubblica e per l’obiettivo di allargare il ventaglio della comunicazione tra la Pubblica Amministrazione e i cittadini. Non entro nel dettaglio,15 ma è esteso e sorprendente. Potrebbe dare unindirizzo elettronico a 20 milioni di famiglie, che potrebbe essere utilissimo per l’Amministrazione, concorrere alla dematerializzazio­ne dei documenti, fornire intermediazione tra cittadini e uffici della Pubblica Amministrazione nel caso di funzioni front office che posso­no essere intermediate su base informatizzata (alleggerendo i compiti della PA), concorrere alla telemedicina, essere la base per la diffusio­ne del wi-fi su scala nazionale ecc. Poste Italiane poteva anche essere ripensata dal suo azionista pubblico per creare un player importante nella logistica industriale in partnership con Ferrovie (che pure è in via di privatizzazione). Ma, ovviamente, con seri investimenti ag­giuntivi e una vera e propria strategia di crescita dimensionale.

Resta difficile capire cosa i privati possano apportare. Una più strin­gente logica di mercato? Più controllo ed efficienza? Maggiori capita­li? Know-how? Mi sembra che nell’attuale operazione questa presun­zione di principio, comune a tutte le operazioni di privatizzazione, sia alquanto debole se non nella retorica. Nella logica dell’apertu­ra del capitale sarebbe stato meglio allora che Poste si fosse aperta verso un partner di dimensioni equivalenti (anche estero) capace di apportare, attraverso operazioni societarie, logistica o altre attività complementari. Oppure che fosse stata utilizzata per una ingegneria di integrazione tra Cassa depositi e prestiti e Poste Italiane, che – scorporando (e allocando in altri veicoli) le partecipazioni e le attività della Cassa a sostegno alle imprese – desse vita a una banca (che in Italia è assente) di supporto agli enti locali, integralmente orientata al finanziamento delle infrastrutture e ai servizi (tenuta dei bilan­ci, finanziamento, consulenza finanziaria, analisi di prefattibilità dei progetti, project financing locale, mutui, tesoreria, servizi all’ammi­nistrazione locale, riscossione dei tributi ecc.).

Si può obiettare che l’impresa rimarrà saldamente in mano pubblica. Ma questo non fa presupporre che il suo assoggettamento alle logi­che di Borsa e di “creazione di valore” ne lasci inalterata la natura (il “buon giorno” si vede dalla riduzione dei giorni di consegna, dal piano sportelli, dall’annuncio di una generosa politica di dividendi, dalla ripresa di conflitti sindacali). Né fa credere che lasci inalterata la mentalità aziendale; non ultimo, quel patrimonio costituito dall’or­goglio di appartenenza dei suoi dipendenti, che ha garantito 23 annidi pace sindacale, nonostante le basse paghe, i ritmi elevati, le valuta­zioni cui è sottoposto il personale e le concentrazioni lavorative. Non è spiegabile altrimenti se non con la gratificazione di lavorare in una struttura avvertita come pubblica.

In una visione strategica che le ricomprenda, le imprese pubbliche possono essere uno strumento importante; ma se uno sguardo lun­go verso la politica economica è assente, ormai per disabitudine, è perfino comprensibile (anche se non giustificabile) che l’opinione comune e dei governanti non vada oltre ciò che può fare il mercato (e sorvoli sulla perdita di strumenti per guidare l’economia, oppure, sull’importanza della responsabilità sociale nel settore produttivo).


[1] Camera dei deputati, IV legislatura, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sui limi ti posti alla concorrenza nel campo economico, doc. XVIII, n. 1, vol. II, Audi­zione di Paolo Sylos Labini, 8 febbraio 1962, ora in “Moneta e Credito”, 272/2015.

[2] Questo è molto ben documentato in R. Artoni (a cura di), Storia dell’IRI. 4. Crisi e privatizzazione, Laterza, Roma-Bari 2014. La Commissione europea considerò aiuti di Stato i fondi di dotazione e ci impose di riportare in tre anni il rapporto debito-ca­pitale investito dell’IRI al 60%.

[3] L’industria pubblica è stata molto studiata. Una bibliografia rilevante cui fare rife­rimento si può trovare in M. Florio, Ripensare l’impresa pubblica: alcuni contribu­ti recenti (2013-2015), in corso di pubblicazione in “Economia Pubblica”. Nella suddetta bibliografia si veda CIRIEC, L. Bernier, Public Enterprises Today: Missions, Performance and Governance. Learning from Fifteen Cases, P.I.E. Peter Lang, Bruxelles 2015. Si tratta di 15 studi comparati di imprese pubbliche. Lo stesso Florio (citato più avanti) riporta studi sulle prime 2000 imprese classificate da “Forbes”: quelle a controllo pubblico (oltre il 50% di possesso azionario) sono più redditizie e capita­lizzate di quelle a controllo privato.

[4] FMI, Public-Private Partnerships, 12 marzo 2004, disponibile su www.imf.org/exter­nal/np/fad/2004/pifp/eng/031204.pdf

[5] J. Willner, D. Parker, The Relative Performance of Public and Private Enterprise Under Conditions of Active and Passive Ownership, Centre on Regulation and Competition, Paper n. 22, Institute for Development Policy and Management, University of Man­chester, ottobre 2002, disponibile su www.ageconsearch.tind.io//bitstream/30591/1/ cr020022.pdf

[6] Un classico in questo campo è lo studio di M. Florio, The Great Divestiture. Eval-uating the Welfare Impact of the British Privatizations, 1979-1997, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2004, riferito al caso britannico che è stato l’archetipo delle dismissioni. Lo stesso autore ha prodotto altri studi importanti (a cui rinvio, in quanto facilmente reperibili in rete) ed è di grande rilievo la review svolta al Convegno “La ricostruzione dello Stato”, disponibile su www.ripensarelasinistra.it (prima giorna­ta), da cui traggo alcuni dati successivi, oltre quello citato nella nota 5. Nello stesso sito, vi è la sintesi dell’intervento. Neppure per le economie passate dal regime di pianificazione comunista al regime di mercato l’evidenza è inequivocabile. Si veda S. Estrin, The Impact of Privatization in Transition Economies, New Palgrave Dictionary of Economics, gennaio 2007. Per l’Italia il riferimento più importante è R. Artoni (a cura di), Storia dell’IRI cit.

[7] Nel bilancio patrimoniale dello Stato britannico l’attivo netto era intorno al 70% del PIL prima delle privatizzazioni ed è attualmente al 20%; il che vuol dire che gli asset venduti si sono dileguati nel nulla, trasformati in consumi. In Italia non abbiamo un simile bilancio e ci dobbiamo basare solo sulle passività dello Stato, cosa non scorretta visto che l’introito delle privatizzazioni (circa 130 miliardi di euro) è an­dato a ridurre il debito. Prima dell’inizio del ciclo di dismissioni, il debito pubblico complessivo è, nel 1996, di 1213,5 miliardi di euro, e di 1300,3 nel 2000. Prima della crisi (2007) è di 1605,1 miliardi di euro, segno che lo spazio fiscale creato dalle privatizzazioni è stato tutto sfruttato in consumi, dal momento che nel frattempo la pressione fiscale non è diminuita e gli investimenti pubblici sono caduti.

[8] Se, mettendo in fila i vari paesi, si prendono ad esempio le interruzioni non piani­ficate di servizi elettrici o telefonici si vede che questi aumentano con l’aumentare della presenza privata nella fornitura del servizio.

[9] «Gli effetti delle privatizzazioni sul benessere dei consumatori [oltre che sull’ade­guatezza dei prezzi di vendita] sembrano ancora più controversi». In particolare, analizzando nel dettaglio i prezzi dei servizi erogati dalle utilities (acqua, energia, trasporti, telecomunicazioni), si osserva una dinamica dei prezzi molto accentuata. Ancora meno soddisfacenti appaiono i risultati della privatizzazione delle banche per ciò che attiene al livello degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clien­tela. «[Il fatto che] le imprese in questione operino in condizioni [oggettivamente più favorevoli, talvolta grazie ai benefici concessi all’impresa dal socio pubblico], suggerisce che l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe, e forse meno in termini di recupero di efficienza sui lati dei costi, anche al di là di eventuali ristrutturazioni avvenute a seguito della privatizzazione». Relazione della Corte dei Conti, Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, 10 febbraio 2010.

[10] D. Hall, E. Lobina, L’efficienza relativa del settore idrico pubblico e di quello privato, in “Quale Stato”, luglio 2006 e, degli stessi autori, Il settore privato dell’acqua nel 2009, in “Quale Stato”, marzo 2009. Entrambi gli articoli presentano una sintesi e una valutazione delle ricerche rilevanti.

[11] S. Wallsten, K. Kosec, Public or Private Drinking Water? The Effects of Ownership and Benchmark Competition on U.S. Water System Regulatory Compliance and Household Water Expenditures, Working Paper 05-05, AEI-Brookings Joint Center for Regula­tory Studies, marzo 2005, disponibile su www.academia.edu/15589569/Public_or_ Private_Drinking_Water_The_Effects_of_Ownership_and_Benchmark_Compe­tition_on_U.S._Water_System_Regulatory_Compliance_and_Household_Water. Le società con migliore reputazione al mondo in questo settore sono quelle di Sin­gapore e di Tokyo, entrambe pubbliche; hanno una perdita d’acqua del 6% quando quelle privatizzate di Inghilterra e Galles l’hanno del 25% (con tariffe aumentate del 65% dal 2003). Gli studi riguardanti gli Stati Uniti rilevano tariffe più elevate per le imprese private rispetto a quelle pubbliche. Si veda l’intervento di F. Osculati al Convegno “La ricostruzione dello Stato”, disponibile su www.ripensarelasinistra.it (prima giornata).

[12] M. Bishop, J. Kay, C. Mayer, Privatization and Economic Performance, Oxford Uni­versity Press, Oxford 1994; M. Bishop, D. Thompson, Regulatory Reform and Pro­ductivity Growth in the UK’s Public Utilities, in “Applied Economics”, 1992.

[13] Si veda ancora F. Osculati citato in precedenza. Si veda anche C. Arruzza, C. Oddi (a cura di), 15 anni dopo: pubblico è meglio. Indagine sulla trasformazione dei servizi pubblici, del lavoro e della partecipazione democratica, Ediesse, Roma 2007.

[14] Gli indicatori sono molti. Basta pensare al ruolo che gli Stati hanno avuto nei sal­vataggi bancari, alla funzione dei fondi strategici (tenuti fuori dalla sfera pubblica e in modo da consentire a molti interventi operativi di non essere sottoposti ai vincoli cui soggiacciono gli Stati), a una certa ripresa delle politiche industriali, alle deroghe comunitarie per le PMI, fino al de minimis (non ricompreso tra gli aiuti di Stato). Berlino e Parigi hanno ripubblicizzato il servizio idrico dell’area metropolitana e la Gran Bretagna mira a ripubblicizzare le ferrovie, dopo il disastro del loro funziona­mento in mano privata. In più, va annotata la resistenza politica e popolare che in­contra la dismissione di partecipazioni pubbliche residue; significativo è che in Italia il referendum contro la privatizzazione dell’acqua abbia ottenuto l’84% dei consensi.

[15 Ho esaminato nel merito le varie sfaccettature della privatizzazione di Poste Italia­ne nell’articolo S. Biasco, Poste Italiane: una decisione sbagliata, in “nelmerito.com”, 5 novembre 2015, disponibile su www.nelmerito.com/index.php?option=com_co-tent&task=view&id=2218&Itemid=1 Un precedente articolo su questa impresa e le sue potenzialità è S. Biasco, Poste italiane: problemi strategici e di integrazione col sistema-paese, in “Astrid Rassegna”, 12 settembre 2008, disponibile su www.astrid-on-line.it/static/upload/protected/Bias/Biasco_Poste-italiane_sett_08.pdf