Per il pluralismo etico del Partito Democratico

Di Giancarlo Schirru Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

Le pagine che seguono sono dedicate al seguente problema: i tanti che hanno finora riflettuto sulla possibilità di fondare un nuovo partito politico in Italia – il Partito Democratico – hanno sviluppato diversi argomenti. Sono stati richiamati ad esempio i successi elettorali ottenuti dal simbolo dell’Ulivo ovunque sia comparso sulle schede delle ultime competizioni elettorali, la possibilità di riunificare le maggiori culture politiche dell’Italia repubblicana, l’opportunità di fornire la coalizione di centrosinistra di un baricentro politico che consenta di governare al meglio il paese, la necessità per la democrazia moderna di fondarsi su un sistema di partiti oggi molto fragile in Italia. Tutti, però, hanno aggiunto che un partito non nasce per ragioni di tipo elettorale, culturale, politologico o simili. Un partito politico è una forma di partecipazione associata alla politica e alla vita civile: non si può eliminare dalle sue ragioni fondative quella sfera gratuita e volontaria in cui vive la partecipazione politica. Un partito politico non è un’impresa. E la partecipazione è mossa innanzi tutto da ideali, speranze per il futuro, desiderio di una vita migliore, grandi opzioni sul mondo di domani.

I poli positivi si respingono. Il Partito Democratico tra politica, ideali, etica e valori

Le pagine che seguono sono dedicate al seguente problema: i tanti che hanno finora riflettuto sulla possibilità di fondare un nuovo partito politico in Italia – il Partito Democratico – hanno sviluppato diversi argomenti. Sono stati richiamati ad esempio i successi elettorali ottenuti dal simbolo dell’Ulivo ovunque sia comparso sulle schede delle ultime competizioni elettorali, la possibilità di riunificare le maggiori culture politiche dell’Italia repubblicana, l’opportunità di fornire la coalizione di centrosinistra di un baricentro politico che consenta di governare al meglio il paese, la necessità per la democrazia moderna di fondarsi su un sistema di partiti oggi molto fragile in Italia. Tutti, però, hanno aggiunto che un partito non nasce per ragioni di tipo elettorale, culturale, politologico o simili. Un partito politico è una forma di partecipazione associata alla politica e alla vita civile: non si può eliminare dalle sue ragioni fondative quella sfera gratuita e volontaria in cui vive la partecipazione politica. Un partito politico non è un’impresa. E la partecipazione è mossa innanzi tutto da ideali, speranze per il futuro, desiderio di una vita migliore, grandi opzioni sul mondo di domani.

Alcuni, nel tentativo di dare un nome a questo motore invisibile, e inquantificabile, della partecipazione politica, hanno invocato la necessità di rendere espliciti i valori fondativi del nuovo partito: ma appena la discussione si addentra seriamente in questo terreno, quello delle scelte fondamentali che coinvolgono gli elementi radicali della nostra esistenza (la vita, la morte, gli affetti), si scopre che tra coloro che vorrebbero unirsi nel nuovo Partito Democratico convivono su alcuni temi opzioni talmente diverse da mettere seriamente in crisi l’intero processo.

Diciamolo con tutta franchezza: in una discussione sui valori il progetto di un nuovo partito rischia non solo di bloccarsi, ma di suscitare forze di divisione talmente potenti da vincere qualsiasi argomento ragionevole sulla grande opportunità che verrebbe data, all’Italia innanzi tutto, da un nuovo soggetto politico. Le migliori intenzioni di chi anima il dibattito rischiano di produrre un risultato esattamente contrario a quello atteso: se infatti chiedessimo a tutti coloro che vogliono partecipare alla costruzione del Partito Democratico di marcare con un segno più i valori per loro più importanti e fondativi, quelli per i quali darebbero il massimo del loro impegno personale, l’energia prodotta da questi innumerevoli poli positivi sarebbe interamente impegnata – come in un campo elettrico – ad allontanare tra loro le tante ottime intenzioni.

Di fronte a questo stato di cose ci sono diverse spiegazioni possibili. Diciamo subito che molte di quelle che vediamo circolare ci sembrano incapaci di descrivere il dilemma, e quindi di trovare una via d’uscita. Ad esempio c’è chi, riesumando argomenti neo-ghibellini, sostiene che il problema sia costituito dai numerosi interventi nella vita pubblica della Chiesa, che in questo modo tiene al guinzaglio le coscienze dei cattolici e impedisce loro di dialogare con i laici; e che pertanto l’Italia, proprio perché sede della cathedra di San Pietro, non potrà mai, e così via… Ci sono poi quelli che traggono argomento proprio dall’esistenza di questo dilemma per sostenere l’impossibilità di un partito in cui convergano le forze che oggi si riconoscono nei Democratici di Sinistra e nella Margherita, e quindi (consapevolmente o inconsapevolmente) prefigurano un sistema politico identico a quello della prima fase della Repubblica, in cui l’organizzazione unitaria del riformismo cattolico rappresenti anche la maggiore garanzia per la subalternità politica del riformismo di origine socialista. Infine, c’è chi non si arrende all’evidenza e cerca di convincere delle proprie buone ragioni chi non la pensa come lui: c’è chi afferma, ad esempio, che la laicità dello Stato è un valore razionale e universale, che quindi è collocato su un piano più alto di tutte le altre scelte, comprese quelle religiose; gli si potrebbe forse rispondere che Socrate si è conquistato un posto immortale nella storia con una virtù assai rara, che certo non circola a buon mercato nemmeno tra gli alfieri dello Stato, quando, nel lettino della sua prigione, mise le leggi al di sopra della propria vita e della propria idea del bene.

Ci si può domandare insomma, di fronte a una realtà che non si con forma ai nostri ragionamenti, se sia sbagliata la realtà o se siano sbagliati i ragionamenti. Preferiamo rivedere questi ultimi, e chiederci se non sia il caso di avanzare alcune distinzioni, innanzi tutto terminologiche, tra politica, etica e valori.

 

L’Italia d’inizio millennio: una comunità con poca etica e poca politica

L’esigenza di un richiamo all’etica nella politica ha una ragione oggettiva che è bene esaminare non tanto su un piano generale e normativo, quanto piuttosto nel preciso scenario storico in cui si colloca questa discussione. La nostra comunità nazionale si è scoperta a un certo punto della sua storia non solo in una grave crisi di progettualità politica, ma anche in un profondo vuoto morale. I due fenomeni sono certamente collegati, anche se è bene esaminarli, se pur brevemente, in modo separato.

Finora tutto l’onere della colpa è stato addossato alla politica, accusata, soprattutto nel periodo delle inchieste di Tangentopoli, di scarsa moralità. L’intero sistema politico su cui si era basato lo sviluppo nazionale repubblicano è stato quindi messo sotto accusa e per lo più liquidato. Come sempre avviene nei momenti difficili, il dibattito pubblico ha faticato a mettere a fuoco le ragioni del fallimento dei vecchi partiti. Questi si erano dimostrati inefficienti non, come si è spesso sostenuto, per la troppa ingerenza della politica nella vita sociale (e nei suoi presupposti etici), ma perché troppo poco attrezzati politicamente a dare un nuovo progetto alla nazione: i partiti, e le culture politiche di cui erano portatori, proprio perché ragionavano sempre meno sul futuro, si erano ripiegati sul presente, trovando il loro piano di giustificazione per lo più nell’orgoglio identitario delle loro sottocomunità di riferimento; mentre il legame interno dei gruppi dirigenti è progressivamente slittato dal suo carattere pubblico e politico, a una rete di rapporti e patti personali e privati.

Purtroppo gran parte del dibattito sui partiti seguito ai primi anni Novanta ha spesso ulteriormente amplificato le difficoltà che nascono da un’identificazione troppo stretta di etica e politica, invece che impostarsi su un’analisi più realistica. Quando un campo politico è a vuoto di idee e di progetti, ha sempre una carta di riserva per trovare consenso senza grandi sforzi: fare appello ai valori e alla morale. I propri seguaci si possono sempre galvanizzare a breve termine (il tempo di una campagna elettorale) dicendo loro non come fare meglio degli avversari, ma che sono migliori degli avversari per una qualche ragione (culturale, etica, antropologica o altro). Non è difficile riconoscere che una parte non trascurabile della lotta politica italiana nella cosiddetta seconda Repubblica si è svolta con questi strumenti, trasformandosi rapidamente in guerra di religione.

Una politica che funziona in questo modo è innanzi tutto dannosa di per sé, dal momento che non riesce a mettere la nazione di fronte alle sue vere priorità, ma si serve per lo più di argomenti effimeri e strumentali. Ma c’è un guaio ulteriore: così facendo la politica, invece di rafforzare l’etica civile insistentemente richiamata, la corrode e la impoverisce. Le forze politiche «privatizzano» le basi di eticità che dovrebbero invece costituire uno degli ingredienti della vita associata ed essere potenzialmente condivise dall’intera comunità. E la società poco a poco tende a sgretolarsi; le rimane solo un collante piuttosto debole: la sfera degli interessi materiali. Il politico moralista è quindi, per paradosso, doppiamente immorale: primo perché non dice la verità, secondo perché priva la nazione delle sue necessarie risorse morali.

Tutto questo è avvenuto in un paese che già presentava, accanto alla crisi politica appena citata, una crisi etica molto profonda. Di ciò ci accorgiamo sempre di più con il progredire dei tanti rapporti privati e informali con gli altri cittadini della nuova Unione europea. Scopriamo un’intera sfera che non viene nominata a parole, ma che vive nell’agire quotidiano di tanti europei, in cui ci troviamo spesso «fuori fuoco»: l’attaccamento al lavoro e ai suoi risultati, l’orgoglio di fare bene il proprio dovere, il rispetto per le istituzioni pubbliche, la partecipazione alla vita associata della comunità. Perché in Italia, almeno nella discussione pubblica, tutto questo «non ha valore»?

Come abbiamo detto, non spetta in primo luogo ai partiti, e ai politici, intervenire su tali questioni; o meglio, spetterebbe ai politici tanto quanto sarebbe compito di tutti gli altri membri della società. Ci si potrebbe quindi interrogare sul perché la modernizzazione in Italia si sia indirizzata verso questo esito: chiedersi, ad esempio, perché le classi dirigenti in tutti i settori – nell’impresa, nella cultura, nelle professioni, ecc. – ostentino come unico ideale etico l’opportunismo. Si ha l’impressione che il lavoro sia diventato un male da cui difendersi: cosicché illustri pensatori nazionali si bamboleggiano da più di un decennio in uno sproloquio sulla qualità del tempo libero e sulla fine del lavoro, e nessuno riflette su come il lavoro possa diventare una fonte di rapporti sociali più equi e di crescita personale. Certe volte sembra che l’intera società italiana, invece di pensare a come rendere più viva e soddisfacente la propria attività quotidiana, a come possa ognuno adempiere al meglio alla propria vocazione, sia interamente concentrata ad aspettare le ore e i giorni liberi dal lavoro in cui finalmente poter dar sfogo alle proprie vere passioni (lo sport, i viaggi, il divertimento, la cultura intesa come intrattenimento, ecc.).

Certo, non si può non vedere il fallimento morale di una generazione e di un ceto in particolare: quella borghesia che, dopo aver animato la grande contestazione degli anni Sessanta e Settanta, ora occupa importanti responsabilità proprio nell’industria culturale. Il loro ritratto, anche nei particolari, può essere ritrovato con facilità nei «Demoni» di Dostoevskij. Il nichilismo culturale e morale di questa classe dirigente, profondamente radicato in una certa «ideologia italiana» (soprattutto di matrice attualistica e attivistica), è stato reso più presentabile con una spolveratura di lettura alla moda (presa qua e là nella letteratura internazionale) ed è diventato funzionale all’assenza di qualsiasi scrupolo nella ricerca di carriere individuali rapide in professioni lucrose. Così si è propagandata un’etica ispirata a un edonismo di massa, funzionale in realtà al mantenimento di una rigidità sociale e di una disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza che ha pochi paragoni tra i grandi paesi avanzati.

Alla fine della guerra fredda, quindi, una delle maggiori potenze industriali del pianeta si è scoperta più timorosa dell’avvenire che speranzosa nel futuro. Ha confidato per lo più nei patrimoni privati accumulati dalla generazione precedente, piuttosto che investire nelle nuove opportunità. Anche i settori maggiormente dinamici, le piccole imprese e i distretti industriali, che avevano prosperato per decenni grazie a istituzioni di eticità sostanziale (la famiglia allargata e le relazioni personali e di fiducia dei piccoli centri di provincia), si sono accorti di non essere riusciti a rinnovare le risorse etiche su cui erano prosperati. Questo fattore, assai più della concorrenza straniera, è una delle chiavi per capire la crisi di certi settori produttivi.

In questo vuoto bisogna riconoscere che la Chiesa cattolica è stata una delle poche istituzioni ad aver suonato un campanello d’allarme. Lo ha fatto identificando le sue priorità, che non sono, tanto per essere espliciti, le stesse di chi scrive queste righe. Ma anche se non condividiamo l’analisi dei mali della società italiana compiuta dalla Chiesa, dobbiamo però riconoscere il coraggio e la generosità con cui è intervenuta in questa crisi etica, senza trovare un’uguale coraggio e un’uguale generosità nella cultura italiana e nei maggiori organi del dibattito pubblico nazionale. I «demoni» (con tutto il loro disprezzo ostentato verso le persone per bene) hanno alzato le spalle, e non avendo nulla da replicare su un piano argomentativo e razionale, hanno opposto il loro cinismo silenzioso a una voce che, seppur molto parziale, si è comunque esposta. In Italia il problema della riflessione pubblica sull’etica non è nelle troppe ingerenze della Chiesa, ma nel silenzio quasi completo in cui la Chiesa interviene, con eccezioni solo rare per quanto lodevoli. E a prendere la parola – lo ripetiamo – non dovrebbero essere in primo luogo i politici, ma più generalmente gli animatori della sfera pubblica: gli esponenti della cultura e della scienza, i giornalisti, e – perché no? – gli imprenditori, i tecnici dell’amministrazione pubblica e delle imprese, i banchieri, i lavoratori, i cittadini.

 

Il cemento della società civile, l’individuo morale e il progetto di un partito politico

Se quindi l’Italia si dibatte tra una politica troppo moralista e un’etica troppo politicizzata, metodologicamente è bene ragionare sulle distinzioni.

E la prima distinzione da fare è proprio quella tra il carattere comune e comunitario dell’etica e la natura particolare (o partitica) della politica. Per illustrare il primo punto si può riproporre una vecchia domanda: che cos’è una società? Chi ne nega la natura anche etica, inevitabilmente finisce con lo schiacciare la società nella sola sfera degli interessi e delle utilità personali. Costui risponderebbe in questo modo: gli individui si associano tra loro solo perché è più conveniente vivere assieme che vivere da soli; perché ci sono interessi materiali (di benessere economico) che possono essere soddisfatti soltanto da una comunità sufficientemente vasta. Ma qual è, nella nostra esperienza, una società umana che funziona soltanto in questo modo? Solo una società per azioni, o qualcosa di simile.

Nella società civile vediamo che gli interessi, se hanno un peso enorme, sono sempre affiancati da tanti altri legami: si vive in comunità anche per gli affetti, per il gusto di fare delle cose assieme. Per fare un solo esempio, vediamo spesso gruppi di scienziati che impiegano anni in ricerche, che porteranno loro vantaggi materiali minimi se paragonati allo sforzo fatto: e tutto questo solo per rispondere a una domanda che si erano posti, per contribuire al progresso della comunità scientifica. Siamo cioè tutti consapevoli che solo unendosi le donne e gli uomini hanno costruito i loro obiettivi di giustizia, le loro civiltà, si sono liberati dai vincoli della necessità naturale e hanno costruito la loro libertà.

Una comunità condivide insomma qualcosa di impalpabile (l’etica appunto) e non si fonda solo sul calcolo utilitaristico che ogni individuo può fare (seppure ci riesce in modo sufficientemente preciso) dei vantaggi personali che gli derivano dal vivere sociale. Quindi una comunità nazionale non può non avere un suo cemento etico, anche se poi risulterà composta al suo interno da tante comunità di ordine inferiore: in questo modo si sono formate le nazioni europee, come insieme di cittadini associati, gruppi municipali, sindacati, imprese, movimenti culturali e religiosi, minoranze di vario genere ecc.

Al contrario la politica, per lo meno la politica democratica, si fonda sulla parzialità dei suoi attori: la democrazia è tanto più vitale, quanto più sono forti ed espansive le culture che animano i suoi protagonisti, quanto più è serrato il loro confronto. Così nascono le idee sul futuro, i progetti, le soluzioni sempre migliori ai problemi quotidiani. Ma è necessario fare un’ulteriore distinzione. Nell’epoca moderna l’etica delle nostre comunità non può più essere totalmente unificata, se pure mai lo è stata, e comunque non è più identificabile con la religione. Viviamo in società profondamente pluraliste, in cui accanto all’etica condivisa di cui abbiamo trattato finora, vivono le scelte che gli individui fanno una volta raggiunta l’età della ragione, e che sono tra loro molto diverse.

Per questo ci sembra difficile riassumere l’etica condivisa in una lista di valori. I valori, per loro natura, sono indimostrabili e personali: sono i principi che il singolo, liberamente, si dà come postulati della propria attività pratica. Questo è il motivo per cui è molto difficile un dialogo sui valori: nessuno è disposto a contrattare i propri valori, proprio perché questi, se hanno un «valore», sono principi non negoziabili. Su un tale terreno si rischia sempre un dialogo tra sordi, in cui le parti ripetono le proprie ragioni in modo sempre più raffinato (o con tono della voce sempre più perentorio), senza riuscire ad avvicinarsi tra di loro di un passo.

La pretesa intellettualistica che certi individui hanno di tenere pronta in tasca una ricetta razionale migliore delle altre su cosa si debba o non si debba fare, su cosa è bene e cosa è male, appare talvolta patetica. Comunque, di certo non può convincere nessuno che non sia già convinto: serve solo a cementare un gruppo nelle proprie ragioni. Se l’etica condivisa si basa sul dialogo, sul confronto argomentato, difficilmente questa può situarsi su un piano normativo, come confronto tra diversi imperativi categorici.

Ora, spostandoci di nuovo sul terreno politico, un grande partito di massa – come si immagina debba essere il nuovo Partito Democratico – rifletterà al suo interno tutti (o quasi) gli orientamenti morali presenti in una comunità nazionale. Piuttosto che cercare di ricondurre questo pluralismo a unità, sarebbe meglio rispettarlo. Un’unità morale sarebbe necessaria a un movimento religioso. Ma il partito politico non è una chiesa: e il Partito Democratico non è uno scisma del cattolicesimo. Gli individui si associano in un partito non perché professano tutti i medesimi valori, ma perché vogliono fare delle cose insieme indipendentemente dalle loro credenze individuali. Un Partito Democratico, insomma, non può che essere un partito profondamente pluralista.

 

Per un’etica condivisa del lavoro e del dialogo, per un Partito Democratico

Torniamo in conclusione al punto da cui avevamo preso le mosse: non è un caso se una discussione sui principi etici del nuovo Partito Democratico si presenti al momento così rischiosa e potenzialmente così distruttiva. Il fatto è che questa mette insieme esigenze diverse, che se hanno delle affinità sul piano pratico, non possono che essere affrontate, almeno come metodo, in livelli distinti del ragionamento.

Da un lato si colloca una riflessione che auspichiamo quanto mai urgente e profonda sull’etica civile in Italia, in grado se non altro di far sorgere alcune domande fondamentali nella nostra comunità sociale. Una riflessione che dovrebbe presentarsi in forma dialogica, come confronto tra posizioni argomentabili, e che sia in relazione con la vita pratica delle persone, con il loro lavoro e le loro responsabilità sociali.

Dall’altro c’è il processo di costruzione di un partito: non c’è dubbio che, se il progetto del Partito Democratico muoverà più decisamente i suoi passi, tanti italiani vorranno volontariamente dare il loro contributo mossi dalle esigenze più diverse: alcuni di loro saranno spinti da motivazioni e aspirazioni espresse in forme molto semplici e non chiaramente articolate, inizialmente conflittuali tra loro. Non per ciò queste motivazioni e queste aspirazioni possono essere derise, o guardate con sufficienza; andranno anzi incoraggiate e comprese, e a loro dovranno essere date risposte. Il nuovo partito sarà veramente democratico e veramente nazionale innanzi tutto se riuscirà a dare cittadinanza a diverse scelte morali, costituendosi come un campo pluralista in cui possano convivere le tante scelte individuali dei suoi aderenti. Ma soprattutto, in tanti cercheranno nel Partito Democratico una cultura politica e degli strumenti organizzativi per trasformare le proprie motivazioni iniziali alla politica in un’attività pratica che sia capace di cambiare le cose e di raggiungere i risultati che si prefigge. Ciò che vorranno coloro che aspirano a un mondo migliore, è proprio di riuscire a costruire un mondo migliore. E per questo sono necessari gli eredi delle culture politiche più vitali dell’Italia repubblicana: per fare un partito politico, appunto.