Riforma elettorale: un dibattito confuso

Di Valerio Onida Giovedì 28 Febbraio 2008 22:36 Stampa

Nel dibattito attualmente in vigore sulla riforma elettorale, in cui è condivisa la necessità di ridurre la frammentazione del quadro dei partiti e di favorire soluzioni omogenee e coerenti di governo, è necessario chiedersi quali siano i veri nodi della discussione. La scelta dovrà essere effettuata tra un sistema rigido o uno flessibile, e su come comportarsi nel caso nessuno raggiunga alle elezioni la maggioranza dei voti. A queste considerazioni si affiancano le necessarie riflessioni sul “mito” del governo eletto dai cittadini, sul ruolo del premier e sulla eventuale necessità di riforme costituzionali.

Un dibattito confuso L’eterna discussione sulla riforma elettorale rischia di risultare sempre più incomprensibile, oltre che stucchevole, per i lettori, smarriti tra modelli di origine straniera (tedesco, spagnolo, francese…), slogan di incerto significato (come “salvare il bipolarismo” o simili), tecnicalità di difficile decifrazione per i non addetti ai lavori, intrecci (e confusioni) fra problemi della legislazione elettorale e proposte di riforma costituzionale.

Alcune conclusioni sono tuttavia possibili. La legge in vigore, inopinatamente approvata alla fine della scorsa legislatura, non è affatto buona, né tantomeno è migliore di quella precedente, ma vi è chi è interessato a conservarla, altrimenti già da mesi sarebbe stata abrogata, magari col semplice e provvisorio ripristino della precedente. Le divisioni di interessi non si collocano solo (o tanto) sul crinale fra attuale maggioranza e attuale opposizione, ma, all’interno dei due schieramenti, fra partiti grandi e piccoli, nazionali e locali, più o meno facilmente “coalizzabili”. I rapporti all’interno degli schieramenti, nonché le ripercussioni previste o temute della riforma e della sua approvazione sul governo, la legislatura e la sua sorte, ostacolano fortemente qualsiasi accordo. Il referendum non è in grado di modificare più di tanto la logica dell’attuale sistema, e in particolare non riduce affatto (e an- zi semmai aggrava) quello che l’elettore comune considera uno dei più gravi difetti della legge attuale, cioè l’assenza di legami diretti fra elettori ed eletti, scelti in sostanza dagli apparati centrali dei partiti. Sull’ipotesi referendaria – appesa ora alla sorte della legislatura (lo scioglimento delle Camere ne produrrebbe automaticamente il rinvio di un anno) e in ogni caso al raggiungimento del quorum – si gioca una partita per nulla chiara fra chi auspica semplicemente uno stimolo alla riforma (anche se finora il referendum è forse stato addirittura un freno), chi comunque apprezza il sistema che ne uscirebbe e chi invece lo considera peggiore o comunque non migliore dell’attuale.

L’alternativa: un sistema rigido o uno flessibile?

Come orientarsi allora? Quali sono i veri nodi? Il nodo principale, sebbene nascosto da una certa ritrosia a parlarne apertamente, appare essere il seguente. Posto che il problema è quello di ridurre la frammentazione del quadro dei partiti e di favorire soluzioni di governo omogenee e coerenti, l’alternativa che si pone concretamente è fra sistemi elettorali che costringano, prima del voto, alla ricerca delle alleanze più ampie possibile per vincere, e, dopo il voto, costringano a governare uno solo dei due schieramenti così come sono oggi, e sistemi elettorali che consentano anche soluzioni di governo diverse, a seconda degli esiti elettorali e delle possibilità e opportunità politiche concrete. Il sistema attuale è nettamente del primo tipo, perché mettendo in palio un decisivo premio di maggioranza e creando vincoli di coalizione fra gli alleati nell’ambito di ciascuno dei due schieramenti, obbliga a governare con la coalizione numericamente vincente, quale che essa sia, e a erigere muri di sbarramento tra le due coalizioni.

Esistono invece sistemi elettorali che, pur discostandosi dal proporzionalismo puro, consentono di cercare con maggiore elasticità le soluzioni di governo più omogenee e quindi più efficienti, senza rigidi condizionamenti preventivi. È intuitivo che, quando si va alle elezioni, ogni partito considera a priori ottimale l’ipotesi di essere posto in grado dagli elettori di governare da solo: si suppone che questo assicurerebbe nel modo miglio- re (anche se non è sempre detto) la coesione del governo.

Berlusconi, quando si lamentava dei condizionamenti da parte dei suoi alleati, diceva apertamente «Date a me il 51% dei voti, e governerò meglio». A sua volta il neonato Partito Democratico, quando avanza una propria “vocazione maggioritaria”, si muove in modo non dissimile. Modo in sé ragionevolissimo, se si prescinde dal merito delle proposte politiche (per cui, ad esempio, molti possono giudicare funesta l’ipotesi che uno di questi partiti occupi da solo tutta l’area di governo).

Che fare se nessuno ha la maggioranza dei voti? Le condizioni di un maggioritario “puro”

Ma il fatto è che i risultati elettorali non seguono quasi mai i desideri dei protagonisti, mostrando una distribuzione delle preferenze degli elettori incompatibile con simili aspirazioni. Se nessuno è in grado da solo di raggiungere il 51% dei voti, le strade possono essere tre: o si dà vita a coalizioni preventive, così da conseguire quel risultato maggioritario che i singoli partiti non sono in grado di raggiungere, anche sacrificando l’omogeneità. O si trasforma in maggioranza una minoranza, attraverso le tecniche elettorali (collegio uninominale ed elezione a un turno, premio di maggioranza alla lista più votata), e in minoranza (parlamentare) la maggioranza (elettorale) costituita da tutti gli altri. Oppure, infine, si adotta un sistema che consenta di cercare maggioranze il più possibile omogenee sulla base dei risultati elettorali effettivi.

La prima è la strada seguita dalla legge in vigore e gli effetti perversi sono sotto gli occhi di tutti: coalizioni ampie ma eterogenee, competizione feroce fra le due coalizioni ma divisione interna delle stesse e dunque degli schieramenti di governo. La seconda è la strada propugnata dai maggioritari puri, ed è ad esempio quella del sistema elettorale britannico, in cui un partito del 36% ottiene la maggioranza assoluta in parlamento e un partito del 23% (il Partito liberaldemocratico, ad esempio) può restare del tutto o quasi privo di rappresentanza. Sarebbe anche la soluzione emergente dal quesito referendario, se non fosse sin troppo facile aggirarla con la formazione di liste di concentrazione o di coalizione. I fautori di questa strada dovrebbero però fare i conti con due aspetti essenziali. Il primo è che un sistema del genere può funzionare forse quando l’esito elettorale sia il frutto di tante distinte competizioni in collegi uninominali, ove ogni ristretto gruppo territoriale di elettori esprime il “suo” deputato; molto meno può reggere se l’esito della competizione è determinato su scala nazionale, trasformando programmaticamente una minoranza numerica in maggioranza parlamentare. Dunque, questa strada dovrebbe condurre semmai ad adottare il sistema inglese nella sua integralità. In secondo luogo, e soprattutto, una soluzione di questo tipo può reggere solo quando le principali proposte potenzialmente vincenti (ma minoritarie, non maggioritarie, nel paese) si presentino come “tollerabili” anche da parte di larga parte dell’elettorato che preferisce altri partiti. Nessuna di esse cioè deve presentarsi con caratteri di radicalità o di estremismo (in vario senso, non solo nella variante destra-sinistra) tali da far considerare, alla maggior parte degli elettori che non hanno scelto il partito vincente, la presa del potere da parte di una minoranza come una sciagura e una prepotenza, e non come una occasionale sconfitta in una partita che continua. E possiamo dire che oggi in Italia non ci sono queste condizioni.

La terza via: alla ricerca di coalizioni più coerenti

Resta allora la terza strada, la ricerca di soluzioni di coalizione più coerenti e coese possibile, sulla base dei risultati effettivi delle elezioni. Non è detto che queste soluzioni risultino a priori definite già quando i partiti si presentano all’elettorato. Ci sono circostanze storiche nelle quali un programma di governo coerente e condiviso può risultare più da patti fra avversari politici che non da accordi fra forze apparentemente più affini fra loro, ma aspramente in competizione per il consenso e il potere. Dopo le ultime elezioni in Germania si delineavano dal punto di vista numerico diverse possibilità di coalizioni di governo, e fra esse i maggiori partiti hanno scelto la “grande coalizione”: forse non la più coerente in astratto, ma in concreto quella che ha consentito di dar vita ad un indirizzo politico di governo.

In Italia, occorrerà pur dire che, al di là delle preferenze che ciascuno può nutrire, potrebbe in concre- to presentarsi, secondo le circostanze, più coerente ed efficiente un’ipotesi di governo formato dalla confluenza di una parte maggioritaria dell’attuale maggioranza (il Partito Democratico) insieme ad una parte minoritaria dell’attuale opposizione (quella di orientamento più centrista), che non un’ipotesi fondata su una delle due attuali coalizioni. Ma questa possibilità (e va sottolineato: possibilità) viene di fatto resa impraticabile dall’attuale sistema, che costringe le due coalizioni contrapposte a presentarsi come integralmente e rigidamente alternative fra di loro. Verrebbe invece resa praticabile da un sistema che escludesse la necessità della formazione preventiva di coalizioni. O, ancora: una “ristrutturazione” delle forze politiche a prescindere dai rapporti di alleanza è resa più difficile dall’esigenza di formare coalizioni preventive a tutto campo in vista del premio di maggioranza, mentre potrebbe essere facilitata da un sistema meno rigido. Allora, ha senso gridare al “leso bipolarismo” se semplicemente si constata che potrebbe (e va sottolineato: potrebbe) rivelarsi utile consentire diverse dislocazioni delle forze politiche in vista della formazione di una maggioranza il più possibile coerente e coesa?

Il mito del governo eletto dai cittadini

Di fronte a ipotesi di questo genere, si oppone spesso il mito del governo scelto dai cittadini. Si dice: se l’esito elettorale non determina in modo vincolante una e una sola soluzione di governo, i cittadini sono espropriati del loro diritto di “eleggere il governo”.

Ma l’obiezione non è convincente. In primo luogo, il sistema parlamentare previsto dalla Costituzione non contempla affatto la scelta formalmente vincolante del governo attraverso le elezioni delle camere: essa può essere invece, e per lo più è, un effetto politico discendente dal modo in cui gli elettori si esprimono. Un automatismo nella formazione del governo sulla base del solo risultato, formalmente vincolante, delle elezioni non ha luogo né in Gran Bretagna (dove esso di fatto consegue al concentrarsi della maggior parte dei voti su due soli partiti), né in Francia (dove se per ipotesi le elezioni legislative avessero premiato i centristi di Bayrou si sarebbe potuta avere una maggioranza parlamentare, e quindi un governo, non monocolore), né in Spagna (dove l’alternarsi dei due maggiori partiti al governo è stata l’effetto di scelte politiche degli elettori, e non di un costrittivo meccanismo elettorale), né ovviamente in Germania (dove, come si è detto, il sistema elettorale consente e ha consentito di fatto diverse formule governative).

Ma, in secondo luogo, quello della elezione del governo da parte degli elettori, in un sistema pluripartitico come il nostro, è un mito, nel senso che non corrisponde alla realtà nemmeno da un punto di vista di sociologia elettorale. Gli elettori, votando per il partito di loro scelta, gli conferiscono evidentemente il mandato a governare da solo, se i risultati lo consentono; ma, in caso contrario, è assai discutibile che il voto possa essere letto come una vera scelta a favore della (sola) “coalizione preventiva” in cui il partito ha voluto o dovuto inquadrarsi, e contro altre possibili coalizioni nelle quali il partito prescelto potrebbe risultare di fatto in grado di tradurre nella maggior misura possibile i propri postulati programmatici. In realtà, nei sistemi (come l’attuale) di coalizioni “obbligate”, agli elettori non è data alcuna scelta circa lo schieramento di governo preferito: c’è solo la necessità di favorire una delle due coalizioni preventivamente formate al fine di conseguire il premio di maggioranza. Anche il rito del programma comune, magari prolisso e ambiguo, non basta certo a fare della coalizione preventiva l’oggetto di una scelta dei cittadini.

La scelta viene effettuata dai partiti, cercando di formare una coalizione più larga possibile e perciò potenzialmente vincente. Dopo le elezioni, la fedeltà dei partiti alla rispettiva coalizione preventiva e ai suoi caratteri fondamentali non è in realtà fedeltà ad un mandato degli elettori (gli elettori dei singoli partiti potrebbero anche essere desiderosi di vedere cambiamenti negli schieramenti che consentano una maggiore influenza del proprio partito, ovvero una posizione politica di questo più aderente alle proprie preferenze). È piuttosto fedeltà ad un “auto-limite” che i partiti si sono dati, e che in sostanza sono stati obbligati a darsi proprio in funzione del sistema elettorale. Vi è da domandarsi se questo genere di fedeltà obbligata conferisca davvero al sistema una maggiore democraticità, ossia una maggiore aderenza dell’azione politica alle preferenze degli elettori, o invece soltanto una maggiore rigidità, e dunque incapacità di adattare l’azione politica alle circostanze.

Perché la riforma elettorale non richiede nessuna riforma costituzionale

Come si vede, si è discusso finora della riforma elettorale, senza alcun riferimento a riforme costituzionali. Per due ragioni semplicissime: perché, come è noto, la Costituzione vigente non condiziona la scelta dei sistemi elettorali (se non nel senso di esigere sistemi rispettosi dei principi fondamentali della democrazia rappresentativa, e cioè dell’obbligo, sancito dall’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di «organizzare, ad intervalli ragionevoli, elezioni libere a scrutinio segreto in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo»); e perché non si dovrebbe legare la riforma elettorale a nessuna modifica della Costituzione. Questo, anzi, sembra essere uno degli elementi di confusione dell’attuale dibattito.

C’è bensì il problema del Senato, la cui trasformazione in camera rappresentativa delle autonomie comporterebbe, come è ovvio, il venir meno del sistema elettorale attualmente previsto e di ogni altro sistema di elezione a suffragio diretto. Questo è un problema di riforma costituzionale, ma del tutto indipendente dalla scelta del sistema elettorale, che in tale ipotesi riguarderebbe la sola Camera dei deputati.

Se invece così spesso il dibattito sulla riforma elettorale si intreccia con la discussione su ipotesi di riforme costituzionali è solo perché, da varie parti, si pensa di affrontare i problemi del nostro sistema politico – la frammentazione e la difficoltà di comporre coalizioni di governo coerenti e coese – non già attraverso il sistema elettorale, che riguarda solo il modo di espressione del voto e di traduzione dei voti in seggi nelle assemblee legislative, ma incidendo sulle regole del sistema parlamentare accolto nella Costituzione. In concreto, la stabilità e la compattezza dei governi, secondo taluni, dovrebbe assicurarsi attraverso la figura di un premier eletto in modo sostanzialmente diretto (come era previsto, non va dimenticato, nel progetto respinto dal referendum del 25 giugno 2006). La sua scelta non dovrebbe dipendere dagli equilibri determinati dalle elezioni nella composizione del parlamento, ma dovrebbe discendere in modo formalmente e non solo politicamente vincolante dall’espressione del voto (questo significa elezione sostanzialmente diretta). Sarebbe la maggioranza uscita dalle elezioni a doversi adeguare alla volontà del premier, e non questi ad esprimere un equilibrio di maggioranza risultante dall’esito del voto. Ora, il premier rappresenta il vertice e la sintesi dell’esecutivo («Dirige la politica generale del governo e ne è responsabile», secondo quanto recita l’articolo 95 della Costituzione). Nel sistema parlamentare, l’indirizzo del governo, di cui il premier è espressione e garante, si regge sul consenso della maggioranza parlamentare, espresso nel rapporto di fiducia. Finché c’è la fiducia, il governo è legittimato a portare avanti la sua politica. Se viene meno la fiducia, il governo e il premier debbono cambiare e, in mancanza di alternative, si deve tornare al voto (scioglimento anticipato delle camere).

Ovviamente le cose stanno diversamente nei sistemi che non adottano il parlamentarismo, in cui cioè l’esecutivo, e in particolare il suo vertice monocratico, ha una legittimazione anche elettorale autonoma rispetto al Parlamento. In siffatti sistemi, però, il Parlamento resta dominus della legislazione, e quindi si pone il problema di come assicurare congruenza fra l’indirizzo (autonomo) dell’esecutivo e le scelte legislative, quel problema che il sistema parlamentare risolve appunto attraverso il rapporto fiduciario.

Superare il bipolarismo bloccato senza ricorrere alla “dittatura elettiva”

Nei sistemi presidenziali esecutivo e legislativo sono poteri non solo distinti, ma potenzialmente contrapposti, e il coordinamento può essere perseguito solo per via di confronti e accordi politici. In Italia, da qualche decennio, vengono invece periodicamente affacciate soluzioni costituzionali che non hanno nulla a che fare con il presidenzialismo (quanto uso improprio delle parole!), ma tendono, da un lato, a fornire il capo dell’esecutivo di una sua autonoma legittimazione elettiva, dall’altro invece a conservare e potenziare in capo allo stesso gli strumenti tipici che in regime parlamentare servono al governo per guidare le scelte della maggioranza in Parlamento (voti bloccati sulle proposte del governo, questione di fiducia, scioglimento anticipato delle camere). Il presupposto (anche se non sempre espresso) è che la difficoltà a trovare accordi politici stabili e coerenti attraverso la formazione di maggioranze parlamentari sia risolvibile solo affidando un potere di decisione solitaria a un premier eletto direttamente, a cui si consegnerebbe non solo il potere esecutivo, ma anche, in sostanza, il potere legislativo. Questo, non altro, è il “premierato assoluto” prefigurato in tante proposte, anche nel progetto di riforma respinto dal referendum del giugno 2006. In concreto, è l’ipotesi del “dittatore illuminato” (elettivo, s’intende) che dovrebbe ridurre con la sua solitaria volontà l’eccesso di complessità sociale che non consentirebbe di realizzare buone politiche.

Tutt’altra cosa è l’eventualità di puntuali modifiche costituzionali dirette a stabilizzare ulteriormente la posizione del governo, ma nell’ambito del sistema parlamentare (sfiducia costruttiva, voto di fiducia in capo al solo premier, potere di questi – peraltro già oggi ricavabile dalla Costituzione – di proporre la revoca dei ministri). Ciò che non sarebbe invece compatibile col mantenimento del sistema parlamentare è la previsione di una legittimazione elettiva autonoma del premier: questa, recidendo il cordone ombelicale fra governo e maggioranza parlamentare, altererebbe radicalmente il sistema portando dritti sulla strada del “dittatore elettivo”. Ecco perché i tentativi di inserire nella legge elettorale elementi “spuri”, come la previsione di una preventiva designazione del candidato premier da parte dei partiti o delle coalizioni, dovrebbero essere nettamente respinti. La Costituzione vigente non prevede alcun nesso formale tra l’elezione delle camere e la formazione del governo (disciplinata dagli articoli 92 e 94); e se tali tentativi costituissero le premesse per promuovere modifiche della Costituzione, a maggior ragione andrebbero respinti, perché pericolosi in sé e perché inciderebbero indebitamente sul quadro costituzionale.

La Costituzione lascia ampia possibilità di scelta in materia di sistemi elettorali, ed è bene che resti così. È attraverso la scelta del sistema di elezione del Parlamento che è possibile perseguire gli obiettivi, ampiamente condivisi, di contrastare l’eccesso di frammentazione del sistema politico e di superare un bipolarismo “bloccato” e foriero di coalizioni incoerenti e rissose. Gli strumenti non mancano.