Il regionalismo tra processi federali e sistema dei partiti

Di Raffaele Bifulco Giovedì 02 Luglio 2009 18:02 Stampa

Nella scelta italiana a favore dello Stato regionale e ora a favore del federalismo un ruolo determinante ha avuto il sistema politico. Nel nostro paese, infatti, il processo federale, svolto per dissociazione, è stato in gran parte governato o in qualche misura condizionato dai partiti. Negli anni Settanta e nel corso degli anni Novanta il sistema dei partiti ha utilizzato la “periferia” per rivitalizzare se stesso o, comunque, per “delocalizzare” la crisi che lo avvolgeva.

 

 

Regionalismo italiano e sistema dei partiti

L’approvazione della legge 42/09, recante delega al governo in tema di federalismo fiscale, rappresenta un ulteriore passo in avanti verso l’applicazione del modello costituzionale di autonomia regionale e locale. La legge, che dà attuazione all’articolo 119 della Costituzione, rappresenta altresì l’occasione per fare il punto sulle ragioni della scelta a favore dello Stato regionale, compiuta prima dall’Assemblea costituente e rinnovata poi dalle forze politiche attive in quest’ultimo decennio.

Il regionalismo italiano, per tutta la seconda metà del Novecento, si è infatti sviluppato secondo le esigenze e i ritmi istituzionali imposti da un sistema di partiti simmetrico e accentrato, ma le più recenti evoluzioni mostrano una tendenza all’asimmetria. Per ridare senso al regionalismo italiano e per evitare una eccessiva regionalizzazione del sistema dei partiti, è necessario porre mano ad alcune modifiche riguardanti la struttura di questi ultimi e le istituzioni delle relazioni intergovernative.

Strumentale rispetto alla configurazione di tale tesi appare un confronto con il ruolo del sistema dei partiti all’interno degli Stati federali più consolidati.

 

Vecchi e nuovi processi di federalizzazione

Lo Stato federale – a differenza del federalismo, che è fenomeno molto più antico – è espressione dell’epoca moderna.1 La costituzione degli Stati Uniti rappresenta il modello che ha influenzato gli Stati federali anglosassoni (Canada e Australia), e non solo (Svizzera). Se assumiamo come pietra di paragone i processi che hanno portato alla formazione di questi Stati, possiamo ben dire che lo Stato federale ha rappresentato l’esito di processi aggregativi: più entità statali, fino a quel momento dotate del carattere della sovranità, decidono di unirsi per dar vita a un’entità statale superiore e comprendente. Per quanto fondato su presupposti molto diversi rispetto al modello statunitense, anche lo Stato federale tedesco si forma per associazione (più complessa è invece la qualificazione dello Stato austriaco).

Sono questi processi storico-istituzionali – che si sono in parte intrecciati con le vicende del costituzionalismo moderno – l’oggetto di studio delle teorie giuridiche, politologiche, economiche, filosofiche che si sono occupate del federalismo e dello Stato federale. All’origine delle teorie federali più influenti e accreditate vi sono, in altre parole, i processi federali per associazione o per aggregazione.

Ciò spiega la difficoltà di inquadramento teorico di fenomeni storici nuovi, diversi nella loro genesi e nella loro dinamica, anche se simili nella finalità, rispetto a quelli che intanto erano divenuti i modelli federali par excellence. Il riferimento è a quelle vicende che si sono snodate nel corso della seconda metà del Novecento, soprattutto nella vecchia Europa, producendo fenomeni simili, nella sostanza, a quelli dello Stato federale tradizionale: la Spagna e l’Italia prima, il Belgio e il Regno Unito poi, sono tutti esempi di Stati unitari che si frammentano e danno vita a entità statali decentrate, molto simili a quelle del classico modello federale (i cosiddetti federalismi per dissociazione o disgregazione).

Gli studiosi delle forme di Stato si sono affannati a cercare analogie e differenze tra i più risalenti federalismi per associazione e i più recenti fenomeni di federalismo per dissociazione, elaborando classificazioni che tendono ad affermare l’omogeneità dei fenomeni ovvero la loro diversità. I costituzionalisti meno formalisti e gli scienziati della politica (si pensi a Carl Joachim Friedrich per un verso e a Daniel J. Elazar per un altro) hanno elaborato categorie che cercano di ricondurli ad una base comune. L’esempio forse maggiormente noto è l’inquadramento del federalismo come dimensione dinamica e processuale, attraverso la quale un certo numero di organizzazioni politiche separate partecipa ad un accordo riguardante problemi comuni ovvero, in alternativa, una comunità politica precedentemente organizzata in modo unitario si differenzia in un numero di comunità politiche differenziate.2 Nella categoria del federalismo come processo le differenze relative alla natura associativa o dissociativa tendono a sparire.

 

Stati federali per associazione e Stati federali per dissociazione

Queste elaborazioni, per quanto preziose dal punto di vista formale, non riescono a cogliere completamente le ragioni dei fenomeni dissociativi. Basta dare uno sguardo alle cause che le diverse scienze sociali hanno posto all’origine degli Stati federali per convincersi che nessuna di esse si adegua pienamente alla realtà italiana, che può ben essere considerata, se osservata in prospettiva diacronica, un processo federale per dissociazione.

Nessuno dei tipi di conflitto, alla cui soluzione mira il compromesso federale, è presente sul territorio italiano: non quello storico (vale a dire la preesistenza di entità sovrane), non quello spaziale (vale a dire il conflitto per la conquista di spazi), non quello economico, non quello socioculturale, e neppure quello politico-culturale. A comprendere questi più recenti fenomeni di dissociazione non aiutano neppure le spiegazioni di tipo più prettamente economico, poste a base del cosiddetto federalismo fiscale, secondo cui i governi locali, per la loro maggiore vicinanza alle comunità locali, garantirebbero un miglior soddisfacimento delle preferenze dei residenti nella giurisdizione.3

Non si vuole certo negare che in altri processi di federalizzazione – emblematico il caso del Belgio – siano state proprio le differenze etniche, linguistiche e socioculturali a spingere verso la soluzione federale. Certo, questo non è il caso dell’Italia. Tale carenza esplicativa è probabilmente da ricondurre alla circostanza sopra richiamata per cui le più note teorie sul federalismo sono state elaborate avendo presente il processo per associazione e non quello per dissociazione.4

È allora possibile aggiustare il tiro, cercare di allargare il campo di osservazione per provare a tracciare una spiegazione più convincente dei recenti fenomeni di scomposizione di Stati unitari? Quali sono, in queste esperienze, le ragioni della scelta federale? Si tratta di un passo preliminare e necessario per interrogarsi poi sul significato della scelta federale italiana. L’ipotesi che si vuole formulare, soggetta ovviamente a verifica e a falsificazione, è che il “fattore partitico” svolga un ruolo eziologico decisivo nella comprensione dei più recenti fenomeni di federalizzazione per dissociazione.

Se osserviamo infatti il rapporto tra processi federali e partiti in una prospettiva diacronica, ci accorgiamo che negli Stati federali tradizionali il sistema dei partiti, nel senso moderno nel quale utilizziamo tale locuzione, si è sviluppato successivamente rispetto alla definizione della struttura costituzionale. 5 In altri termini, in questi Stati il sistema dei partiti è nato ed è cresciuto in un contesto, in una ambiance di tipo federale e comunque successivamente all’instaurazione della struttura costituzionale federale. Ciò naturalmente ha avuto conseguenze di assoluto rilievo sullo sviluppo del rapporto tra forma di Stato e sistema dei partiti: in particolare, i partiti hanno assunto un’organizzazione interna di tipo decentrato e in qualche caso il sistema dei partiti stesso si è sviluppato in senso lievemente asimmetrico.

Se ora spostiamo lo sguardo ai più recenti fenomeni di federalismo per dissociazione, lo scenario è completamente differente. I processi di dissociazione, che possono portare a modelli di decentramento molto diversi tra loro per forme e per intensità di autonomia concessa ai livelli di governo regionali, interferiscono con partiti accentrati e collocati all’interno di sistemi di partito simmetrici. In alcune ipotesi i partiti riescono a conservare la struttura, l’organizzazione e la fisionomia originarie, come è accaduto in Italia, Spagna, Regno Unito e Canada. In altre parole, i partiti mutano in profondità in conseguenza del processo federale, come in Belgio; comunque sia i partiti sono tra i principali attori della scelta federale. Non è un caso se è all’interno di questi processi che si sviluppa un fenomeno completamente nuovo e dirompente rispetto ai modelli federali tradizionali, vale a dire la comparsa dei partiti regionali, che sono invece sostanzialmente assenti negli Stati federali tradizionali (con l’eccezione del Canada). Questo nuovo tipo di formazioni partitiche è indice, in altri termini, di una “mutazione” del partito in ragione di linee di divisione legate al territorio.

Provando a sintetizzare quanto finora sostenuto si può dire che a differenza dei processi federali per associazione, che hanno portato alla costituzione degli Stati federali tradizionali, i processi federali per dissociazione, svoltisi in Europa nella seconda metà del Novecento, sono governati o comunque condizionati dal sistema dei partiti.

 

Il condizionamento dei partiti sul regionalismo italiano

È possibile verificare questa ipotesi teorica nella realtà italiana. Premesso che il federalismo ha anche in Italia nobili ascendenze, come dimostra il dibattito in Assemblea costituente, che registra la presenza di fervidi sostenitori dell’idea federale e del programma regionalistico della DC, è difficile negare che le aspirazioni all’autonomia regionale della DC abbiano trovato adeguata soddisfazione solo dopo la crisi del maggio-giugno 1947, con l’estromissione del PCI dal governo. Ciò evidenzia che, fin dal suo nascere, il regionalismo italiano è risultato condizionato da precise scelte strategiche del fattore partitico. Una tale impronta genetica si è riflessa in tutti i successivi snodi storici dell’Italia repubblicana. La mancata istituzione delle Regioni ad autonomia ordinaria, protrattasi fino all’inizio degli anni Settanta, è infatti il frutto di una scelta preordinata e consapevole del più grande partito di maggioranza. In proposito non si sottolineerà mai abbastanza che lo sviluppo del regionalismo e lo stesso sistema dei partiti sarebbero stati molto differenti se le Regioni ad autonomia ordinaria fossero state prontamente istituite.

Il fattore partitico è anche all’origine dell’istituzione delle Regioni ad autonomia ordinaria e delle riforme costituzionali del 1999-2001. In entrambi i casi il processo federale è ripartito in coincidenza con uno dei momenti di maggiore crisi del sistema politico e partitico. Come accadde negli anni Settanta,6 anche nel corso degli anni Novanta il sistema dei partiti ha utilizzato la “periferia” per rivitalizzare se stesso o, comunque, per “delocalizzare” la crisi che lo avvolgeva. Nelle due fasi istituzionali, dunque, il rilancio dell’autonomia regionale si spiega con l’esigenza di riattivare circuiti politici malfunzionanti e di ridare legittimazione al sistema politico attraverso una rinnovata partecipazione dei cittadini alle scelte della politica, almeno in sede locale.

 

La discontinuità rispetto al passato: la Lega Nord

A questo punto dell’esposizione, è necessario constatare che il sistema dei partiti ha usato l’autonomia regionale e degli enti locali per curare i propri mali e per tenere a bada un attore politico, la Lega Nord, che ha fatto del territorio e del federalismo la propria missione politica. In termini più generali, l’impressione che si ricava dagli eventi appena ricordati è che le accelerazioni del processo federale italiano siano in gran parte dovute a spinte provenienti dal sistema dei partiti e, solo parzialmente, da spinte legate ai territori e ai livelli di governo substatali. A conferma di questa intuizione vi è la constatazione della permanenza, in Italia, di un’organizzazione partitica molto accentrata e di un sistema dei partiti ancora simmetrico. Non si è assistito, per ora, alla formazione di un numero rilevante di partiti regionali, come invece è accaduto in Spagna, Belgio e Regno Unito.

E tuttavia, guardando a ciò che accade intorno a noi, vi sono segnali che richiedono una rinnovata sensibilità ai cleavages legati alle istanze territoriali. La presenza della Lega Nord costituisce una rilevante novità, in quanto ha introdotto, per la prima volta, un elemento di asimmetria nel sistema dei partiti. La sua presenza nel panorama politico italiano è stata all’origine del processo di ulteriore decentramento territoriale: le due riforme costituzionali del 1999 e del 2001 devono molto all’“attivismo federale” della Lega Nord; ad essa si deve, in fondo, l’approvazione della legge 42/09 sul federalismo fiscale. Insomma, la Lega Nord, in quanto partito regionale e legato a una parte del territorio nazionale, segna un elemento di discontinuità nel sistema italiano dei partiti. La decisa affermazione del Movimento per le Autonomie in Sicilia è ancora troppo recente per potere esprimere un giudizio sul suo effettivo radicamento territoriale.

L’influenza dei territori sulla logica partitica, per quanto ad uno stato ancora iniziale, può assumere una duplice direzione. La prima è endogena rispetto al sistema dei partiti, riguarda la loro struttura e si traduce nell’apertura dell’organizzazione del partito alle istanze dei livelli di governo periferici. Essa andrebbe salutata positivamente in quanto, da un lato, permetterebbe ai partiti di essere presenti sull’intero territorio nazionale e, dall’altro, consentirebbe loro di esprimere le esigenze dei territori. Il modello di riferimento è rappresentato dai sistemi di partito presenti nei più risalenti Stati federali, come la Repubblica federale di Germania, la Svizzera, l’Australia.

La tendenza alternativa è molto più pericolosa perché non porta ad un rinnovamento dei partiti esistenti, ma alla loro implosione accompagnata dalla nascita di partiti regionali. Una tale evoluzione implicherebbe un’asimmetria del sistema partitico in grado di condizionare negativamente il funzionamento dell’intero sistema politico. I modelli di riferimento, in questo caso, sono la Spagna, il Belgio, il Canada e il Regno Unito, per citare le esperienze storiche più note.

 

Decentramento dei partiti e riforma del bicameralismo

Se l’analisi è corretta, diventa dunque imprescindibile evitare derive centrifughe. A tal fine sembrano essere a disposizione due rimedi. Il primo chiama in causa i partiti medesimi, obbligandoli a prendere atto della necessità di decentrare le proprie strutture organizzative e di aprirsi così alle istanze differenziate dei territori. In proposito vanno segnalati due aspetti particolarmente innovativi dello statuto del Partito Democratico: la sua qualificazione come federale e la previsione di una struttura decentrata che poggia sui livelli regionali.

Il secondo riguarda il più importante organo costituzionale della nostra Repubblica: il Parlamento. È infatti necessario portare a termine quanto si è solo “promesso” con l’articolo 11 della legge costituzionale 3/01, con la quale si è profondamente revisionato il Titolo V della Parte II della Costituzione, vale a dire la trasformazione del Senato in una camera delle Regioni e/o delle autonomie territoriali. Del resto, la circostanza che entrambi gli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra affermino di volere questa trasfor - mazione è sintomo della consapevolezza della necessità di questa innovazione e della possibilità di un incontro bipartisan sulla questione (nonostante le indubbie difficoltà legate alla naturale resistenza dei senatori).

La realizzazione di questa riforma, oltre a dimostrare la capacità del sistema politico nazionale di aprirsi alle esigenze di una società profondamente cambiata rispetto a quella del secondo dopoguerra, riuscirebbe ad imprimere un nuovo e più profondo senso alla scelta federale italiana, sottraendola a spinte disgregative che potrebbero riemergere improvvisamente e con forza per effetto della mai risolta frattura sociale ed economica tra Nord e Sud (è opportuno ricordare che una linea di divisione così profonda, come quella esistente tra il Nord e il Sud d’Italia, non ha paragoni con altri Stati europei).

L’opportunità di tali innovazioni è confermata dal confronto con gli altri Stati composti (federali e regionali).7 E infatti, dalla comparazione tra gli Stati (tradizionalmente) federali e gli Stati che vivono tuttora processi federali appare con evidenza un dato di fondo: l’esistenza di strutture costituzionali di tipo federale contribuisce a frenare gli sviluppi asimmetrici del sistema dei partiti. In particolare, strutture costituzionali che favoriscono la cooperazione tra i livelli di governo convivono con sistemi di partito ancora simmetrici e integrati, garantendo una più ampia simmetria tra le componenti territoriali (si pensi ancora una volta agli Stati Uniti, all’Australia, alla Germania, all’Austria, rispetto a Stati privi di strutture costituzionali ben definite, come il Canada, il Belgio o la Spagna).

La comparazione, infine, ci mostra l’importanza dei meccanismi di rappresentanza degli interessi territoriali. Laddove esistono istituzioni capaci di mediare il conflitto facendo partecipare i livelli di governo regionali alla determinazione delle politiche pubbliche nazionali, come sono le seconde Camere degli Stati federali, i partiti e i sistemi di partiti tendono a rimanere tendenzialmente simmetrici e integrati. Laddove, invece, il confronto tra diversi livelli di governo è lasciato alla forza delle singole componenti, le tensioni provocate dalle contrattazioni bilaterali o multilaterali tendono a disgregare il sistema partitico rendendolo asimmetrico e non integrato.8


[1] D. J. Elazar, Idee e forme del federalismo, Mondadori, Milano 1998, pp. 91 e 215-16.

 

[2] In questi termini: C. J. Friedrich, Teoria e pratica del federalismo internazionale, in Friedrich, L’uomo, la comunità, l’ordine politico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 265.

[3] Di estremo interesse è quanto notano Francesco Farina, Vincenzo Russo e Alberto Zanardi a proposito del fatto che l’attribuzione delle varie funzioni tra governi centrali e subnazionali sembra dipendere, più che da considerazioni di efficienza economica, dalle vicende storiche e dalla struttura socioeconomica dei vari paesi; si veda F. Farina, V. Russo, A. Zanardi, Esperienze di decentramento fiscale: tendenze emergenti, in Zanardi (a cura di), Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 44 e 50.

[4] Basti pensare alla teoria di William H. Riker sulle cause dell’origine della soluzione federale: W. H. Riker, Federalism. Origin, operation, significance, Little, Brown & Co., Boston 1964.

[5] L. D. Epstein, Political Parties in Western Democracies, Praeger, New York 1967, p. 32.

[6] S. Tarrow, Decentramento incompiuto o centralismo restaurato? L’esperienza regionalistica in Italia e in Francia, in “Rivista italiana di scienza politica”, vol. IX, 2/1979, p. 239; G. Pasquino, Organizzazione dei partiti, in Archivio ISAP, La regionalizzazione, vol. I, Giuffrè, Milano 1983, p. 793.

[7] Per un’analisi più approfondita di questi aspetti si rinvia a: R. Bifulco, Partiti politici e autonomie territoriali, relazione tenuta all’Associazione italiana dei costituzionalisti, Alessandria, ottobre 2008, in corso di pubblicazione (apparsa sul sito www.astrid.eu).

[8] Il contenuto del presente contributo riprende l’intervento svolto al seminario della Fondazione Italianieuropei “Federalismo fiscale: tra proposte del governo e alternative di riforma”, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa, 14 maggio 2009.