La politica estera protagonista delle primarie USA

Di Ettore Greco Venerdì 29 Febbraio 2008 16:30 Stampa

La politica estera sta avendo un ruolo centrale nelle elezioni primarie americane. E lo avrà sicuramente anche nelle presidenziali del prossimo autunno. I dati indicano che molti americani guarderanno soprattutto ai programmi di politica estera quando dovranno scegliere il prossimo presidente. Il loro voto potrebbe peraltro rivelarsi decisivo, perché si tratta in gran parte di elettori incerti, quelli che non di rado fanno la differenza.

Siamo lontani anni luce da quel 1992 in cui Bill Clinton impostò la sua vittoriosa campagna elettorale sul famoso slogan «It’s the economy, stupid», con cui convinse gli americani che era arrivato il momento di dare priorità alla politica interna, visto che i problemi internazionali sembravano essere diventati molto meno pressanti che durante la guerra fredda. È probabile anzi che la campagna presidenziale 2008 si concentrerà sui temi di politica estera ancor più di quella del 2004, che si concluse con la vittoria trionfale di George W. Bush.

Si obietterà che, specie dopo lo scoppio della bolla speculativa immobiliare, le preoccupazioni degli americani per il futuro economico del paese sono aumentate e i candidati alla presidenza non potranno certo prescinderne, mentre nel 2004 l’economia era ancora in netta fase espansiva. Inoltre l’11 settembre è più lontano nel tempo e il timore di nuovi attacchi terroristici sembra, stando ai sondaggi, essersi attenuato. La questione del grado di affidabilità dei vari candidati come «comandanti in capo» nella lotta al terrorismo potrebbe quindi avere un ruolo meno preminente che nel 2004, quando, almeno secondo alcune interpretazioni del risultato elettorale, risultò alla fine decisiva. Ma così si rischia di sottovalutare quanto ancora l’America e in particolare alcuni settori della sua società fatichino a riprendersi dallo shock dell’11 settembre. La capacità dei candidati alla presidenza di assicurare una risposta adeguata a nuovi possibili attacchi terroristici rimarrà al centro della campagna elettorale. Ma c’è poi un altro fattore, ancora più importante, che induce a pensare che questa volta la politica estera avrà un rilievo persino maggiore che quattro anni fa: le differenze tra democratici e repubblicani su molti temi internazionali, a partire da quello più caldo, l’impegno militare in Iraq, si sono considerevolmente accentuate. In questi ultimi quattro anni, man mano che si approfondiva la crisi irachena, il dibattito si è venuto progressivamente polarizzando. Nel 2004 il candidato democratico alla presidenza John Kerry non lesinò critiche alla politica estera di Bush, ma non fu in grado di proporre una visione strategica diversa e, in particolare, una politica realmente alternativa sull’Iraq. Oggi, invece, tutti i candidati democratici alle primarie non solo promettono un cambiamento radicale della politica verso l’Iraq e il Medio Oriente, ma hanno proposto – o tentato di proporre – una concezione del ruolo internazionale degli USA che si contrappone nettamente a quella dell’attuale Amministrazione.

A dire il vero, giudicando dal dibattito in corso in questa campagna per le primarie, c’è almeno un punto di fondo su cui i principali candidati, sia repubblicani che democratici, concordano: nonostante il fallimento della politica interventista di Bush e l’avversione crescente dell’opinione pubblica per impegni all’estero non dettati da minacce incombenti o da un chiaro interesse nazionale, nessuno propone un ritorno a politiche isolazioniste. Per i democratici non è una novità: sono da sempre favorevoli, sulla scia di Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt, a un ruolo attivo degli USA nella gestione dei problemi regionali e mondiali. I principali candidati repubblicani, dal canto loro, aderiscono in pieno alla teoria dell’attuale Amministrazione secondo cui l’America, per difendersi dai suoi nemici, deve combatterli innanzitutto all’estero, dove hanno le loro basi di appoggio e di reclutamento. Questa rimane d’altronde la principale giustificazione dell’impegno militare in Iraq e in Afghanistan. Va però anche detto che tutti i candidati repubblicani hanno preso le distanze dagli eccessi «idealistici» dei neoconservatori, da quel «wilsonismo senza istituzioni» che, fatto proprio dall’attuale Amministrazione, è stato all’origine di una serie di errori a catena. Si nota infatti nel campo dei repubblicani il tentativo di recuperare un approccio più realistico alle questioni internazionali, in linea peraltro con una delle tradizioni più consolidate della politica estera del Partito repubblicano. Anche un candidato come l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che per la politica estera si sta facendo consigliare da alcuni neoconservatori di provata fede, ha accuratamente evitato di riproporre obiettivi ormai ampiamente screditati come l’esportazione della democrazia o il regime change. Obiettivi peraltro che rimanevano ancora al centro della strategia di sicurezza nazionale pubblicata dall’Amministrazione nel 2006. Che oggi si esiti a rilanciarli è una prova eloquente di quanto siano cambiati, almeno sotto questo aspetto, i termini del dibattito di politica estera.

Ma, a parte questa presa di distanza dagli aspetti più palesemente fallimentari delle teorie neoconservatrici, i candidati repubblicani – almeno quelli che hanno reali chance di vincere le primarie – hanno fatto propri, senza grandi modifiche, tutti i principali capisaldi della linea di politica estera di Bush. A partire dalla «guerra globale al terrorismo»: tutti si dichiarano convinti che l’attuale Amministrazione abbia fatto bene ad abbandonare quella che Giuliani, in un articolo su «Foreign Affairs», ha definito, con riferimento agli anni di Bill Clinton, «una dannosa strategia decennale di reazione difensiva».

La scelta di portare la guerra nel campo del nemico, cioè in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq e domani forse Iran), rimane pertanto, secondo i candidati repubblicani, una scelta lungimirante, che va pienamente riconfermata. Nessun ritorno indietro, dunque, alla situazione precedente l’attacco del 2001 alle Torri gemelle e al Pentagono.

«Apparteniamo tutti alla generazione dell’11 settembre» è l’incipit del summenzionato articolo di Giuliani. I candidati repubblicani continuano a riproporre, sulle orme di Bush, l’immagine di un’America minacciata da molte direzioni che, per proteggersi, non può far altro che rimanere all’offensiva. I sondaggi indicano peraltro che questa visione, pur avendo sempre meno credito tra gli elettori che si dichiarano indipendenti, continua ad essere condivisa dalla stragrande maggioranza di quelli repubblicani. Specie in periodo di primarie, metterla in discussione è l’ultima cosa che i candidati repubblicani possono permettersi di fare, anche ammesso che nutrano qualche dubbio in proposito. Anzi, Giuliani e un altro candidato con chance di successo, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, stanno facendo a gara a chi si mostra più bellicoso. Giuliani, ad esempio, ha giustificato ogni tecnica di interrogatorio, anche la più dura, contro i sospetti terroristi, fatta salva la tortura. Romney ha sostenuto addirittura che invece di chiudere la prigione di Guantanamo – cosa che lo stesso Bush ha dichiarato di voler fare – bisognerebbe raddoppiarla. Sia Giuliani che Romney sono tutt’altro che immuni dalle iperboli ideologiche. Entrambi parlano di lotta senza quartiere contro il «fascismo islamico» e i progetti di edificare un califfato jihadista, senza preoccuparsi di fare troppe distinzioni tra sunniti e sciiti, fra le varie forme di radicalismo islamico ecc. Anche l’altro candidato di punta dei repubblicani, il senatore John McCain, che pure non ha avuto remore a criticare gli errori commessi da Bush nella gestione della guerra in Iraq – compreso il ricorso alla tortura o a pratiche che la ricordano da vicino – ne ha in realtà sempre difeso le scelte strategiche di fondo. La visione di politica estera dei candidati democratici è profondamente diversa, per molti aspetti opposta a quella dei repubblicani. «La tragedia degli ultimi sei anni – ha scritto la senatrice Hillary Clinton su «Foreign Affairs» – è che l’Amministrazione Bush ha buttato al vento il rispetto e la fiducia anche dei nostri alleati e amici più stretti». Il problema centrale per i democratici – per la Clinton come per gli altri due candidati che sono in cima ai sondaggi, il senatore dell’Illinois Barak Obama e l’ex senatore del North Carolina, John Edwards – è ristabilire la reputazione politica e morale dell’America nel mondo per poterne riaffermare la leadership globale. La Clinton ha fatto della «visione ciecamente ideologica del mondo» di Bush il suo obiettivo polemico privilegiato, accusando l’attuale presidente di aver messo gli americani di fronte a false scelte, come quella tra forza e diplomazia e, più in generale, tra hard e soft power, laddove, ha sostenuto, è solo la combinazione di questi elementi che può portare al successo.

Uno dei fondamentali temi di contrasto tra repubblicani e democratici è proprio il ruolo della diplomazia. I primi sono a dir poco riluttanti a dialogare con paesi come l’Iran e la Siria, per non parlare di Cuba, e insistono sulla necessità di porre precise condizioni prima dell’avvio di qualsivoglia negoziato. Per i secondi è invece fondamentale che sia rilanciata al più presto l’azione diplomatica degli USA, specie in Medio Oriente, come peraltro era stato suggerito un anno fa dall’Iraqi Study Group, la commissione bipartisan presieduta dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton. I candidati democratici si sono pronunciati a favore di una risoluta offensiva diplomatica per risolvere il conflitto israelo-palestinese, criticando la passività dell’Amministrazione Bush (mitigata solo di recente, e finora senza successo, dalle iniziative intraprese dal segretario di Stato Condoleezza Rice), ma va notato che hanno tutti assunto una posizione marcatamente filoisraeliana, che difficilmente potrebbe costituire la base per una politica più efficace nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo. A proposito del ricorso alla diplomazia, Obama è quello che si è spinto più in là, dicendosi pronto a colloquiare subito e «senza precondizioni» con i leader di Stati che hanno finora mostrato ostilità nei confronti degli USA. La Clinton, scegliendo, come su altre questioni, una posizione intermedia, ha avuto buon gioco ad accusarlo di ingenuità: incontri improvvisati con leader di paesi antagonisti, ha sottolineato, possono facilmente avere un effetto boomerang se non adeguatamente preparati. È un contrasto che, come si dirà in seguito, trova conferma anche nella non irrilevante divergenza di vedute tra i due candidati sulle azioni da intraprendere nei confronti dell’Iran. Hillary Clinton è stata più cauta degli altri candidati democratici anche sulla guerra al terrorismo. Ha evitato di denunciarla come mero «slogan politico», come invece ha fatto Edwards, che ha accusato Bush di essersene servito per giustificare qualsiasi cosa, da Guantanamo ad Abu Ghraib, dallo spionaggio sui cittadini americani al ricorso alla tortura. La Clinton è stata d’altronde attentissima a non prestare il fianco a qualsivoglia accusa di non essere abbastanza dura verso il terrorismo. A parte ogni altra considerazione, dietro questo atteggiamento c’è evidentemente un preciso calcolo politico: un eventuale nuovo attacco terroristico nei prossimi mesi o, peggio, in piena campagna elettorale metterebbe in gravi difficoltà i candidati che avessero mostrato di sottovalutare questo tipo di minaccia.

Uno dei leitmotiv che accomunano i candidati democratici è la contestazione della tesi, che continua ad essere sostenuta dai repubblicani, secondo cui lotta al terrorismo e guerra in Iraq sono inscindibili. I democratici hanno invece denunciato la guerra in Iraq come una grave distrazione dalle vere priorità nella lotta al terrorismo. Priorità che sono, a loro avviso, soprattutto due: lo scontro contro i talebani e al Qaida in Afghanistan e gli sforzi per impedire che gruppi terroristici possano impadronirsi di armi di distruzione di massa.

C’è d’altronde piena concordia fra i democratici su un altro punto: la prima e fondamentale condizione per rilanciare la leadership americana nel mondo è uscire al più presto dal pantano iracheno. Così, mentre tutti i principali candidati repubblicani hanno sostenuto l’incremento di truppe deciso da Bush all’inizio del 2007 e sono per confermare, per ora senza scadenze, la presenza militare in Iraq, i democratici si sono sforzati di presentare piani, più o meno dettagliati, per il ritiro.

Questi piani hanno molto in comune: prevedono che il nuovo presidente avvii il ritiro immediatamente dopo il suo insediamento (se non sarà stato fatto nel frattempo da Bush, il che appare altamente improbabile), che sia completato in non meno di un anno e che comunque rimangano, sia nella regione che in Iraq, alcune truppe americane. Quest’ultimo è chiaramente il punto più delicato. Tutti i principali candidati democratici hanno dichiarato di ritenere necessaria, anche una volta data esecuzione ai piani per il ritiro, una presenza militare americana per assolvere a una serie di missioni di non poco conto: dalla protezione del personale civile americano che resterà in Iraq al controllo dei confini con i paesi limitrofi – il problema non sono solo i confini con l’Iran, ma anche quelli con Turchia, Siria e Giordania – dalle operazioni antiterrorismo contro al Qaida all’addestramento dell’esercito iracheno. Alcune di queste missioni – si noti che esse sono state espressamente menzionate da tutti e tre i candidati democratici più popolari (Clinton, Edwards e Obama) – possono teoricamente essere svolte fuori dall’Iraq (è il caso delle attività di addestramento) o essere assegnate a unità militari che, in caso di necessità, interverrebbero dai paesi vicini, come ad esempio una forza di azione rapida di stanza in Kuwait o in altro paese alleato del Golfo. Ma altri compiti non potrebbero che essere svolti all’interno dell’Iraq. Inoltre, per assolvere a queste missioni servirebbero migliaia di soldati, secondo alcune stime, anzi, alcune decine di migliaia. Insomma, anche se i candidati democratici hanno fatto del ritiro delle truppe dall’Iraq un cavallo di battaglia, dalle loro dichiarazioni si ricava che non immaginano un ritiro totale e men che meno un disimpegno dagli sforzi per stabilizzare il paese ed evitare che cada sotto l’influenza iraniana o si trasformi ancor di più in una zona franca per i terroristi di al Qaida. E in effetti non si vede come gli americani possano abbandonare definitivamente il paese o lasciarvi solo una presenza militare simbolica se prima non avranno ottenuto risultati più tangibili e soprattutto sostenibili nel lungo termine di quelli che ha vantato l’Amministrazione Bush negli ultimi mesi, attribuendoli all’incremento delle truppe e alla nuova strategia perseguita dal generale Petraeus. In definitiva, è molto improbabile che il presidente che verrà eletto nel novembre 2008, anche se sarà un democratico, decida di smantellare la presenza militare in Iraq se prima non si sarà realizzata una stabilizzazione del paese e allontanato il rischio che esso cada sotto l’influenza iraniana. Come accennato, i democratici vorrebbero in ogni caso che venis- sero spostati soldati e risorse dal teatro iracheno a quello afgano, ritenendolo il vero fronte della lotta antiterrorismo.

Fino a un paio di mesi fa la questione dell’Iraq dominava totalmente il dibattito di politica estera, come già successo durante le elezioni di mid term del novembre 2006, vinte dai democratici. Ma negli ultimi tempi ha assunto un rilievo crescente il problema delle misure da adottare per bloccare il programma nucleare dell’Iran. L’ipotesi di un intervento militare contro Teheran è ormai diventato uno dei temi centrali della campagna elettorale. Questo parziale spostamento di attenzione è dovuto a un oggettivo aggravamento del problema: né gli sforzi diplomatici né le sanzioni decise dall’ONU hanno finora prodotto risultati e l’Iran ha continuato a fare progressi nell’arricchimento dell’uranio, anche se non è chiaro di quali proporzioni. Ma anche l’Amministrazione Bush ci ha messo del suo, usando toni sempre più allarmistici sulla minaccia iraniana, forse anche nell’intento di distrarre l’opinione pubblica dalla guerra in Iraq. Anche sull’Iran le differenze tra i candidati dei due partiti sono molto marcate, ma ne sono emerse di significative anche tra i candidati democratici.

Giuliani, McCain e Romney hanno fatto dichiarazioni molto bellicose. Il primo ha «promesso», nel caso del fallimento di altre misure, di realizzare un’azione militare per impedire agli iraniani di sviluppare l’arma nucleare. Romney, dal canto suo, ha prospettato la possibilità di attaccare l’Iran anche senza l’autorizzazione del Congresso. Anche qui si è assistito, insomma, ad un poco edificante gioco al rialzo. D’altra parte, tutti e tre i principali candidati democratici hanno affermato di non poter escludere, in linea di principio, nessuna opzione, incluso l’uso della forza. Ma si sono preoccupati di porre l’accento sulle iniziative da intraprendere a livello diplomatico. Obama ed Edwards hanno promesso, in particolare, negoziati diretti con Teheran (finora solo gli europei si sono impegnati in colloqui formali con i dirigenti iraniani). Edwards ha prospettato la firma di un vero e proprio patto di non aggressione con l’Iran se quest’ultimo accettasse di rinunciare ai suoi piani nucleari. Più cauta, anche su questo argomento, è stata Hillary Clinton: si è limitata a indicare che offrirebbe «un pacchetto ben calibrato di incentivi». La Clinton è stata anche l’unica fra i candidati democratici a pronunciarsi senza equivoci per un inasprimento delle sanzioni contro Teheran. Mentre molti democratici vedono nell’imposizione di nuove sanzioni un preludio alla guerra, la Clinton l’ha presentata come un modo per tentare di prevenirla. Non solo: in senato ha votato anche a favore di una risoluzione in cui si chiede di inserire il corpo delle guardie rivoluzionarie dell’Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere. Sia Obama che Edwards l’hanno violentemente attaccata per questa scelta, sostenendo che la risoluzione potrebbe offrire a Bush il pretesto per intervenire contro l’Iran. Per parare queste critiche Hillary Clinton ha promosso, insieme ad altri senatori, un progetto di legge che proibisce l’uso di fondi per azioni militari in Iran senza un’esplicita autorizzazione del Congresso.

In generale, la Clinton ha dimostrato di avere il coraggio, anche durante la campagna delle primarie, di assumere, su diversi temi di politica estera, posizioni più moderate e centriste di quelle prevalenti nella base democratica. Si è così costruita un capitale politico che, se vincesse le primarie, le frutterebbe sicuramente nella campagna presidenziale, quando conterà soprattutto la capacità di attrarre i voti degli elettori di centro. Inoltre, sapendo che nel campo repubblicano le primarie saranno vinte da un falco, la Clinton si preoccupa di non fare dichiarazioni o atti che possano successivamente esporla all’accusa di essere troppo morbida sulle questioni di sicurezza nazionale. Anche sui rapporti con Cina e Russia la Clinton ha assunto posizioni più articolate di Edwards e Obama, che si sono preoccupati di porre l’accento soprattutto sulle opportunità di cooperazione con le due potenze. Ha ad esempio criticato a più riprese la Cina per il rifiuto di rivalutare lo yuan e per le violazioni dei diritti di proprietà intellettuale.

I principali candidati dei due schieramenti sono concordi sulla necessità di rivedere la struttura delle forze armate, accrescendo gli effettivi dell’esercito e dei marines. Questa convergenza non deve stupire: è convinzione generale che la scelta dell’ex ministro della difesa Donald Rumsfeld di puntare su un esercito di dimensioni ridotte, investendo invece massicciamente in armi ed equipaggiamento tecnologicamente avanzati, sia stato un errore fatale, di cui si sono viste le nefaste conseguenze in Iraq. Riconoscendo che l’organico è insufficiente, Bush stesso ha d’altronde già dato luce verde a un incremento degli effettivi dell’esercito. Le proposte dei candidati democratici prevedono un aumento che si aggira tra le 80.000 e le 90.000 unità. Quasi tutti i candidati promettono poi di aumentare il personale civile specializzato da impiegare nei compiti di ricostruzione economica e istituzionale nel quadro delle missioni di pace. Su molte altre questioni di politica di difesa le differenze tra democratici e repubblicani sono invece considerevoli. Sul progetto di difesa contro i missili balistici, innanzitutto. I candidati repubblicani ne hanno fatto una loro bandiera, presentandolo come necessario contro le minacce che potrebbero provenire non solo da paesi, come l’Iran, che si sospetta stiano cercando di costruirsi un proprio arsenale militare, ma anche da Russia e Cina. Sarebbe così possibile emanciparsi progressivamente dalla logica della dissuasione nucleare e della «distruzione reciproca assicurata » (mutual assured destruction) ereditata dalla guerra fredda. Questa concezione estensiva delle finalità del progetto di difesa antimissile non può però che allarmare Mosca, che già vi vede l’intento di cambiare gli equilibri strategici a favore degli USA e vi si oppone pertanto duramente. Più sfumata è la posizione dei principali candidati democratici. Essi non considerano il progetto come prioritario e vorrebbero ridurre i fondi ad esso dedicati, ma si guardano bene dal prospettarne la cancellazione. La verità è che l’idea di una protezione permanente dalla minaccia nucleare rimane popolare in una larga parte dell’elettorato. Anche per questo in campo democratico si preferisce adottare un atteggiamento pragmatico sul progetto di scudo antimissile, mettendone in rilievo i costi e le difficoltà di realizzazione. I candidati democratici non hanno invece dubbi sulla necessità di procedere sulla via del controllo degli armamenti e del disarmo. Hanno proposto una serie di misure per preservare, aggiornandolo, il Trattato di non-proliferazione nucleare e vogliono che il Congresso ratifichi quello che mette completamente al bando i test nucleari (Comprehensive test ban treaty), che Bush ha invece accantonato. Per far fronte ai rischi della proliferazione nucleare, Obama ha riproposto, ad esempio, l’idea di creare una banca del combustibile nucleare sotto controllo internazionale e Hillary Clinton si è impegnata a perseguire un accordo con i russi per una riduzione drastica dei due arsenali nucleari, presentandolo come un passo necessario anche per ridare maggiore credibilità all’impegno degli USA contro la proliferazione nucleare. I candidati repubblicani hanno invece mostrato, in linea con l’atteggiamento dell’Amministrazione Bush, un forte scetticismo sull’opportunità di nuovi accordi per il controllo degli armamenti.

Profondamente diversa è poi la visione del ruolo delle Nazioni Unite. La tesi di Giuliani è che l’ONU abbia fallito e che sia pertanto arrivato il momento di cominciare a predisporre altri strumenti istituzionali. Molto meno drastica quella di McCain: si è detto favorevole alla formazione di una «lega delle democrazie», che si attiverebbe nel caso di para- lisi decisionale in seno al Consiglio di sicurezza. Questa proposta di creare una coalizione o un raggruppamento tra le democrazie in grado di gestire i problemi internazionali in modo più rapido ed efficace di quanto non abbia finora dimostrato di saper fare l’ONU rispunta periodicamente e affascina anche una parte dei democratici (l’attuale «Comunità delle democrazie», che è un mero foro di coordinamento tra i governi, fu creata nel 2000 su iniziativa dell’Amministrazione Clinton). Finora è rimasta però un’idea dai contorni estremamente vaghi, dal valore più retorico che sostanziale. È poi più che evidente il rischio che, perseguendo simili progetti, si finisca soltanto per indebolire ulteriormente l’ONU. In ogni caso i candidati democratici hanno posto l’accento soprattutto sulla riforma dell’ONU come condizione per un rilancio del suo ruolo. In particolare, l’idea di allargare il Consiglio di sicurezza, assegnando un seggio permanente a paesi come il Brasile o l’India, trova notevole favore tra i democratici (l’ultimo tentativo serio da parte americana di riformare il Consiglio di sicurezza fu intrapreso dall’Amministrazione Clinton negli anni Novanta).

Finora si è discusso poco del ruolo della NATO. I repubblicani tendono ad avere un atteggiamento ambivalente: sarebbero in teoria favorevoli a un’espansione dei suoi compiti e del suo raggio di azione, ma, come l’Amministrazione Bush, temono che, agendo attraverso la NATO, gli USA rischino di doversi sottoporre a troppi vincoli e restrizioni imposte dagli alleati. In campo repubblicano è McCain il più convinto sostenitore della NATO e, più in generale, di un rapporto stretto con gli europei (anche se, va detto, molte delle politiche che propugna sono tutt’altro che ben viste in Europa). Nei discorsi di Giuliani e Romney l’Europa è stata invece quasi del tutto assente. Ma neanche i candidati democratici hanno dedicato finora grande spazio ai rapporti transatlantici e al ruolo della NATO e dell’Unione europea. Il fatto è che l’attenzione rimane, come si è detto, in gran parte puntata sull’Iraq, da cui anche gli Stati europei che hanno appoggiato la guerra del 2003 si sono progressivamente disimpegnati. Gli americani sanno che non possono aspettarsi nessun aiuto sostanziale dagli europei per districarsi dall’Iraq. Ma anche l’altro problema centrale, quello dell’Iran, tende ad essere trattato più come una questione bilaterale che come un comune problema transatlantico, benché gli europei abbiano apportato un contributo rilevante agli sforzi diplomatici per una soluzione pacifica della controversia, sforzandosi costantemente di mantenere un’unità d’azione con Washington.

Va da sé, anche alla luce di quel che si è detto fin qui, che con una Amministrazione democratica gli europei avrebbero più facilità, almeno in teoria, di trovare intese e sviluppare una proficua cooperazione. La visione di politica estera dei candidati democratici, a cominciare dall'importanza che attribuiscono al multilateralismo e al ruolo delle istituzioni, sembra infatti più in sintonia con quella prevalente in Europa. L'istinto unilateralista appare invece molto radicato fra i repubblicani, anche se un McCain darebbe probabilmente maggiori garanzie di attenzione alle dinamiche europee e al ruolo della NATO che non un Giuliani o un Romney. Una presidenza democratica faciliterebbe un rilancio della cooperazione transatlantica. Il problema è se gli europei saprebbero, da parte loro, cogliere questa opportunità. Su molte questioni centrali dell'agenda internazionale non hanno ancora una posizione sufficientemente chiara e univoca e anche le persistenti debolezze istituzionali dell'UE pesano negativamente. In realtà, anche indipendentemente dall'esito delle prossime elezioni americane, è vitale che gli europei rafforzino la propria capacità di agire collettivamente. Questa rimane la condizione fondamentale perché possa stabilirsi un rapporto di cooperazione più stretto ed equilibrato con Washington.