Un'amicizia pericolosa: la lobby israeliana e gli Stati Uniti

Di Carlo Pinzani Venerdì 29 Febbraio 2008 16:42 Stampa

Nell’annunciare la allora prossima uscita della traduzione italiana del libro di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, il «Corriere della sera» del 2 settembre scorso pubblicava un trafiletto a firma p. bat. (Pierluigi Battista?) pesantemente polemico nei confronti della casa editrice che ha tradotto in italiano «The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy», un libro derivato da un precedente studio che negli Stati Uniti aveva sollevato accese discussioni. L’argomento principale utilizzato per bollare come antisemita un lavoro scientifico serio ed equilibrato è quello, assai diffuso, della piena identificazione tra ebraismo e sionismo, spinta, però, a livelli polemici inaccettabili.

 

Dopo aver affermato che parlare di «lobby israeliana » è soltanto meno rozzo che parlare di «lobby ebraica», ed evocato l’approvazione data al volume dal capo del Ku Klux Klan, l’autore conclude con una polemica domanda: «La prossima sarà la volta dei ‘Protocolli dei savi anziani di Tel Aviv’, nemmeno di Gerusalemme, per non dar ragione agli israeliani. Israeliani e non ebrei, per carità. Quale grande casa editrice italiana se ne approprierà?». Anche se la conclusione ricattatoria appare abbastanza preoccupante dal momento che si configura come una sorta di fatwa emessa contro il prossimo editore italiano che si azzarderà a pubblicare un testo critico nei confronti di Israele, quel che colpisce di più nel breve testo citato è l’accostamento tra il lavoro in oggetto e il vecchio falso della polizia zarista, i «Protocolli dei savi di Sion», un accostamento che induce il sospetto che l’autore in questione non abbia letto nessuno dei due lavori di cui parla.

C’è, in realtà, contrasto stridente tra un libro nutrito di fatti e di riferimenti precisi e un libello totalmente ideologico e affabulatorio, che attribuisce al popolo ebraico tutte le nefandezze del mondo. V’è inoltre un aspetto specifico particolarmente illuminante a proposito del rapporto tra ebraismo e sionismo e che condanna ogni semplificazione propagandistica del tipo di quella utilizzata nel trafiletto del «Corriere»: nei «Protocolli» è scritto, tra le numerose affermazioni più o meno aberranti, che «per noi (i savi di Sion) è indispensabile che le guerre non diano vantaggi territoriali».1

Nella logica dell’apocrifo, l’affermazione suffraga il carattere astratto ed esclusivamente economico e finanziario del disegno di dominio mondiale attribuito all’ebraismo, negando così, in modo del tutto conforme alle finalità antisemite del falso, un aspetto reale della cultura ebraica: il valore attribuito alla terra da un popolo che, fino al sogno sionista, non ne ha mai avuta alcuna, vivendo la drammatica, millenaria esperienza della diaspora. Una condizione unica, straordinaria, che giustifica di per sé, anche indipendentemente dalla Shoah, l’esigenza degli ebrei di disporre di un proprio territorio nel contesto geografico delle loro origini. Era questo, infatti, l’unico elemento mancante per la costituzione di uno Stato, dal momento che il popolo e la cultura ebraici erano già perfettamente individuati. Hannah Arendt, infatti, afferma che «l’antisemitismo moderno deve essere visto nel più generale contesto dello sviluppo degli Stati nazionali» e che, quindi, «la sola e sicura conseguenza dei movimenti antisemiti del XIX secolo non è stato il nazismo, ma, al contrario, il sionismo che, almeno nella sua formulazione ideologica occidentale, era una sorta di controideologia, la risposta all’antisemitismo ».2

Il fatto è che la formazione di uno Stato nazionale ebraico ha modificato anche i termini del rapporto tra ebraismo e sionismo nel senso di non farli più necessariamente coincidere, come avveniva quando il «bisogno della terra d’Israele» era soltanto un’aspirazione: oggi Israele è uno Stato che, al pari di altri, fra cui l’Italia, dispone del sostegno di comunità etniche sparse in una dimensione mondiale o, comunque, molto vasta. Un discorso che si applica tranquillamente alla comunità ebraica degli Stati Uniti, che in quanto paese sorto dall’immigrazione più o meno recente di tutti i suoi abitanti ha conosciuto e conosce forme di organizzazione dei propri cittadini sulla base di appartenenze etniche differenziate e accomunate invece dall’intento di tutelare gli interessi dei paesi di origine.

La lobby ebraica negli Stati Uniti Non ha quindi oggi senso alcuno scomodare l’antisemitismo per screditare un’analisi seria e documentata come quella di Mearsheimer e Walt a proposito dell’attività svolta in favore di Israele dalla comunità ebraica negli Stati Uniti. Del resto, già da molto tempo era nota l’esistenza di una lobby ebraica alla quale veniva riconosciuto anche il primato d’influenza sulla politica estera americana rispetto a tutte le altre lobby fondate sull’appartenenza etnica, da quella irlandese, a quella greca, a quella araba: «Decisa ad evitare che mai il popolo ebreo possa essere nuovamente soggetto agli indicibili orrori del genocidio della seconda guerra mondiale, la generazione postbellica degli ebrei americani, ormai consapevole del funzionamento del sistema, e godendo della simpatia e del sostegno degli americani non ebrei, ha mobilitato risorse politiche, economiche e intel- lettuali per garantire la sopravvivenza dello Stato ebraico ».3 Questo giudizio risale agli inizi degli anni Ottanta del Novecento e non solo fu considerato allora corretto e legittimo, ma mantiene ancora oggi la sua validità. E Mearsheimer e Walt si pongono solidamente su questo terreno scrivendo: «Come si è già osservato, ci sono numerosi esempi di gruppi etnici in America che lavorano duramente per persuadere il governo americano e i loro concittadini a sostenere il paese straniero al quale sono profondamente legati. I governi stranieri sono di solito consapevoli delle attività svolte a loro favore dai gruppi d’interesse costituiti su base etnica e, naturalmente, hanno cercato di usarli per influenzare il governo degli Stati Uniti e perseguire i loro obiettivi di politica estera. E, sotto questo profilo, gli ebrei americani non sono diversi dai loro concittadini».4 Fra l’altro, assai giustamente i nostri autori si limitano a considerare l’influenza della lobby israeliana come gruppo di pressione organizzato e non utilizzano i casi, pur rilevanti, di condizionamento della politica internazionale degli Stati Uniti a favore d’Israele ad opera di canali e relazioni private e riservate, che, in quanto tali, non possono configurare un gruppo di pressione. E giustamente Mearsheimer e Walt accennano solo di sfuggita al fatto che, nel cruciale periodo 1947-48, il movimento sionista individuò nell’ex socio in affari di Truman, Eddie Jacobson, un efficace canale di accesso al presidente, mentre trascurano del tutto la stretta amicizia di Lyndon B. Johnson con Mathilde Krim, che vent’anni dopo garantiva una connessione tra dirigenti israeliani e la Casa Bianca.5

Ma il fatto che ormai esista, e sia solido e vitale, lo Stato d’Israele autorizza ad introdurre ulteriori distinzioni, tanto più che si tratta di uno Stato democratico, ove, oltre al governo, esiste anche un’opposizione le cui visioni dell’in- teresse nazionale possono essere, e sono di fatto, contrapposte.

Assai correttamente, Mearsheimer e Walt, in quanto cittadini americani, si limitano a considerare questo aspetto soltanto dal lato degli Stati Uniti, sostenendo che l’appoggio americano ad Israele nelle sue forme attuali è in realtà contrario all’interesse nazionale degli stessi Stati Uniti. E, da questo punto di vista, le loro critiche, fornite di una documentazione rigorosa, sono numerose e fondate: quella più rilevante riguarda la capacità della lobby israeliana di ridurre, fino ad annullarle, le distinzioni tra repubblicani e democratici a proposito della politica mediorientale.

È certo che durante le due amministrazioni di G. W. Bush l’alleanza strategica tra gli Stati Uniti e Israele ha rappresentato l’asse portante della politica degli Stati Uniti nel Medio Oriente e che questo è da ricondurre anche al peso dei neoconservatori, dei quali gli intellettuali ebrei sono una componente rilevante.6 Ma l’influenza della lobby continua ad essere bipartisan, come risulta anche dalle posizioni assunte a proposito dei rapporti con Israele dai diversi candidati democratici attualmente impegnati nella corsa per la Casa Bianca, in modo del tutto conforme alla tradizionale, prevalente inclinazione della comunità ebraica verso il voto democratico. La rilevanza dell’azione condotta dalla lobby israeliana, peraltro, è ben superiore al peso numerico che la stessa comunità ha sempre esercitato nell’elettorato degli Stati Uniti. E ciò è da ricondursi al fatto che gli ebrei americani hanno ormai raggiunto livelli di ricchezza e di organizzazione che consentono loro di configurarsi come gruppo di pressione in grado di influire massicciamente sul fundraising dei candidati di entrambi i partiti in tutti i tipi di competizione elettorale.

I risultati dell’azione della lobby Grazie a questa capacità di pressione sulla politica americana, la comunità ebraica è riuscita a far lievitare l’aiuto economico e militare degli Stati Uniti ad Israele a livelli che non hanno riscontro nei confronti di alcun altro paese e che, secondo i nostri autori, non trovano un’adeguata compensazione nei vantaggi che l’alleanza procura agli Stati Uniti, specialmente da quando è finita la contrapposizione globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Mearsheimer e Walt sostengono in maniera convincente che Israele, divenuto la maggiore potenza regionale nel Medio Oriente, continua a perseguire nella questione palestinese una politica che conduce allo scontro con i paesi arabi e islamici. Poiché questi controllano la totalità delle risorse petrolifere, vale a dire ciò che più interessa gli Stati Uniti nella regione, l’incondizionata fedeltà di questi alla politica israeliana finisce per nuocere gravemente agli interessi nazionali. Dopo l’11 settembre 2001 il legame tra Washington e Tel Aviv si è ulteriormente rafforzato grazie all’indiscriminato uso della formula propagandistica della «guerra al terrorismo», uno slogan che accomuna fenomeni completamente eterogenei, come la resistenza palestinese all’occupazione israeliana, le lotte di liberazione nazionale in Kurdistan e in Cecenia, i conflitti intracomunitari nel Libano e nell’Iraq invaso dagli Stati Uniti.

Non v’è dubbio che in tutti i casi che si sono qui evocati le parti più deboli in questi conflitti asimmetrici ricorrano anche sistematicamente a metodi terroristici. Ma questi rimangono tali anche quando sono usati da eserciti regolari di Stati pienamente formati: cercare di distinguerli con artifici più o meno sofisticati è operazione vana e intellettualmente disonesta. Proprio per questo motivo, al di là dei collegamenti reali che ciascuno di questi conflitti, e in particolare quello che si svolge in Palestina, può avere con l’integralismo islamico che sostiene la jihad, è difficilmente contestabile che la piena coincidenza tra la politica di Washington e quella di Tel Aviv abbia contribuito a rendere più violento e diffuso l’antiamericanismo nel mondo islamico. E sempre per questo motivo, come Mearsheimer e Walt affermano, non è sostenibile la tesi di un fondamento etico e politico dell’alleanza in nome dei valori della democrazia e della tutela dei diritti umani dal momento che, in Palestina, entrambi i valori sono da tempo quotidianamente violati dagli israeliani. Come scrive un autorevole esponente israeliano «per il palestinese medio i ‘frutti della pace’ non erano affatto incoraggianti: chiusure che erano considerate punizioni collettive; restrizioni di movimento che riguardavano quasi tutti i palestinesi; un sistema di emissione di permessi di viaggio che colpisce soprattutto persone già controllate dalla sicurezza israeliana; maltrattamenti ai posti di blocco dell’esercito israeliano e della polizia di frontiera, spesso intenzionalmente rivolti contro personale dell’Autorità palestinese; drastica riduzione delle possibilità di lavoro in Israele; creazione di nuove sacche di povertà; mancanza d’acqua nei mesi estivi a fronte di abbondanza idrica nei vicini insediamenti israeliani; distruzione di abitazioni palestinesi mentre nuove abitazioni venivano costruite negli insediamenti; mancato rilascio di prigionieri processati per fatti commessi prima di Oslo; limitazione da parte degli israeliani delle costruzioni su terra palestinese in zone sotto il pieno controllo civile palestinese; istituzioni di enclave simili a Bantustan, controllate a discrezione dei militari israeliani e spesso ispirate dalla relazione simbiotica degli stessi militari con il movimento dei coloni».7

È certamente possibile che i nostri due autori sopravvalutino in alcuni casi la forza della lobby israeliana sulla politica mediorientale degli Stati Uniti, come quando le attribuiscono un’influenza determinante nella decisione d’in- vadere l’Iraq o quando, nella fase attuale, la considerano l’ispiratrice principale delle inclinazioni ad affrontare militarmente l’Iran per impedire alla Repubblica islamica l’accesso all’armamento atomico. Il fatto che la formula della guerra al terrorismo sia concettualmente e politicamente errata non comporta affatto che siano infondate o riconducibili soltanto alla lobby ebraica le preoccupazioni non solo americane per la diffusione delle armi di distruzione di massa e per la possibilità che esse possano essere utilizzate nei diversi conflitti asimmetrici da parte di regimi fanatici o instabili. Si tratta di un problema reale che deve essere affrontato correttamente nei diversi contesti nei quali il rischio si manifesta.

E, da questo punto di vista, è difficile negare che le questioni della proliferazione nucleare abbiano risentito e tuttora risentano pesantemente anche delle posizioni assunte in proposito da Israele e che si riassumono nella formula dell’«opacità» a proposito del proprio armamento strategico. Questa formula risale addirittura al settembre 1969, quando in materia fu raggiunto un accordo tra il primo ministro israeliano Golda Meir e il presidente Nixon: in base ad esso, mentre gli Stati Uniti rinunciavano alle pressioni su Israele perché aderisse al trattato di non-proliferazione, lo Stato ebraico si impegnava a non rivelare la propria condizione di potenza nucleare e a non trarre da essa vantaggi diplomatici. In questo modo, Israele diveniva la sesta potenza nucleare dopo i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e, da allora, ha sviluppato e diversificato la propria tecnologia nucleare e le correlate infrastrutture di lancio, comunicazione e controllo che consentono oggi di paragonarlo, in termini quantitativi e qualitativi, alle strutture nucleari di Francia e Gran Bretagna.8

Non v’è dubbio che, in una certa visione della sua sicurezza, Israele abbia interesse a mantenere il proprio monopolio atomico nel Medio Oriente, pur se le sue capacità di deterrenza convenzionali lo pongono in condizioni tali da rendere velleitarie le più veementi minacce di dirigenti e gruppi politici dell’Islam più estremistico. Ma è interesse reale degli Stati Uniti quello di aiutare Israele a mantenere questa condizione, piuttosto che pro- muovere le condizioni per giungere ad una pace stabile e generalizzata in Medio Oriente, una situazione nella quale neppure il più oltranzista dei governi israeliani potrebbe continuare a sostenere la necessità di conservare una deterrenza strategica?

Mearsheimer e Walt affrontano questa tematica con molta cautela: tuttavia, risulta evidente che la politica di nonproliferazione condotta negli ultimi anni dagli Stati Uniti è pressoché totalmente vanificata dalla posizione tenuta nei confronti dell’armamento strategico israeliano. Una conclusione non molto diversa si deve purtroppo raggiungere a proposito del reiterato appoggio degli Stati Uniti, con le amministrazioni tanto di Clinton quanto di Bush jr., alla soluzione della questione palestinese fondata sull’esistenza di due Stati. Si tratta di un assetto che, come notano ripetutamente i nostri due autori, sta per divenire – se già non lo è divenuto – impraticabile: se si vuole evitare che la situazione si protragga con conseguenze catastrofiche occorre che gli Stati Uniti e la comunità internazionale facciano reali e severe pressioni su Israele a proposito della proprietà del suolo nei Territori Occupati e impongano soluzioni effettive alla questione degli insediamenti, che, ormai, sono divenuti lo strumento principale per rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. E non si tratta qui forse di un interesse vitale per la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente?

Il fatto è che, a questo proposito, si sta verificando una sorta di ribaltamento sul giudizio fornito a suo tempo sul fallimento del processo di pace innescato dagli accordi di Oslo. Fino a poco tempo fa sembrava consolidata l’interpretazione in base alla quale l’intransigenza di Arafat aveva fatto fallire i tentativi dell’ultimo Clinton; oggi ci si comincia a render conto che le proposte degli Stati Uniti in quell’occasione e durante tutto il processo negoziale erano (e sono) inaccettabili per qualsiasi dirigente palestinese non apertamente collaborazionista. Già ad Oslo Arafat aveva accettato che lo Stato palestinese comprendesse il 22% della Palestina sotto il mandato britannico, quando il piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite nel 1947 riservava agli arabi il 45%. A Camp David e a Taba Clinton proponeva di consentire agli israeliani di annettere il 10% della quota rimanente, consentendo compensazioni, sempre nei Territori Occupati, pari all’1%. Come ha scritto l’autorevole israeliano già citato, «il tradizionale approccio del Dipartimento di Stato, mantenuto per tutto il periodo del governo Barak, fu quello di adottare le posizioni del primo ministro israeliano».9 E, successivamente, vale a dire con Bush da una parte e Sharon e Olmert dall’altra, la situazione non si è certo modificata, e se gli Stati Uniti, per effetto della lobby ebraica o per qualsiasi altro motivo, non saranno in grado di modificare il carattere della loro indispensabile mediazione la questione palestinese non avrà una soluzione accettabile non solo per le parti in causa ma anche per l’opinione pubblica mondiale.

L’interesse nazionale israeliano Se dalla considerazione degli interessi nazionali degli Stati Uniti si passa a valutare la tutela di quelli israeliani il giudizio negativo sull’operato del gruppo di pressione della comunità ebraica americana non muta. Il carattere bipartisan dell’azione della lobby vale soltanto per la sponda americana del rapporto, dal momento che dal versante israeliano le politiche sostenute sono sempre quelle del governo in carica e che, quindi, dato il carattere democratico del sistema politico israeliano, corrispondono anche alle aspirazioni della maggioranza degli elettori. Questa affermazione resta valida anche tenendo conto del ruolo che la componente militare esercita nella società e nella politica israeliane, ruolo che risulta storicamente giustificato da tutta la storia della comunità ebraica in Palestina e anche da quella del primo periodo di esistenza dello Stato d’Israele (grosso modo dal 1948 alla fine degli anni Settanta).

Tuttavia, la ricca articolazione politica della società israeliana lascia spazio anche a visioni drasticamente alternative rispetto a quella prevalente che considera il conseguimento della pace come un prerequisito del raggiungimento di un livello di sicurezza indispensabile per un armonioso sviluppo dell’ormai ultrasecolare disegno sionista. Sarebbe quindi assai auspicabile che la comunità ebraica americana (e anche quelle di altri paesi del mondo) cominciasse a prendere in considerazione l’esistenza di questo diverso punto di vista per trasmetterlo al mondo politico americano.

Oggi si sta facendo urgente l’esigenza di mantenere in vita la prospettiva della soluzione bistatuale, consentendo la costruzione di uno Stato palestinese che non soltanto non sia solo virtuale, come lo è stata l’Autorità nazionale palestinese durante tutto il processo avviato con gli accordi di Oslo, ma abbia anche consistenza e caratteristiche territoriali vitali. Soltanto a queste condizioni gli arabi potranno accettare un accordo che non sia destinato a fallire nel volgere di pochi anni e che, quindi, faccia coincidere la pace con la sicurezza d’Israele. Al di fuori di questa non sembrano esistere soluzioni alternative, se non quella della indefinita prosecuzione delle ostilità e dell’instabilità mediorientale, che – si badi – non è certo attribuibile soltanto alla questione palestinese.

Poiché le prospettive demografiche delle due comunità escludono che nella «grande Palestina» possa esservi una maggioranza ebraica (al momento, la differenza tra ebrei e arabi nel territorio considerato è solo di 300.000 abitanti a favore dei primi) il sogno di Eretz Israel deve essere accantonato, tanto più che esso non è mai stato formalmente un obiettivo dell’intero movimento sionista. E questa rinuncia non comporta affatto la cancellazione d’Israele dalla carta geografica, quali che possano essere le minacce degli estremisti islamici (arabi e non). Si tratta di un’ipotesi che è condivisa da autorevolissimi politici israeliani come l’ex ministro degli esteri Shlomo Ben-Ami, che ha scritto: «Demografia e territorio, i due pilastri dell’idea sionista, non possono essere riconciliati a meno che Israele non abbandoni le proprie ambizioni territoriali e si distacchi dal sogno irrealizzabile e moralmen- te corruttore di possedere le terre bibliche di Eretz Israel».10

Che questa rinuncia possa essere considerata un pericolo per l’esistenza d’Israele significa soltanto essere portatori di un pensiero vecchio e superato: lo Stato ebraico, grazie anche al generoso e tenace sostegno delle comunità ebraiche e in particolare di quella americana, è oggi la principale potenza regionale del Medio Oriente. Pensare che esso possa essere distrutto per la perdita di un territorio conquistato duramente, ma abusivamente (almeno rispetto ai parametri posti dalla comunità internazionale) significa essere ancora succubi della suggestione della terra d’Israele e del suo possesso integrale quali condizioni dell’esistenza di un popolo. Si tratta, in definitiva, di una visione superata, negativo retaggio delle persecuzioni e della separatezza.

 

[1] Cfr. C. G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei Savi di Sion»: un apocrifo del XX secolo, Marsilio, Venezia 1998, p. 245.

[2] Cfr. H. Arendt, The origins of Totalitarianism, Shocken Books, New York 2004, pp. 8 e 29. Ovviamente, la Arendt esclude fermamente che la formazione di una coscienza ebraica sia legata soltanto al sorgere dell’antisemitismo, perché afferma che «anche una superficiale conoscenza della storia ebraica», con le vicissitudini che risalgono all’esilio babilonese, «è sufficiente a confutare quest’ultimo mito su questo argomento».

[3] Si veda, a questo proposito, l’articolo di C. McC. Mathias jr., Ethnic Groups and Foreign Policy, in «Foreign Affairs», 5/1981, pp. 975-98.

[4] Cfr. J. J. Mearsheimer, S. M. Walt, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, Farrar, Straus and Giroux, New York 2007, p. 13. Fra l’altro, nello stesso contesto, i due autori evocano le teorie della grande cospirazione ebraica (i Protocolli dei savi di Sion) e ricordano espressamente l’assenso ricevuto dal Ku Klux Klan. Un’indiretta conferma che il giornalista del «Corriere» citato precedentemente ha emesso la sua fatwa senza aver letto il libro di cui parla.

[5] Circa il ruolo di Jacobson nell’amministrazione Truman si veda B. R. Kuniholm, U.S. Policy in the Near East, in M. J. Lacey (a cura di), The Truman Presidency, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 324. Sui rapporti tra Johnson e i coniugi Krim cfr. T. Segev, 1967. Israel, the War, and the Year That Transformed the Middle East, Metropolitan Books, New York 2007, pp. 116-19.

[6] Si veda in proposito M. Friedman, The Conservative Revolution. Jewish Intellectuals and the Shaping of Public Policy, Cambridge University Press, New York 2005.

[7] Questa descrizione delle condizioni di vita dei palestinesi nei territori occupati è di Ron Pundak, autorevole esponente israeliano che ha partecipato al processo di pace, e riguardano gli anni fino al 2001 (cfr. R. Pundak, From Oslo to Taba. What Went Wrong?, in «Survival», 3/2001, pp. 34-35). La situazione non è certo cambiata: «Le Monde» del 27 ottobre 2007 forniva un drammatico quadro delle condizioni di vita nella striscia di Gaza, dichiarata «entità nemica» dal governo israeliano. In realtà, non si va molto lontano dal vero paragonando la situazione a Gaza ad una sorta di immenso campo di concentramento, dal quale non è possibile uscire e dove i rifornimenti essenziali arrivano soltanto in misura appena sufficiente per evitare la catastrofe umanitaria.

[8] Per una breve, ma accurata, storia della vicenda nucleare israeliana si veda https://www.nti.org/e_research/profiles/Israel/Nuclear/Index.html

[9] Cfr. R. Pundak, art. cit., pp. 40-41.

[10] Cfr. S. Ben-Ami, Palestina, la storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana, Corbaccio, Milano 2007, p. 515.