Commercio, globalizzazione e Agenda di Lisbona

Di Fredrik Erixon Giovedì 27 Marzo 2008 13:59 Stampa

Oggi l’Europa costituisce la principale area commerciale del mondo. Anche senza tenere conto dei flussi commerciali tra gli Stati membri dell’Unione, il volume degli scambi europei è notevolmente superiore a quello degli Stati Uniti e della Cina. L’allargamento dell’Unione da quindici a ventisette membri nel giro di pochi anni e, soprattutto, la crescente fiducia nelle attività commerciali (misurata sulla base del rapporto scambi commerciali-PIL) hanno favorito le attività di importazione ed esportazione, portando l’Europa ad una posizione di vertice in questo campo.

Ma questo primato non si conserverà per inerzia. La struttura dell’economia mondiale è in rapida trasformazione e in quest’epoca di esplorazione e innovazione le classifiche cambiano in continuazione e in certi casi da un giorno all’altro. I leader europei sono consapevoli di quanto sia importante promuovere la competitività, ma spesso stentano a comprendere la struttura dell’ordine economico emergente e cosa essa comporti per la politica europea. In questo intervento ci si propone di tratteggiare a grandi linee le principali caratteristiche del nuovo sistema economico mondiale, di discutere dei problemi che l’Europa incontra nell’adeguarsi alla globalizzazione e di analizzare le ragioni per cui l’Agenda di Lisbona non è riuscita a migliorarne la competitività.

Il nuovo sistema economico mondiale Negli ultimi decenni si è assistito a una notevole trasformazione dei modelli commerciali mondiali. Gli scambi internazionali sono cresciuti a un ritmo mai visto prima – in media a una velocità del 20% superiore rispetto al ritmo di crescita del prodotto mondiale degli ultimi cinquant’anni. Il rapido aumento degli scambi commerciali ha favorito il formarsi di una struttura più indipendente dell’economia mondiale. L’idea di un’autosufficienza nazionale è oggi priva di efficacia, un concetto destinato ai libri di storia più che ai programmi politici. Tutti, tranne alcuni paesi non all’avanguardia, dipendono completamente dagli scambi transfrontalieri. L’eliminazione delle barriere commerciali è un fattore fondamentale di questa evoluzione. Nel 1947, quando fu istituito il GATT, il precursore del WTO, i dazi medi sui beni erano pari al 40%. Oggi la media è dell’1,4% e molti prodotti, in particolare quelli del settore informatico e delle telecomunicazioni, sono esenti da dazi.

L’Europa è stata uno dei motori che hanno spinto verso la progressiva riduzione delle barriere commerciali nel periodo postbellico. Insieme agli Stati Uniti, l’Unione europea è stata a lungo ai vertici dell’ordine commerciale mondiale, spingendolo verso una maggiore libertà degli scambi. Le successive riforme della politica commerciale interna dell’unione hanno prodotto una sostanziale spinta verso la modifica degli scambi multilaterali. La costituzione dell’Unione doganale dopo il Trattato di Roma ha portato a una riduzione complessiva delle tariffe in Europa, soprattutto in Francia e in Italia. Di pari importanza è stata la spinta esercitata dalla politica commerciale comunitaria sugli altri paesi europei, che li ha indotti ad intraprendere riforme in ambito commerciale (l’EFTA è nata come reazione alle riforme introdotte dal Trattato di Roma) e ha favorito la conclusione di due round di liberalizzazione multilaterale nel quadro del GATT: il Dillon Round e, soprattutto, il Kennedy Round, entrambi negoziati negli anni Sessanta. Le riforme del commercio all’interno dell’Europa sono risultate essenziali per arrivare a una leadership multilaterale – l’Europa si preparava a una più ampia liberalizzazione sulla scena internazionale – ma hanno offerto anche un incentivo in più ad altri paesi, in particolare agli Stati Uniti, per negoziare riduzioni multilaterali e avere un migliore accesso ai mercati europei.

L’unione doganale ha ridotto le barriere al commercio tra i suoi membri e ha garantito ai paesi partecipanti un accesso preferenziale al mercato interno degli altri membri. Per evitare di essere sfavoriti nell’accesso ai principali mercati europei, gli Stati Uniti sono stati indotti a premere per una riduzione generalizzata dei dazi in tutto il mondo.

Nei primi anni Novanta, nel corso dell’Uruguay Round, si è utilizzato uno schema analogo per la liberalizzazione degli scambi multilaterali (prima all’interno e poi all’esterno). Il Mercato unico europeo e l’analo- go processo di costruzione di un’area di libero scambio nell’America settentrionale hanno dato la spinta necessaria a concludere il round più ambizioso di tutta la storia del GATT.

La politica commerciale, però, non è più modellata lungo l’asse atlantico: centocinquanta paesi prendono oggi parte alle trattative e, quel che più conta, quasi lo stesso numero di soggetti effettua scambi commerciali importanti con altri paesi. Il rapido aumento del volume degli scambi verificatosi negli ultimi dieci anni ha riguardato tutti i continenti, mentre, nello stesso periodo, il commercio internazionale è cresciuto più in fretta della produzione. L’Asia è al primo posto in questo trend, ma anche in Africa si assiste a una forte crescita del commercio.

Il modello di crescita asiatico si basa su un considerevole rapporto scambi commerciali-PIL, in media tra il 130 e il 150% nel Sud-Est asiatico. Le attività economiche del continente sono state dominate a lungo dal Giappone e dalle «tigri asiatiche» di prima generazione, ma altri paesi, fra cui soprattutto la Cina, si sono messi rapidamente al passo. Il commercio cinese è cresciuto in media del 15-20% all’anno negli ultimi anni e la Cina è già oggi più integrata nell’economia globale di quanto non sia il Giappone, che è stato recentemente scalzato da Pechino dal terzo posto della classifica mondiale per quanto riguarda il volume di scambi. Questa inedita ridefinizione della geografia commerciale pare destinata a continuare nel prossimo futuro.

La regionalizzazione delle politiche commerciali è stata particolarmente marcata negli ultimi quindici anni. Si è soprattutto moltiplicato in modo esponenziale il numero degli accordi bilaterali. L’Unione europea ha recentemente avviato un nuovo programma di accordi di libero scambio con non meno di ventiquattro paesi. Nel solo Sud-Est asiatico ci sono sessanta nuovi accordi in fase di negoziazione.

Questa tendenza si riflette anche nella struttura attuale degli scambi. In certe aree del mondo essa ha prodotto una struttura soprattutto regionale, secondo un modello hub and spoke. In altre zone la regionalizzazione ha generato più facilmente forme di scambio internazionale e ha favorito la tendenza verso un «commercio frammentato», secondo uno schema di trade in tasks piuttosto che di commercio di prodotti finiti. Sono strutture che meglio si adattano alle strategie di numerose imprese, che puntano a globalizzare la supply chain. La politica commerciale in Asia è più favorevole a un orientamento supply chain rispetto a quella dell’Unione europea. Il commercio asiatico si concentra di più sulla produzione di grosse quantità e con margini ridotti, ed è più sensibile a tutte le forme di regolamentazione commerciale. Inoltre le norme molto rigide rispetto al paese d’origine dei prodotti, introdotte dall’Unione europea negli accordi bilaterali, impediscono a molte imprese di commerciare con dazi ridotti perché tali norme non sono in sintonia con le moderne filiere commerciali. La frammentazione dei flussi commerciali, inoltre, è stata favorita dal rapido aumento degli investimenti esteri diretti. In realtà, l’economia mondiale oggi non dipende in maniera prevalente dagli scambi: in primo luogo vi sono gli investimenti e poi le attività commerciali. Questa «sofisticatezza funzionale » dell’economia mondiale ha aggiunto qualcosa di particolare all’integrazione economica. Il semplice aumento degli investimenti esteri diretti è impressionante e negli ultimi venti anni si è registrata una crescita doppia rispetto a quella degli scambi. Il volume totale di investimenti esteri diretti oggi è pari a circa 8 mila miliardi di dollari, rispetto a meno di 1.500 miliardi del 1990. Tali investimenti sono ancora soggetti a pesanti normative, ma hanno goduto di notevoli liberalizzazioni e hanno favorito la struttura di scambi trade in tasks che oggi caratterizza il commercio mondiale.

L’economia mondiale oggi non dipende più dallo scambio di merci. Questo rappresenta ancora un buon 70% del totale, ma la percentuale degli scambi di servizi è in crescita e nel prossimo futuro raggiungerà una percentuale quasi pari a quella dello scambio di beni. Questo servirà a correggere gli squilibri della globalizzazione, che ancora si affida consi- derevolmente allo scambio di merci.

L’esportazione di servizi sarà incentivata soprattutto dal crescente movimento dei fattori di produzione: il capitale (gli investimenti) e il lavoro (l’emigrazione). La sempre maggiore commerciabilità di molti servizi porterà inoltre a una rapida crescita degli scambi nel settore terziario.

L’economia europea Quanto di queste trasformazioni del contesto dell’economia mondiale vale per l’Europa? Come s’inserisce il nostro continente in questo ampio affresco della globalizzazione? L’Europa ha in parte goduto dei grandi benefici dall’integrazione economica mondiale, il suo benessere è sostanzialmente aumentato grazie alla globalizzazione, ma la sua collocazione nell’economia mondiale presenta alcuni problemi.

In primo luogo, la globalizzazione ha reso più acuta l’esigenza di cambiamenti strutturali, mentre l’Europa non è cambiata abbastanza e resta ancora legata a una filosofia economica incentrata sulla produzione di merci. Il settore manifatturiero rappresenta una quota significativa dell’economia europea e la recente ripresa della crescita in alcuni dei principali Stati europei è in gran parte dovuta agli aumenti di produttività in quest’area. Una percentuale sorprendentemente elevata della crescita delle esportazioni è anch’essa merito del settore industriale. La posizione che l’Europa occuperà in futuro nell’economia mondiale non dipenderà da questo settore. I vantaggi comparativi di molte economie emergenti sono troppo netti per consentire all’Europa di mantenere una posizione concorrenziale nella produzione industriale.

Il peso considerevole che conservano le attività manifatturiere finisce per incidere sulla politica commerciale. L’Europa oggi è la principale utilizzatrice degli strumenti di difesa commerciale, soprattutto di dazi antidumping, che si applicano soprattutto contro le esportazioni delle economie emergenti, ma che hanno in genere poco a che vedere con il dumping o la concorrenza sleale. Non deve sorprendere che i meno competitivi tra i paesi dell’Unione, in particolare la Grecia e l’Italia, siano i più accesi fautori di un ampio ricorso a misure protezionistiche.

In secondo luogo l’Europa investe troppo poco nella ricerca e nello sviluppo e, fatto altrettanto importante, i suoi investimenti generalmente portano pochi vantaggi all’economia. Rispetto ad altre aree sviluppate del mondo, una quota più rilevante degli investimenti è tesa a sosti- tuire il lavoro con il capitale (tecnologia). I costi generalmente elevati del lavoro in Europa incentivano questa sostituzione e questo schema si riscontra con maggiore frequenza nei settori non commerciabili, quelli che non sono integrati nell’economia mondiale.

L’Europa ha inoltre un altro problema che riguarda i profitti sugli investimenti: quello relativo agli investimenti in capitale umano (in particolare l’istruzione superiore). Il salario di riserva in molti paesi europei è elevato e ha favorito il passaggio dal lavoro alla scuola di molti giovani. Una percentuale notevole di giovani laureati europei, però, è senza lavoro e non riesce a trovare un lavoro che corrisponda al grado di istruzione conseguito. Ne consegue che i criteri per l’ingresso nel mondo del lavoro si sono fatti più rigidi. Un’attività che quindici anni fa richiedeva un semplice diploma è oggi svolta da laureati. In molti paesi europei un cassiere di banca al primo impiego ha una laurea triennale o quadriennale in economia. La resa di questi investimenti nell’istruzione superiore è quindi troppo scarsa.

In terzo luogo, la struttura dell’economia europea non favorisce una facile ascesa nella catena del valore aggiunto del commercio internazionale. È più giustificato parlare di logica della catena del valore aggiunto del protezionismo in Europa.

Il passaggio da un’economia a base industriale verso una fondata sul terziario procede lentamente, ma è comunque in atto in Europa. Poiché la percentuale relativa dei servizi nel prodotto totale aumenta, il livello di protezione commerciale de facto gli si adegua e porta, nel complesso, a un maggiore protezionismo. Perché questo accade? In primo luogo, i servizi godono di protezioni molto più forti rispetto alla produzione industriale. La rimozione delle barriere commerciali nel dopoguerra ha creato in Europa un settore industriale nel complesso globalmente integrato. Ma questa evoluzione è rimasta in sostanza limitata allo scambio di merci. Quasi il 60% della produzione di servizi in Europa non è commerciabile. Ciò è in parte dovuto al carattere di certi servizi: non tutti i servizi possono essere commercializzati. Ma la ragione principale per la quale molti di essi non possono essere commercializzati va ricercata nell’organizzazione della produzione e dei mercati. In sintesi, la struttura produttiva e quella di mercato di molti servizi non ne favoriscono la commercializzazione. Ciò vale in particolare per molti servizi della fascia alta della catena del valore aggiunto: istruzione e assistenza sanitaria, per esempio. Tutto ciò mina la struttura dell’economia, dal punto di vista del commercio internazionale. Si riducono i posti di lavoro nel settore industriale tradeoriented mentre aumenta il numero di addetti nei settori dei servizi non commerciabili. Quando certi settori chiave dell’economia sono bloccati all’interno di una struttura che li esclude artificialmente dal commercio internazionale, è l’intera economia che finisce per soffrirne. Queste considerazioni possono essere illustrate ricorrendo a due esempi.

Non molto tempo fa, in India, la Knowledge Commission ha affermato che nei prossimi decenni il paese avrà bisogno di 1.500 nuove università. L’India da sola avrà una crescita colossale nel mercato dell’istruzione superiore. Poche università europee, però, sembrano interessate ad accaparrarsi una quota di quel mercato in crescita. Infatti, in gran parte dei paesi europei, le politiche per l’università e l’istruzione superiore disincentivano l’attività in una prospettiva di mercato globale.

Il mercato dell’assistenza sanitaria in Cina, secondo le proiezioni, entro il 2020 arriverà a pesare per diverse migliaia di miliardi di dollari. Non risulta esserci, però, nemmeno un ospedale europeo che stia assumendo una posizione strategica tale da potersi inserire in quel mercato in ascesa. In realtà, gran parte dei paesi europei rifiuta il concetto di commercio nell’assistenza sanitaria.

In altre parole, i settori chiave del terziario in Europa non sono organizzati per trarre vantaggio dalla rapida crescita dei mercati emergenti. Ciò pone questi settori (e i rispettivi paesi) sulla difensiva e limita la posizione dell’Unione europea nella politica degli scambi internazionali. L’Europa non è ai primi posti nel processo di riduzione delle barriere alla commercializzazione dei servizi. In molti settori chiave l’Europa non accetta di impegnarsi in qualsiasi forma di liberalizzazione del commercio di servizi. Negli attuali negoziati del Doha Round che riguardano i servizi, l’Europa ha avanzato le offerte più scarse di tutti per settori quali quello dell’istruzione e della sanità. È interessante osservare che non è l’ala europea tradizionalmente protezionista che soffoca i tentativi di liberalizzazione, ma sono invece i paesi che di solito sono più favorevoli al libero scambio. La Svezia è il paese del Gruppo dei quindici che ha sottoscritto meno impegni in favore della liberalizzazione dei servizi all’interno dell’Uruguay Round e anche nella tornata attuale si è dimostrato il meno disponibile ad una liberalizzazione nello stesso settore.

L’Agenda di Lisbona L’Agenda di Lisbona era nata come un ambizioso e complessivo programma di riforme allo scopo di aumentare la competitività europea. Molte caratteristiche di questa agenda si basano su un’analisi corretta degli interessi e dei benefici della crescita economica per l’Europa, ma per quanto attiene alle riforme realizzate negli Stati membri, l’Agenda è stata un fallimento. L’ambizione manifesta di questo programma di riforme – fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo entro il 2010 – era irrealistica già all’esordio dell’Agenda di Lisbona. Molti degli obiettivi secondari fissati, anche le meno problematiche tra le riforme proposte, come quelle relative ai servizi finanziari e alla proprietà intellettuale, sono inciampate nell’ostacolo di una resistenza politica. La Commissione ha cercato di essere propositiva e attiva, lanciando nuove iniziative per indurre gli Stati membri a intensificare l’impegno riformatore, ma con scarsi risultati. Ciò ha anche messo in luce un problema essenziale dell’Agenda di Lisbona: essa è chiaramente un progetto della Commissione, ma l’attuazione delle riforme è stata quasi completamente affidata agli Stati membri. All’Unione europea manca la competenza giurisdizionale per agire in molti ambiti indicati dall’Agenda, e in effetti nemmeno una parte dell’Agenda riguarda un ambito nel quale l’Unione sia concretamente in grado di proporre riforme che incidano in modo sostanziale sulla competitività, che tocchino cioè la questione della liberalizzazione del commercio estero.

Gli aspetti più preoccupanti dell’Agenda di Lisbona, però, non riguardano la struttura politica, ma il contenuto. In sostanza, le riforme che l’Agenda di Lisbona propone arrivano con quindici anni di ritardo e non fanno molto per permettere all’Europa di adeguarsi alla nuova struttura dell’economia mondiale. La parte riguardante le liberalizzazioni, che costituisce l’elemento centrale dell’Agenda, è indispensabile, ma il ritorno che possono dare queste riforme è molto minore oggi di quello che avrebbero potuto dare venti anni fa. I mercati, i soggetti in competizione e la stessa struttura economica sono cambiati a un livello tale che da sole queste riforme non garantiranno ai produttori gli stessi vantaggi di una volta.

Per esempio, la liberalizzazione delle telecomunicazioni in Italia darà effetti positivi per i consumatori, ma difficilmente ne offrirà anche alle imprese del settore, che non saranno competitive su un mercato nel quale altri attori già da quindici anni si sono adattati alla concorrenza. Osservazioni analoghe possono essere fatte anche per altri ambiti politici: gli investimenti nel settore dell’information technology, le riforme per la promozione dell’innovazione sono ancora indispensabili, ma non garantiscono più un vantaggio competitivo. Quindici anni fa l’Agenda di Lisbona sarebbe stato un piano di riforme aggressivo; oggi è piuttosto un tentativo di difesa per ridurre lo svantaggio rispetto alla concorrenza. Dal punto di vista dell’adeguamento alla nuova struttura dell’economia mondiale, ci sono ancora altri due elementi importanti che mancano nell’Agenda di Lisbona.

In primo luogo, l’Agenda non affronta affatto i problemi della supply chain. Sono stati fatti tentativi per inserire una «dimensione esterna» all’Agenda, collegandola alle strategie ambiziose del Doha Round per la liberalizzazione degli scambi. Ma quei tentativi non si sono concretizzati. C’è un impegno europeo per la liberalizzazione multilaterale degli scambi, ma questo impegno non si vede nelle politiche attuate e nelle proposte presentate ai negoziati. La principale priorità dell’Unione europea continua a essere quella di proteggere l’agricoltura europea da una vera liberalizzazione e dall’apertura dei mercati. L’attuale impasse del Doha Round non comporta solo un blocco dei tentativi miranti a liberalizzare le tariffe su base multilaterale e, in tal modo, ad avere accesso ai mercati emergenti superando i complessi problemi relativi alle norme sul paese d’origine presenti negli accordi bilaterali. Esso in pratica favorisce l’arroccamento all’interno delle logiche del bilateralismo e del regionalismo. La nuova politica dell’Unione per gli accordi bilaterali renderà ancora più complicata la vita alle imprese che operano su filiere complesse. In secondo luogo, l’Agenda di Lisbona non prende affatto in considerazione le riforme in settori fondamentali del terziario e necessarie per imporre loro le logiche di mercato. Ciò si traduce in una riduzione delle possibilità di trarre vantaggio dalla rapida crescita del settore terziario nei mercati emergenti: settore che potrebbe offrire sviluppo economico e nuovi posti di lavoro all’Europa sono stati completamente dimenticati dall’Agenda.

L’insuccesso dell’Agenda di Lisbona non sarebbe stato un problema se i singoli paesi avessero portato avanti le riforme per proprio conto. Ma non l’hanno fatto. Molti paesi europei soffrono di una certa inerzia nell’attuazione delle riforme. Nel breve periodo questa inerzia sarà di ostacolo alla crescita economica. Sul lungo periodo, favorirà una sempre maggiore opposizione alla globalizzazione e a politiche economiche più aperte verso l’esterno.