Intenti originari e difficoltà attuali del TNP

Di Marilena Gala Giovedì 27 Marzo 2008 14:28 Stampa

Il Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP) è uno degli accordi internazionali che registra il più alto numero di adesioni. È stato firmato, infatti, da tutti i paesi del mondo salvo India, Israele e Pakistan, mentre la Corea del Nord ne ha ripudiato il dettato nel 2003. Quando venne concluso, il 1° luglio 1968, dopo lunghe discussioni fra quanti erano fautori di una sua durata indefinita e coloro che invece ne chiedevano una validità limitata nel tempo, all’articolo X fu stabilito che, passati venticinque anni dall’entrata in vigore, sarebbe stata convocata una conferenza per decidere se il Trattato dovesse essere prorogato indefinitamente, o soltanto per un determinato periodo di tempo.1

In effetti, trascorso il termine fissato dai firmatari originari, nel 1995 la conferenza che ne ha ridiscusso la durata si è espressa a favore della sua estensione a tempo indeterminato, senza tuttavia rinunciare a chiedere ancora con forza che i paesi in possesso di armi di distruzione di massa attuino con maggiore convinzione una politica di disarmo capace di liberare il mondo dall’incubo dell’olocausto nucleare. Questo tipo di condizione non rappresenta certo una novità. Già quando il Trattato, nel 1968, venne stilato per la parafatura, i paesi cosiddetti NNWS (Non Nuclear Weapon States), con una definizione sancita ufficialmente nel preambolo del testo, chiesero che le potenze detentrici di arsenali atomici si impegnassero esplicitamente a voler «conseguire al più presto l’arresto della corsa alle armi nucleari e di adottare misure efficaci nella direzione del disarmo nucleare».2 L’accordo messo a punto dopo lunghi negoziati fra Stati Uniti e Unione Sovietica, infatti, esprimeva la precisa volontà di impedire l’ulteriore crescita del numero dei paesi dotati di arsenali di distruzione di massa. Questa intenzione diventava concreta attraverso un doppio ordine di promesse che le due categorie di Stati contraenti – i Nuclear Weapon States (NWS) e gli NNWS, appunto – stabilirono di voler mantenere al momento della sottoscrizione. Il primo gruppo di paesi si impegnava a «non trasferire a qualsiasi destinatario armi nucleari o altri congegni esplosivi, ovvero il controllo su tali armi o congegni esplosivi direttamente o indirettamente »,3 così come prometteva di non assistere in alcun modo uno Stato militarmente non nucleare a diventarlo, grazie al trasferimento delle conoscenze in materia. La seconda categoria di paesi contraenti si impegnava a sua volta ad astenersi da uno sforzo esattamente speculare, finalizzato quindi a procurarsi ordigni attraverso trasferimenti diretti o indiretti, oppure ricorrendo alla loro fabbricazione, più o meno assistita da parte di altre potenze. In sostanza, a fronte del contenimento dello sfruttamento a fini militari dell’energia atomica, che il Trattato evidentemente perseguiva, e tuttora persegue, con l’impegno chiesto ai Non Nuclear Weapon States di perpetuare lo stato di inferiorità del loro apparato difensivo, il preambolo intendeva condizionare le potenze appartenenti al club nucleare a trasferire lo spirito esplicitamente inibitorio del TNP su altri accordi, che la comunità internazionale assumeva sarebbero scaturiti dalla volontà delle maggiori potenze – o comunque di quelle militarmente più sofisticate – di procedere al necessario ridimensionamento dei rispettivi arsenali. La formulazione del Trattato messa a punto tra il 1967 e la prima metà del 19684 era il risultato di uno sforzo diplomatico che aveva impegnato americani e sovietici almeno a partire dalla conclusione del Trattato per la messa al bando parziale degli esperimenti, sottoscritto il 5 agosto 1963. In effetti, con quest’ultimo accordo le due superpotenze avevano preso atto di condividere un interesse fondamentale sul piano della regolamentazione del sistema internazionale. Decidendo di impegnarsi a non sperimentare più ordigni nucleari nell’atmosfera, oltre che nello spazio e in mare, i governi di Washington e Mosca (insieme a quello di Londra) avevano mostrato grande sensibilità verso il problema del- l’aumento del numero dei paesi in possesso di arsenali di distruzione di massa, per costruire i quali era – ed è ancora, sotto molti aspetti – essenziale la possibilità di condurre esperimenti. Si trattava, in sostanza, del primo passo verso misure più specificamente non-proliferatorie che Stati Uniti e Unione Sovietica intraprendevano, non a caso, all’indomani della crisi di Cuba, quando si era sfiorato il conflitto globale, e nel momento in cui, ormai, il dissidio sino-sovietico era in fase di avanzato sviluppo. Sebbene lontani non solo fisicamente, ma anche nella natura delle problematiche poste alle superpotenze, questi due episodi accelerarono molto la conclusione del cosiddetto Limited Test Ban Treaty (LTBT).5 Infatti, su un fronte Mosca e Washington avevano potuto veri- ficare direttamente quanto fosse precario l’equilibrio di deterrenza che tratteneva entrambe le potenze dallo scatenare uno scontro nucleare; sull’altro, la determinazione con la quale Pechino contestava la leadership dell’URSS all’interno del blocco, e non solo, induceva il Cremlino a tentare di frenare il programma nucleare cinese che pure aveva direttamente contribuito ad avviare, dopo l’ascesa al potere di Chruscev.6

L’Unione Sovietica, tuttavia, non era la sola a perseguire l’obiettivo di un sistema di alleanze più facilmente controllabile. Anche gli Stati Uniti, all’interno del Patto atlantico, subivano le pressioni degli alleati verso una forma di condivisione del controllo dell’arsenale nucleare della NATO, quando non addirittura una più aperta contestazione del ruolo di potenza guida, come quella insistentemente promossa dal governo di Parigi. Per contrastare le aspirazioni – o velleità – di autonomia degli alleati, la Casa Bianca, a cominciare dalla presidenza Eisenhower, e con le due successive amministrazioni democratiche, aveva articolato una serie di proposte di nuclear sharing con le quali Washington sperava di convincere gli europei ad abbandonare i progetti di costruzione di arsenali nucleari nazionali che, a metà degli anni Sessanta, però, erano già in fase di avanzato sviluppo in Gran Bretagna come in Francia.7

Per il governo americano, in particolare dal momento in cui Kennedy salì al potere, e ancor prima che la crisi di Cuba ne sottolineasse ulteriormente l’urgenza, contenere la diffusione degli arsenali era una priorità che si legava direttamente all’esigenza di promuovere la stabilizzazione del sistema internazionale e, di conseguenza, di contenere il pericolo di una escalation nucleare. Non era ancora l’epoca della parità strategica fra le due superpotenze, ma era chiaro che lo sforzo profuso dal regime sovietico andava in quella direzione. In un contesto segnato da una crescente capacità di annientamento reciproco dei due maggiori contendenti della guerra fredda, l’elemento nucleare, nella sua declinazione militare, rappresentava un criterio discriminante cruciale, in grado di stabilire il rango di un paese. Non a caso, mentre il governo di Washington cercava di convincere gli alleati europei che ancora non avevano intrapreso quella strada – e soprattutto la Germania Federale – a rinunciare a un deterrente nuclea- re nazionale, anche attraverso il progetto di costituzione di una forza multilaterale della NATO, erano numerosi i paesi che in aree anche lontane dall’Europa oramai guardavano ai programmi di sfruttamento dell’energia atomica come alla possibilità di assumere un ruolo di spicco rispetto ad altre nazioni della stessa regione.8

Del resto, quando ancora americani e sovietici non avevano intrapreso con determinazione la strada del contenimento della proliferazione nucleare, e il problema dei rischi delle ricadute radioattive restava relegato all’attenzione degli addetti ai lavori, lo sfruttamento delle potenzialità dell’atomo era sembrato a molti, anche fra i politici, la chiave di uno sviluppo economico al riparo dalle difficoltà e dai costi di un difficile reperimento di adeguate fonti di energia. E non è un caso che a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta anche l’Italia, insieme a molti altri paesi, fosse stata fortemente attratta da tali potenzialità, che, oltretutto, una volta messe a punto, consentono che da uno sfruttamento civile si passi a uno militare con relativa facilità.9 Sin da quando la firma del Trattato di non-proliferazione divenne materia di serio negoziato fra le due maggiori potenze nucleari, perciò, nessuna delle parti considerò mai l’ipotesi di inserire nel dettato dell’accordo il divieto per uno Stato non nucleare di sviluppare un programma per lo sfruttamento a fini pacifici dell’energia prodotta dall’atomo. Anzi, a tal proposito l’articolo IV recita espressamente: «Nulla del presente trattato dovrà essere interpretato nel senso di pregiudicare il diritto inalienabile di tutte le parti contraenti di sviluppare la ricerca, la produzione e l’uso dell’energia nucleare per scopi pacifici senza discriminazione».

All’epoca, semmai, la vera questione da risolvere in proposito fu il funzionamento del sistema di verifica dell’adempimento degli obblighi sottoscritti con il TNP. A tale scopo, dopo una faticosa attività diplomatica che impegnò i negoziatori americani nella ricerca di un compromesso fra le posizioni degli alleati della Comunità europea, del Giappone e quella dei sovietici, venne stabilito che l’attività di controllo, volta ad impedire la diversione dell’energia nucleare dalle utilizzazioni pacifiche ad armi o ad altri congegni esplosivi, sarebbe stata esercitata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Tale agenzia, creata nel 1957 come un’organizzazione intergovernativa operante nell’ambito delle Nazioni Unite,10 era chiamata a ribadire i criteri delle verifiche in un accordo da concludere con ciascuno Stato non militarmente nucleare firmatario del TNP. Su questa disposizione i paesi dell’Europa occidentale aderenti all’Euratom crearono non pochi problemi agli Stati Uniti, facendo resistenza all’idea di dover sottrarre alla nuova comunità europea un importante compito di controllo sull’uso del materiale fissile, affidatole dall’inizio del 1958. I sei paesi comunitari, infatti, quasi unanimemente, tentarono di condizionare la loro adesione al TNP al mantenimento in capo all’Euratom della responsabilità della salvaguardia del rispetto degli impegni eventualmente assunti. In tal modo, però, essi determinavano un problema di credibilità della verifica, poiché i sei governi del vecchio continente avrebbero operato attraverso un organismo internazionale che era una loro diretta emanazione. L’impasse, creata soprattutto dalla volontà di paesi come la Francia e la Germania di sottrarre la loro nascente industria tecnologicamente avanzata al rischio di spionaggio industriale, legato alla presenza di ispettori provenienti da nazioni esterne alla Comunità, e quindi anche da parte americana, venne superata con una formula che, all’articolo III del TNP, in sostanza condizionava l’ammissibilità di un sistema di controllo alternativo alla sua conformità con quello predisposto dall’AIEA. L’opportunità, o meglio, l’impegno assunto da tutte le parti contraenti a facilitare «il più completo scambio possibile di equipaggiamenti, materiali e informazioni scientifiche e tecniche per gli usi pacifici dell’energia nucleare», sancito al secondo paragrafo dell’articolo IV del Trattato, aveva rappresentato, dunque, uno degli elementi cruciali per indurre gli Stati non nucleari ad accettare un accordo in cui si prefigurasse per loro la permanenza di questo stato di «minorità». Tuttavia, nel momento in cui il Trattato venne stilato, e quindi sottoscritto nel giro di poco tempo da un gran numero di governi, quale primo accordo stipulato con l’esplicito obiettivo di promuovere il controllo degli armamenti atomici, esso poté beneficiare di un altro fattore che ne rendeva il dettato plausibile; anzi, addirittura, con un certo paradosso, politicamente più convincente. Non bisogna dimenticare, infatti, che la contrapposizione bipolare, con il relativo equilibrio di deterrenza, offriva il contesto forse più adatto a una linea di azione da parte delle due superpotenze che, in nome della protezione assicurata ai rispettivi alleati, poteva spingerne i governi ad abbandonare i costosi progetti nucleari in ambito militare.

Se questa considerazione ha una sua logica evidenza, è altrettanto innegabile che, rispetto a quanto accaduto all’interno dell’Alleanza atlantica, essa doveva fare i conti con le proposte oggetto di discussione nella NATO almeno a partire dalla presidenza Kennedy, che per prima aveva dato una fisionomia più precisa al cosiddetto nuclear sharing attraverso il progetto di multilateral force (MLF), o forza multilaterale. L’iniziativa assunta a Washington, nella primavera del 1963, di ridare slancio all’idea di MLF, a distanza di tempo, infatti, rischiò di essere causa di fallimento dei negoziati sul Trattato di non-proliferazione.

L’Amministrazione americana si trovò stretta fra due fuochi: da una parte i sovietici che volevano introdurre nelle disposizioni del TNP un esplicito divieto agli NWS di trasferire ordigni atomici anche a gruppi di Stati, con l’evidente obiettivo di colpire proprio la possibile intesa da anni in discussione nella NATO; dall’altro, gli alleati ai quali gli Stati Uniti avevano reiterato la promessa di renderli partecipi delle decisioni relative all’uso del deterrente e agli occhi dei quali il governo americano si preoccupava di apparire credibile.

In realtà, la Casa Bianca seguiva una politica perfettamente coerente, cercando di promuovere un Trattato di non-proliferazione insieme a un accordo in ambito atlantico che mantenesse un controllo centralizzato – e quindi in mani americane – dell’arsenale atomico occidentale. Il problema nasceva nel momento in cui il progetto di forza multilaterale si scontrava con l’assoluto rifiuto da parte di Mosca di accettare l’ipotesi che la Germania Federale potesse entrare a far parte di un gruppo di paesi NATO che, anche solo indirettamente, aveva il controllo del «pul- sante» con cui decidere il ricorso al nucleare. Su questo composito ma univoco interesse americano verso la non diffusione degli arsenali atomici dentro e fuori l’alleanza, il Cremlino giocò per alcuni anni una partita volta a creare dissidio fra i paesi del Patto atlantico. In altri termini, l’Unione Sovietica, ben consapevole della priorità attribuita dall’avversario alla non-proliferazione cercava di servirsene per creare, o approfondire, divergenze in seno al fronte occidentale. La via d’uscita da questo stallo diplomatico si aprì soltanto quando la politica di sicurezza della NATO, dopo un approfondito dibattito durato almeno due anni, venne riformulata nel senso di attribuire molta più enfasi all’obiettivo del controllo, piuttosto che del possesso degli armamenti. Fra il 1965 e il 1967, infatti, in seno allo schieramento occidentale venne approvata la costituzione del cosiddetto Nuclear Planning Group, con il compito di consentire alla gran parte dei paesi europei di essere maggiormente coinvolti nell’elaborazione dei piani e nella scelta degli obiettivi strategici predisposti per l’eventualità di uno scontro con l’Unione Sovietica; non solo: nel 1967, con l’approvazione del rapporto Harmel, la distensione diventava una priorità di tutta l’alleanza.

Questo passaggio cruciale, che sottintendeva, evidentemente, un profondo cambio di prospettiva nei rapporti con l’Unione Sovietica, permise agli Stati Uniti di acconsentire a introdurre all’articolo I del TPN il divieto per gli Stati militarmente nucleari di trasferire armi atomiche o altri congegni esplosivi direttamente o indirettamente, ovvero a singoli paesi o a organizzazioni di carattere difensivo, come appunto la NATO. È chiaro che l’inversione di rotta così impressa ai rapporti fra i due blocchi – all’origine della stessa firma del Trattato di non-proliferazione nucleare – non sarebbe stata possibile senza una completa riformulazione da parte occidentale delle prospettive di collaborazione con il Cremlino. Altrettanto innegabile, tuttavia, è la centralità del ruolo della Repubblica Federale tedesca in questo senso, poiché soltanto nel momento in cui il governo di Bonn avesse optato per reimpostare i rapporti con Mosca sulla base del dialogo (ovvero della Ostpolitik), la Germania avrebbe potuto firmare il TNP senza temere di pregiudicare la tutela futura dei propri interessi e della propria sicurezza.

Attraverso questa sintetica disamina dei principali nodi negoziali affrontati nel corso delle trattative sul TNP diventa forse più semplice comprendere alcune delle difficoltà che caratterizzano la nostra epoca nel momento in cui l’interesse a evitare l’olocausto nucleare non può che rimanere generale, così come non può essere inferiore al passato la preoccupazione delle potenze detentrici e non di arsenali atomici, rispetto alla possibilità che aumenti il numero di paesi, o peggio delle organizzazioni (terroristiche) militarmente nucleari. Durante la guerra fredda il sistema internazionale si era progressivamente stabilizzato lungo linee di condotta che, per quanto arbitrariamente imposte, avevano finito per determinarne una dimensione bipolare sul piano globale. Questo processo di semplificazione, che in realtà nascondeva, come abbiamo visto a partire dagli anni Novanta, una accresciuta complessità dei piani sui quali si dipana la politica internazionale, ha mostrato comunque un buon grado di efficienza nel porre in atto almeno un controllo degli armamenti in senso orizzontale, cioè inibitorio verso l’aumento del numero dei NWS. Venuta meno, però, la contrapposizione che aveva determinato l’equilibrio del terrore, con un gusto del paradosso che solo la storia può insegnarci, è venuta a mancare anche la stabilità legata all’equilibrio di deterrenza reciproca che legava in un rapporto di dipendenza le due superpotenze, ma indirettamente anche il resto del sistema.

Lungi dal voler dipingere a tinte rasserenanti un periodo storico che invece è stato caratterizzato da aspre tensioni e crisi ricorrenti, talvolta molto pericolose, rimane la necessità di dover prendere atto dell’incapacità della comunità internazionale post guerra fredda di elaborare una linea d’azione sufficientemente condivisa; una linea, che possa sortire sui soggetti del sistema gli stessi effetti inibitori che la politica di controllo degli armamenti – o l’equilibrio del terrore, se si preferisce guardare l’altro lato della medaglia – hanno ottenuto.

È evidente che il presupposto di qualsiasi analisi o corso d’azione interessata a intervenire sul presente non può prescindere dalla constatazione che la tentazione da parte di piccole e medie potenze regionali di acquisire un ruolo di spicco, o la capacità di contrastare un nemico tradizionale grazie all’acquisizione di un pur modesto arsenale atomico rimane molto difficile, se non impossibile da eliminare. A questo, a maggior ragione, diventa necessario affiancare la consapevolezza della difficoltà di frenare il processo di diffusione che si alimenta di conoscenze tecnologiche in grado di abbassare significativamente i costi della fabbricazione degli ordigni di distruzione di massa. Le centrifughe a gas, infatti, permettono di produrre uranio arricchito, la materia prima di qualsiasi bomba atomica, con investimenti notevolmente ridotti rispetto al passato. Non solo: a differenza degli impianti di separazione di altra generazione, queste possono essere agevolmente occultate in capannoni industriali di medio-piccole dimensioni, che altrettanto facilmente riescono a sfuggire ai controlli che non siano capillari ispezioni sul posto. Per quanto cruciale in termini di pressione esercitata sui paesi aderenti al TNP, il regime delle verifiche non può tuttavia sostituire con la sorveglianza un compito che rimane anzitutto di natura politica e che perciò, in questo caso, spetta in particolare alle potenze militari nucleari di assolvere: per esempio, mandare un chiaro segnale in senso anti-proliferatorio, dando pieno vigore al Trattato per la messa al bando completa degli esperimenti nucleari.

[1] Il testo del Trattato è disponibile su numerosi siti internet. Le lingue ufficiali in cui venne redatto sono: inglese, francese, russo, spagnolo e cinese. La copia in italiano usata in questo caso è contenuta in «Dialoghi diplomatici», 9/1968.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Per un resoconto dettagliato di tutte le fasi dei negoziati rappresenta ancora un riferimento essenziale G. T. Seaborg, Stemming the Tide. Arms Control in the Johnson Years, Lexington Books, Lexington 1987.

[5] Sulle origini del Trattato e i rapporti fra le due superpotenze cfr. M. Gala, Il paradosso nucleare. Il Limited Test Ban Treaty come primo passo verso la distensione, Polistampa, Firenze 2002; sul ruolo britannico nel corso della fase finale dei negoziati per il LTBT cfr. K. Oliver, Kennedy, Macmillan and the Nuclear Test Ban Debate, 1961-1963, Macmillan, Londra 1998.

[6] Sui dissidi sino-sovietici del periodo fra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta e sul fallimento della collaborazione in campo nucleare, di particolare interesse sono i documenti raccolti in Leadership Transition in a Fractured Bloc , in «Cold War International History Project Bulletin», 10/1998.

[7] Sui programmi nucleari francese e britannico e sul loro significato politico nell’ambito dei rapporti atlantici cfr. I. Clark, Nuclear Diplomacy and the Special Relationship: Britain’s Deterrent and America, 1957-1962, Clarendon Press, Oxford 1994; B. Heuser, NATO, Britain, France and the FRG. Nuclear Strategies and Forces for Europe, 1949-2000, Macmillan, Londra 1997; M. Vaisse, La France et l’atome: études d’histoire nucléaire, Bruylant, Bruxelles 1994.

[8] Nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo, programmi nucleari erano stati avviati anche in Egitto, India e Jugoslavia, solo per fare alcuni esempi.

[9] Si tratta della cosiddetta questione del dual use, con un’espressione che negli anni più recenti ci siamo abituati a sentire ripetere. Sul programma nucleare italiano e più in generale sulla sua importanza in termini di potenza e di prestigio per il paese cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), Rubettino, Soveria Mannelli 2000; L. Nuti, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche, 1945-1991, Il Mulino, Bologna, in corso di stampa.

[10] La nascita dell’AIEA fu il risultato della proposta Atoms for Peace.