Giorgio Amendola e il caso FIAT

Di Roberto Gualtieri Martedì 13 Maggio 2008 20:10 Stampa

Un commento al testo celeberrimo, apparso su “Rinascita” il 9 novembre 1979, che fece scalpore, in cui Giorgio Amendola denuncia gli errori e le debolezze della CGIL e del suo partito nei confronti della violenza politica nelle fabbriche e del terrorismo. Con inoltre una severa analisi della sconfitta subita dal PCI negli anni Settanta ricostruendone le matrici politiche e culturali.

L’articolo di Giorgio Amendola dedicato agli interrogativi sul caso FIAT, di cui pubblichiamo ampi estratti, costituisce la più lucida e severa analisi di un esponente comunista di primo piano degli errori compiuti dal PCI e dal movimento operaio negli anni Settanta e delle ragioni della sua sconfitta. La critica di Amendola non riguarda solo la questione, in sé cruciale, delle insufficienze dimostrate dal PCI e dalla CGIL nella lotta all’estremismo e al terrorismo, ma partendo dalle vicende in atto alla FIAT investe aspetti centrali dell’intera azione politica seguita dal Partito comunista nel decennio e finisce con l’affrontare temi cruciali per la sua stessa identità: il significato della centralità operaia, la funzione e la natura della lotta di classe, il ruolo del lavoro in una società moderna.

L’articolo appare su “Rinascita” del 9 novembre 1979 e intende commentare il fallimento dello sciopero proclamato dai sindacati alla FIAT per protestare contro il licenziamento di sessantuno operai ritenuti responsabili del clima sempre più pesante di violenza e di intimidazione che si andava diffondendo nell’azienda, e che vedeva all’ordine del giorno, per usare le parole dello stesso Amendola, «le intimidazioni, le minacce, il dileggio, le macabre manifestazioni con le casse da morto ed i capi reparto trascinati a calci in prima fila». Erano, questi, atteggiamenti che costituivano un’oggettiva forma di legittimazione, se non di fiancheggiamento, della violenza brigatista, che proprio nelle settimane precedenti aveva preso di mira l’azienda con particolare intensità, compiendo un omicidio e due ferimenti. Dopo l’ultimo attentato, quello al dirigente Cesare Varetto (peraltro considerato tra i più disponibili al confronto), il sindacato aveva proclamato uno sciopero la cui scarsa partecipazione aveva indotto il 7 ottobre la federazione torinese a organizzare una riunione con i segretari delle organizzazioni di fabbrica della provincia per analizzare i limiti e le debolezze della lotta al terrorismo all’interno della classe operaia. Due giorni dopo erano giunti i licenziamenti, e la risposta del partito e del sindacato era stata dura: “l’Unità” aveva definito le loro motivazioni «oscure», e dopo una prima immediata sospensione del lavoro di due ore il 23 ottobre era stato proclamato uno sciopero che il giornale comunista non aveva potuto fare a mano di definire «riuscito a metà».

È in questo delicato contesto che Amendola decide di intervenire, e il cuore della sua critica è tanto la politica seguita nel capoluogo piemontese dalla FIOM di Sergio Garavini (in asse con il segretario piemontese della CGIL Fausto Bertinotti), giudicata tropo indulgente nei confronti di forme di lotta violente, quanto l’incapacità del PCI torinese di prenderne apertamente le distanze. Ma Amendola non si limita a denunciare lo stretto rapporto tra la violenza in fabbrica e il terrorismo e gli errori compiuti dal sindacato e dal partito su questo terreno. Il suo articolo propone infatti un’analisi di straordinaria ricchezza che, attraverso una ricostruzione della politica sindacale – e segnatamente operaia – del PCI, punta a individuare alcune delle ragioni politiche e culturali di una sconfitta che egli ritiene strategica e che sarebbe divenuta evidente in tutta la sua portata solo nel decennio successivo.

Nella prima parte del saggio, Amendola ricorda il duro colpo subito dalla FIOM alla FIAT nella metà degli anni Cinquanta, quando nell’elezione delle commissioni interne passò dal 63% dei voti del 1954 al 21% del 1956. La sua tesi è che quella crisi fosse conseguenza non solo della durezza della repressione padronale, ma anche dell’incapacità di superare l’angusto classismo che caratterizzava l’azione della CGIL in fabbrica, che a sua volta era strettamente connesso a una visione catastrofista delle prospettive dell’economia italiana che impediva di cogliere il ruolo svolto dal Piano Marshall nell’innescare uno spettacolare sviluppo dell’azienda e del paese. Da tale crisi la FIOM e il PCI seppero uscire solo al prezzo di una dolorosa autocritica promossa da Togliatti che, nel quadro del rilancio della “via italiana al socialismo” realizzato all’VIII Congresso del partito, portò il partito e il sindacato ad un profondo rinnovamento di analisi (consapevolezza dello sviluppo in atto su scala europea e del carattere dualistico che esso assumeva in Italia), di metodi (autonomia del sindacato, attenzione ai nuovi lavoratori poco qualificati entrati in fabbrica per effetto dell’automazione della produzione, articolazione delle rivendicazioni e superamento delle tradizionali parole d’ordine livellatrici) e di uomini (sostituzione di Roveda con Novella alla FIOM, rimozione di Negarville a Torino). Fu questa svolta a porre, già all’inizio degli anni Sessanta, le basi di una poderosa ripresa della CGIL alla FIAT, aprendo la strada a quel più generale sviluppo delle lotte operaie e sociali che fu tra i principali presupposti dell’avvio del trend elettorale positivo che avrebbe portato il PCI ai successi degli anni Settanta.

Si tratta di un’interpretazione che risulta oggi del tutto convincente, ma che allora contrastava notevolmente con quella in auge (tuttora assai diffusa nella storiografia) che datava l’avvio del ciclo ascendente del movimento operaio al biennio 1968-69. Proprio l’“autunno caldo” è invece per Amendola all’origine dell’affermazione di una nuova e diversa linea sindacale e politica, fondata sull’assemblearismo e sulla democrazia diretta (il “sindacato dei consigli”) e sul primato della lotta di classe in fabbrica rispetto alla costruzione di una più larga alleanza tra gruppi sociali diversi fondata sulla condivisione di una strategia riformatrice. Tale linea, di cui egli ricostruisce sinteticamente le matrici culturali (l’operaismo maturato negli anni Sessanta in riviste come “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini” e il suo incontro con l’estremismo di matrice cattolica della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento), è a suo giudizio fondamentalmente alternativa a quella che aveva ispirato la costruzione del “partito nuovo” togliattiano fin dai tempi della svolta di Salerno. Per Amendola, essa va considerata alla base degli errori compiuti nei confronti della violenza politica e del terrorismo, oltre che di un più generale indebolimento del PCI e del sindacato nelle fabbriche e nel paese. Ma egli non si limita a una denuncia severa e puntuale della degenerazione a cui lo sviluppo dell’assemblearismo aveva condotto la democrazia nelle fabbriche e nel sindacato e del forte livello di omertà e complicità che, soprattutto alla FIAT, si era diffuso nei confronti della violenza e del terrorismo. Al centro della critica amendoliana finisce l’intera linea di politica economica seguita dal PCI negli anni Settanta e la sua sostanziale subalternità nei confronti delle scelte che avevano portato all’adozione di un modello di sviluppo fondato sul circuito inflazione-svalutazione- scala mobile, rivelatosi incapace di affrontare i nodi di fondo della competitività del paese attraverso un vero patto sociale e un efficace scambio politico tra governo e opposizione. È una critica non solo politica ma anche culturale, che finisce con l’investire quella diffusa denuncia del “lavoro idiota” (cioè del lavoro in fabbrica concepito come strutturalmente alienante in regime capitalistico), che a suo giudizio contribuva ad alimentare nei giovani la ricerca di un posto fisso nel pubblico impiego o a portarli a ingrossare le file degli studenti fuori corso, che costituivano allora uno dei bacini principali dell’estremismo politico. A questo riguardo, è nota una polemica con Bruno Trentin (alla testa della FIOM e della FLM fino al 1977, allievo di Norberto Bobbio e tra i principali protagonisti teorici e politici della strategia sindacale degli anni Settanta), non solo sulla questione della federazione dei disoccupati e dei precari (che Trentin aveva proposto e che Amendola contestava), ma anche sul problema del lavoro. Alcuni giorni prima infatti proprio Trentin, intervistato su “l’Unità”, aveva denunciato «l’espropriazione della personalità e della cultura ad opera di questo modo di produrre», affermando di vedere una «pressione di massa» non tanto verso l’ozio ma verso «un’attività il cui scopo sia de- terminato da chi la fa», e le acute considerazioni che Amendola svolge a questo riguardo sono con ogni evidenza una risposta a queste tesi. L’articolo su cui verte questa riflessione suscitò una fortissima impressione nel partito e nell’opinione pubblica, e fu al centro dei lavori del successivo Comitato centrale. E tuttavia, se pure esso contribuì a rendere più netto l’atteggiamento comunista nei confronti della violenza in fabbrica, non riuscì invece nel suo scopo principale, quello di aprire una riflessione strategica sulla linea sindacale e politica del PCI analoga a quella sviluppata alla metà degli anni Cinquanta. L’anno successivo, quasi a dimostrare il carattere profetico delle parole di Amendola, proprio l’azienda torinese fu il teatro di una drammatica sconfitta del partito e della CGIL, mentre l’elaborazione a partire dal 1981 della linea dell’alternativa democratica rappresentò una svolta in senso opposto a quanto egli aveva auspicato, favorendo da un lato la progressiva marginalizzazione del PCI e l’affermazione della formula del pentapartito, e dall’altro la persistenza di una visione inadeguata dei problemi dell’economia italiana.

Giorgio Amendola si spense il 5 giugno del 1980 e non fece in tempo ad assistere a questi sviluppi. Il suo saggio del 1979 resta un documento fondamentale non solo per analizzare la crisi del PCI degli anni Ottanta, ma anche per comprendere le ragioni profonde della difficoltà nei rapporti della sinistra politica e sindacale italiana con il mondo del lavoro (e in primo luogo con la classe operaia), che costituisce ancora oggi un aspetto non secondario e uno degli indicatori più allarmanti (assai più dell’assenza di riferimenti nominalistici all’universo socialista) delle sue difficoltà e del suo carattere internazionalmente anomalo.

Giorgio Amendola, Interrogativi sul “caso” FIAT

«Il comportamento degli operai della FIAT ha, per decenni, segnato i punti di svolta positivi e negativi del movimento operaio italiano. (…) Tutto ciò che avviene alla FIAT interessa tutto il movimento operaio italiano, e segnala con durezza gli errori compiuti. (…) La sconfitta subita alla FIAT con il fallimento dello sciopero di protesta contro il licenziamento dei sessantuno, impone a tutte le forze politiche e sindacali uno sforzo autocritico pari, almeno, a quello compiuto nel 1955-56, e che dovrebbe giungere, a mio avviso, a drastici mutamenti.

A partire dal 1969-70 si è avuto in fabbrica uno sviluppo di nuove forme di democrazia, chiamate di democrazia diretta, e che hanno trovato nelle assemblee di reparto e di fabbrica la base per la formazione di un nuovo organo rappresentativo, il consiglio di fabbrica. Non si è mai riusciti a sapere quanti consigli di fabbrica siano effettivamente operanti. (…). In realtà i nuovi organi, che possono avere avuto, in un primo momento, una funzione rinnovatrice sostituendo le vecchie e sclerotiche commissioni interne (…) hanno perso in molte fabbriche il loro

carattere e non sono riusciti ad assicurare la partecipazione e la rap- presentanza dell’intera massa degli operai, dei tecnici, degli impiegati. Oggi siamo arrivati al punto che, in molte grandi fabbriche, ed in particolare alla FIAT, è cresciuta la percentuale degli assenti alle riunioni e persino il numero degli operai dichiaratisi ammalati nei giorni di sciopero. Oggi non si sa, in assenza di votazioni effettuate con il voto segreto e controllato, il numero dei partecipanti al voto, gli astenuti, le schede bianche, o quello dei voti contrari alle proposte del sindacato. La necessità di questo tipo di organizzazione della democrazia in fabbrica viene chiamata polemicamente liberaldemocratica, ma io non so trovare, in un paese retto dalla nostra Costituzione, un altro mezzo per misurare la volontà degli operai, fuori da ogni forma di coercizione e di intimidazione, che il voto segreto e controllato (…). Quale è stata la percentuale dei partecipanti alle assemblee di reparto della FIAT che hanno approvato la dichiarazione dello sciopero delle due ore contro i licenziamenti considerati arbitrari dei sessantuno? (…)

Nello stesso tempo le rivendicazioni sono cresciute incontrollate, con un progressivo livellamento delle retribuzioni, in un esasperato egualitarismo, che contribuisce a mortificare, assieme ai nuovi sistemi di organizzazione del lavoro, ogni orgoglio professionale e senza che l’aumento dei salari sia accompagnato da un crescente aumento della produttività. Solo negli ultimi tempi, per merito essenzialmente di Lama, si è riconosciuto che il salario non può essere considerato una variante indipendente dalla produttività. Ma la linea dell’Eur, interpretata da ciascuno a proprio modo, non è passata nella realtà della lotta sindacale, occorre convenirlo. Il sindacato ha commesso l’errore di parlare un linguaggio ambiguo e cifrato, diplomatico e circospetto per mantenere in equilibrio la precaria unità sindacale, senza affrontare apertamente le diversità delle posizioni, in un gioco di crescente demagogia e di scavalcamento a sinistra (…).

Non si è mai detto che in Italia, in questi ultimi anni di crisi europea, magari esaltando questo risultato come prova della forza contrattuale, i salari (delle categorie occupate) sono cresciuti in assoluto più dell’aumento del costo della vita. Si è voluto avvicinare il salario italiano al salario europeo, ciò che è obiettivo pienamente legittimo, ma senza prendere l’iniziativa di una coerente politica di ristrutturazione produttiva dell’economia italiana. Si è nascosto il fatto che in molte regioni italiane, nella maggior parte del paese, si è realizzato un pieno impiego. Non si è condotta una lotta coerente contro l’assenteismo, difendendo anche casi scandalosi, solo oggi rivelati chiaramente ed accentuando passivamente sprechi, parassitismi, esasperazioni corporative.

Si è proceduto ad una difesa rigida della sopravvivenza di tutte le fabbriche, anche di quelle chiaramente dissestate, e si è dilapidato nel salvataggio di certe grandi imprese (Sir, Liquigas) e nell’accettazione di passivi impressionanti delle imprese pubbliche, somme che non so calcolare (e chi lo potrebbe fare?) ma superiori certamente, nel loro complesso, ai 10.000 o 20.000 miliardi, sottratte agli investimenti o imposte alle banche, impedendo loro di esercitare un credito sano alle piccole e medie imprese (…).

Si è mantenuto alto il livello delle retribuzioni, imponendo allo Stato la fiscalizzazione degli oneri sociali, senza nemmeno sottoporre la scala mobile ad una sostanziale modifica, per impiegarla, come si dovrebbe, solamente nella difesa dei redditi più bassi (…), spingendo il paese, con una sempre più grave indicizzazione, verso una inflazione sempre più vertiginosa (…). L’accettazione acritica della politica degli incentivi (…) ha portato alla decisione errata di imbarcarsi nella costruzione improvvisata di nuovi grandi centri industriali, collocati per ragioni politiche clientelari in determinate zone, senza alcuno studio preventivo di una programmazione economica e del territorio. (…). In questa situazione la parola d’ordine degli investimenti al Sud è diventata una semplice copertura di una politica tesa a difendere ed a migliorare le condizioni delle categorie occupate ed organizzate, a spese dei giovani e dei disoccupati meridionali.

Il problema della disoccupazione non è stato affrontato nei suoi termini reali, che sono quelli di una disoccupazione concentrata in alcune zone del Sud e composta in prevalenza da giovani laureati e diplomati, una parte dei quali rifiuta occasioni di lavoro che non siano compatibili con aspirazioni che sono, in prevalenza, quelle di un impiego pubblico stabile e con prospettive di pensione e di carriera già in partenza assicurate. Perciò si è cercato, ostinatamente, di negare l’esistenza in Italia di centinaia di migliaia di immigrati stranieri in gran parte non tutelati dalla legge perché clandestini. Ma il riconoscimento dell’esistenza di mano d’opera immigrata disponibile per tutti i lavori (…) avrebbe smentito le solite lamentele. (…) Per questo non approvo la proposta del compagno Trentin di formare una federazione sindacale dei disoccupati e dei precari. Sarebbe un bel calderone! La disoccupazione in Italia deriva da diverse cause, è composta in modo diverso da regione a regione ed ha bisogno di obiettivi precisi, articolati, ben qualificati. E lo stesso si dica dei precari, che non possono essere riuniti, per la varietà delle loro situazioni e la diversità e contraddittorietà delle loro rivendicazioni, in una stessa inesistente categoria. Per i giovani non può valere la tesi, a giustificare il rifiuto di un lavoro manuale, della frustrazione derivata dal tipo di organizzazione ripetitivo e monotono del lavoro in fabbrica, del “lavoro idiota”, nell’ipotesi che una nuova qualità del lavoro in fabbrica attirerebbe nuove energie. La crescente sostituzione delle “isole” alle “linee” e gli inizi dell’automazione e dell’elettronica, tendono a valorizzare nuovamente il contributo individuale, quindi la capacità professionale degli operai e dei tecnici. Ma non si può passare dalla meccanizzazione all’automazione senza accettare la riduzione del numero degli operai occupati per giungere ad una determinata produzione – riduzione certo concordata, non imposta dal padrone, ma non rifiutata a priori dal sindacato. Il fatto è che il miglioramento della qualità del lavoro in fabbrica non potrà mai annullare il suo carattere alienante, nemmeno in una società socialista. È vecchia la teoria di ricercare, con una nuova organizzazione del lavoro, la possibilità di una “gioia del lavoro”. (…) Ma la divisione del lavoro in una società che non sia giunta allo stadio supremo del comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità) richiede sempre una scala di occupazioni che darà più o meno soddisfazione al riconoscimento delle capacità individuali. Non c’è solo il lavoro ripetitivo in fabbrica che non dà soddisfazione al legittimo bisogno individuale di vedere riconosciute le proprie qualità personali. Non credo che tale soddisfazione sia data dal lavoro dei commessi nei grandi negozi, o da quello dei netturbini. Ma allora chi farà questi lavori, pur necessari alla vita della società? I lavoratori immigrati, turchi o tunisini, come li fanno gli emigrati italiani in altri paesi? In realtà c’è sempre modo di difendere la propria dignità di uomo e di lavoratore, nel posto di lavoro e nella società. Ogni altra rappresentazione della qualità del lavoro è illusoria è mistificatoria. (…)

La partecipazione di migliaia di candidati a posti non tecnicamente qualificati dell’amministrazione pubblica (mentre vanno deserti i concorsi a lavori che esigono una più difficile preparazione), dipende anche dal fatto che il miglioramento delle condizioni di vita di molti lavoratori, con il cumulo in una stessa famiglia di doppi salari e stipendi, del salario e dello stipendio della madre o di varie pensioni, permette il mantenimento di giovani agli studi fino ad età avanzata, e la creazione di una massa di studenti permanenti, sempre più inquieti, frustrati e pronti, malgrado le proteste verbali, a subire il gioco clientelare della DC, a diventare, come per il fascismo e per il nazismo, la massa di manovra di tentativi reazionari. Il punto di partenza centrale per comprendere la lezione della FIAT è quello della scelta delle forme di lotta violente. L’errore iniziale compiuto dal sindacato è stato quello di non denunciare immediatamente il primo atto di violenza teppistica compiuto in fabbrica, come quello compiuto nelle scuole. L’errore dei comunisti è quello di non aver criticato apertamente, fin dal primo momento, questo comportamento (…). Non si vada ora a ricordare la necessaria asprezza della lotta di classe per giustificare i nuovi atti di teppismo e di violenza nelle fabbriche. È merito del movimento operaio italiano quello di aver combattuto le forme spontanee di plebeismo, e di avere cercato di mantenere lo scontro di classe su un terreno di conflitto organizzato (…). Oggi si rivelano apertamente fatti, prima tenuti nascosti, e che avrebbero dovuto essere denunciati dal primo momento. Le intimidazioni, le minacce, il dileggio, le macabre ma- nifestazioni con le casse da morto ed i capi reparto trascinati a calci in prima fila, ricordano troppo le violenze fasciste per non suscitare uno sdegno ed un disgusto che invece non si è manifestato. Perché gli Agnelli non hanno denunciato subito le prime violenze, perché hanno lasciato correre, malgrado gli attentati, i ferimenti, gli assassinii compiuti dai terroristi? Perché si volevano inasprire le contraddizioni nel movimento operaio, ed ancora una volta ridimensionare ed isolare i comunisti.

Tutta la grande stampa ha civettato con l’estremismo, lo ha nobilitato culturalmente, per colpire il partito comunista, presentato come forza moderata, pronta a partecipare al governo e fare il guardiano dei padroni. E questa accusa ha finito con l’imbarazzare in molte fabbriche i comunisti, e paralizzare la loro capacità di iniziativa.

E chi può negare che vi sia un rapporto diretto tra la violenza di fabbrica ed il terrore? E perché il sindacato, i comunisti non hanno parlato, denunciato in tempo quello che oggi viene rivelato? (…) E poi ci sono forme di lotta, impiegate a Torino e largamente attuate in tutto il paese, che si manifestano fuori dalle fabbriche, con occupazioni stradali, cortei intimidatori, distruzioni vandaliche di macchine e negozi. Sono forme di lotta che quando non sono episodi isolati, esplosioni di collera a lungo represse, quando diventano abitudini correnti, snaturano il carattere stesso della lotta di classe perché, con il ricatto di una stazione occupata, o di una autostrada ostruita, o di un blocco degli aeroporti, tendono a fare intervenire lo Stato – questo Stato! – cui viene in questo modo, anche dagli estremisti, riconosciuta una funzione mediatrice. (…) Torino è sempre il segnale premonitore di quello che avviene nel paese. Non si può negare che il PCI abbia cercato di combattere il terrorismo, di vincere la paura, di mobilitare le forze democratiche. Il PCI ha reso possibile la celebrazione del processo Curcio, ha preparato un questionario sul terrorismo, ha sempre manifestato la sua solidarietà alle vittime del terrorismo. Ma la sua azione ha trovato seri limiti, per la presenza in seno al partito di zone di persistente settarismo e di rifiuto della linea politica, nella preminente preoccupazione di non essere criticati da sinistra, o piuttosto da coloro che si presentano come esponenti di una sinistra autonoma dai partiti. Di fronte all’orientamento del sindacato e principalmente della FIOM, il partito non ha osato criticare apertamente, a Torino, la sua linea per quanto riguarda gli obiettivi e le forme di lotta (…). Dalla tesi che denunciava ogni atto di violenza compiuto dai provocatori come una manifestazione di un complotto di destra, alla tesi della neutralità fra Brigate rosse e Stato, avallata culturalmente da uomini di prestigio come Bobbio e Quazza che proclamavano di non avere interesse a difendere “questo Stato”, alla tesi dei “compagni che sbagliano”, al rifiuto della loro denuncia “perché non si deve fare i delatori”, si è giunti, anche da parte di dirigenti sindaca- li, alla giustificazione della violenza, di ogni forma di violenza in fabbrica come espressione della rabbia provocata da un “lavoro idiota”. La ragione della passività paralizzante di interi settori del partito non è determinata da paura individuale, ma dal rifiuto di portare la lotta politica entro la fabbrica, dal fermarsi reverenziale di fronte ai cancelli, come se la Mirafiori o la Rivalta fossero isole intoccabili. In definitiva dal cattivo orientamento politico, in ultima analisi, dal rifiuto della politica del compromesso storico. L’assenza degli operai della FIAT dai funerali delle vittime del terrorismo è un fatto anzitutto politico che contrasta con la grande partecipazione ai funerali di Genova dell’operaio Guido Rossa. E ciò non dipende solo dal fatto che Guido Rossa era comunista, ma soprattutto dalla persistenza nella classe operaia genovese, come in quella milanese, di una più salda coscienza democratica e nazionale.

È una lotta politica che va, dunque, condotta per ricreare nel partito la necessaria unità sulla base delle tesi approvate all’ultimo Congresso, e delle indicazioni date dall’ultimo Comitato centrale».

Da G. Amendola, Interrogativi sul “caso” FIAT, in “Rinascita”, 9 novembre 1979.