L'economia della paura

Di Federico Rampini Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Trascinati in una guerra di cui ignoriamo tutto – la durata, l’esito finale, perfino l’avversario – abbiamo cambiato vita. Viaggiamo meno, spendiamo meno, rinviamo investimenti e progetti. Il nostro atteggiamento verso il resto del mondo e verso gli immigrati è in crisi. Le multinazionali hanno paura. Gli Statinazione alzano il ponte levatoio ai confini. L’America è il centro di questa evoluzione – economica, politica, di costume – scatenata l’11 settembre. La sua classe dirigente si chiede: è uno shock da cui un giorno usciremo e tutto tornerà come prima? O la strage terroristica fa precipitare un cambiamento sistemico, irreversibile? Sotto le macerie delle Twin Towers sono finiti la globalizzazione, un modello consumistico, la centralità dei mercati finanziari.

 

Trascinati in una guerra di cui ignoriamo tutto – la durata, l’esito finale, perfino l’avversario – abbiamo cambiato vita. Viaggiamo meno, spendiamo meno, rinviamo investimenti e progetti. Il nostro atteggiamento verso il resto del mondo e verso gli immigrati è in crisi. Le multinazionali hanno paura. Gli Statinazione alzano il ponte levatoio ai confini. L’America è il centro di questa evoluzione – economica, politica, di costume – scatenata l’11 settembre. La sua classe dirigente si chiede: è uno shock da cui un giorno usciremo e tutto tornerà come prima? O la strage terroristica fa precipitare un cambiamento sistemico, irreversibile? Sotto le macerie delle Twin Towers sono finiti la globalizzazione, un modello consumistico, la centralità dei mercati finanziari. 

«La globalizzazione è condannata?» Non è uno slogan degli antiglobal, è il titolo di una recente inchiesta dell’«Economist», la Bibbia dei mercati finanziari. A mettere in discussione il sistema non sono più i movimenti di contestazione o qualche paese del Terzo mondo: il presentimento della fine di un’era nasce nel cuore dell’«impero». I segnali si moltiplicano qui in America, investono il costume di vita, le regole sociali, i valori di civiltà. Partono dall’economia, arrivano al modello di democrazia e di libertà. L’hanno definita l’economia della paura: nel solo mese di settembre, la spesa dei consumatori americani è calata del 2,5%. Non è stato un tracollo, ma è più che sufficiente per appesantire una recessione già in atto prima degli attentati. L’economia della paura ha fatto cancellare campagne pubblicitarie a Coca Cola, Ford, Procter & Gamble e altre multinazionali. Nei sondaggi ricorre una domanda ossessiva tra gli americani: «Perché nel mondo c’è tanto odio verso di noi?» Il capitalismo dei marchi globali ha la stessa angoscia. Per la prima volta in mezzo secolo di esportazione dell’American way of life, ci si interroga sull’opportunità di una ritirata. In una drammatica revisione strategica viene incorporato lo slogan No logo degli avversari ideologici. La strage terroristica e l’incognita di una guerra infinita si innestano su tendenze precedenti: la crescita del movimento anti-global; una recessione già in atto; l’esplosione della bolla di Borsa.

Il direttore di «Business Week», Bruce Nussbaum, ha dedicato un editoriale alla fine della «cultura azionaria». Non c’è solo la distruzione di ricchezza in Borsa. Ancora più grave è il fatto che siamo entrati nell’epoca dell’insicurezza indefinibile: non sappiamo quanto durerà il pericolo di attentati; quanto costerà difenderci; se alla fine riusciremo a debellare questa malattia. I mercati, prezioso meccanismo che regola l’uso della ricchezza sociale, hanno bisogno di orientare gli investimenti sulla base di rischi calcolati. Se il rischio diventa incalcolabile, la centralità dei mercati è minacciata. Il colpo è tremendo per un capitalismo che ha fatto delle azioni il metro di tutto: pagano gli stipendi dei manager e le pensioni dei dipendenti.

Il tentativo di ricondurre l’insicurezza entro limiti socialmente sopportabili, rilancia il ruolo dello Stato.Bush salva le compagnie aeree, nazionalizza la sicurezza negli aeroporti, aumenta la spesa pubblica. Il passaggio a un’economia di guerra potrà aiutare la ripresa, ma non sarà lo stesso tipo di crescita (deregolata, flessibile, competitiva) degli ultimi decenni. Ma la svolta ideologica «keynesiana» operata con pragmatismo da questo presidente di destra, è più facile a dirsi che a farsi. Dopo anni di smantellamento dello Stato, ricostruire gli strumenti di un intervento pubblico è un’operazione complessa e non breve. Che si tratti della sicurezza negli aeroporti, o della mobilitazione del sistema sanitario contro la minaccia del terrorismo batteriologico, gli americani scoprono che decenni di Stato minimo non si cancellano per editto presidenziale. Ora tutti invocano l’intervento pubblico laddove il mercato e i privati sono stati incapaci di fornire sicurezza. Ma il risultato più visibile, nell’immediato, è un’ondata di Corporate Welfare, come gli americani definiscono pudicamente l’assistenzialismo a favore delle imprese, i salvataggi aziendali a spese del contribuente. Efficienti come sempre, le lobbies del big business si sono precipitate al Congresso di Washington a raccogliere i dividendi dell’11 settembre sotto forma di corpose sovvenzioni pubbliche.

Per la prima volta il centro del capitalismo mondiale ha paura di una globalizzazione che gli ha imposto un grado di apertura forse incompatibile con la sicurezza dei suoi cittadini e dei suoi affari. Il grande storico dell’economia Harold James ha pubblicato «The End of Globalization» poco prima della strage terroristica. In esso ricorda che ci fu un altro periodo in cui gli imperi occidentali ebbero paura della globalizzazione che essi stessi avevano costruito; cambiarono rotta e si chiusero nel protezionismo. Fu il periodo tra la prima guerra mondiale, il 1929 e la grande depressione, segnato dall’avvento dei totalitarismi. Oggi l’America s’interroga inquieta sulla durata della recessione e della crisi di Borsa, su come cambia la vita sotto la minaccia terroristica. Ma in gioco c’è molto di più.

«Il successo della globalizzazione non si può scindere dalla mobilità delle merci, delle persone, dei capitali. Dopo l’11 settembre, per ogni container che arriva in nave al porto di Newark dovremmo chiederci se trasporta un ordigno nucleare o armi chimiche. La facilità con cui i businessmen americani giravano il mondo è la stessa con cui i terroristi sono entrati qui. La fluidità della nostra finanza li ha aiutati a riciclare denaro. Prima dell’11 settembre l’opposizione alla globalizzazione veniva dai margini del sistema, ora comincia a venire dal centro, da chi in America ha il potere di decidere». Questa, nelle parole di Steven Weber economista di Berkeley e del Global Business Network, è la descrizione della fine di un’epoca.

Lo smarrimento colpisce i vertici del capitalismo americano. Jeffrey Immelt, numero uno della General Electric, ha confessato la sua impotenza: «Non abbiamo più un tracciato da seguire». Per le multinazionali USA è impossibile fare progetti di fronte a un prolungato conflitto internazionale di questa natura. Hanno provato a studiare gli effetti economici della guerra del Vietnam o del Golfo. Inutile, non c’è paragone che regga. «In questa situazione – ha detto il guru di Wall Street Henry Kaufman – tutte le previsioni sull’economia e sui profitti sono prive di senso». Mark Minervini, presidente della società Quantech Research che fa previsioni di Borsa usando sofisticati modelli matematici, ha dichiarato: «Non so quali numeri inserire nel computer. L’effetto dei due jet schiantati sulle Twin Towers è semplicemente incalcolabile».

«The End of the Equity Culture», la fine della cultura azionaria come l’ha definita «Business Week», ha avuto a settembre una conferma precisa: è il primo mese in cui non c’è stato nessun collocamento di nuove società in Borsa. Non accadeva dal lontano 1975, e un quarto di secolo fa il ruolo del mercato azionario non era fondamentale come oggi. Il grado di incertezza è tale che nessuno sa più come rispondere alla domanda vitale per gli investitori: quanto vale un’azienda? Secondo le teorie che guardano al rapporto fra profitti e tassi d’interesse, la Borsa USA è ormai sottovalutata. Nell’ottica tradizionale prezzi/ utili, invece, potrebbe perdere ancora il 40%. Una prospettiva raccapricciante per 150 milioni di americani che hanno legato il loro tenore di vita (risparmi, pensioni, stock options) alla Borsa. Ma tutti i calcoli sono vecchi, privi di senso se siamo a una rottura storica, alla fine di un sistema. Se la globalizzazione fa marcia indietro, nulla sarà più come prima. Le grandi aziende, gli investitori, le banche, si muovono in un mondo dove la circolazione è fluida, i capitali si spostano liberamente. Quanta parte di questa libertà sarà sacrificata per imporre nuovi controlli e barriere? La giusta lotta al denaro sporco dei terroristi ha fatto compiere all’amministrazione Bush un passo impensabile fino a un mese fa: ha dichiarato guerra ai paradisi fiscali e bancari…dove tutte le multinazionali USA hanno conti offshore da decenni. «I tragici avvenimenti dell’11 settembre – ha osservato il capo economista della Morgan Stanley Stephen Roach – hanno imposto una specie di tassa sui movimenti dei capitali». Dove non erano riusciti i movimenti anti-global, ci arriverà l’FBI in nome della sicurezza? Invece della Tobin Tax, una Bin Laden Tax? La sicurezza che sognano gli americani traumatizzati dalle stragi è semplicemente incompatibile con la globalizzazione. Lo dimostra Stephen Flynn, dirigente della guardia costiera USA. Ecco le sue cifre: l’anno scorso sono transitati dalle frontiere americane via cielo terra e mare 489 milioni di individui, 127 milioni di auto, 211.000 navi. Oggi ognuno rappresenta un pericolo potenziale, ma è possibile controllare tutto senza provocare un collasso nell’economia più ricca del pianeta? «Nella guerra per proteggere il nostro territorio nazionale – secondo Flynn – la prima mossa rischia di essere l’embargo commerciale… contro noi stessi». L’industria americana teme un lento strangolamento. I controlli paralizzanti alle frontiere col Canada e il Messico fanno mancare forniture essenziali: la Ford ha dovuto tagliare più di 120.000 auto la produzione, Goodyear è allo stremo. Poi c’è il disastro del trasporto aereo: più di 100.000 licenziati nelle compagnie aeree, 30.000 alla Boeing. Che fine farà la mobilità delle persone, fondamentale nel modello di sviluppo degli ultimi decenni? I nemici sono entrati facilmente, le frontiere aperte possono trasformarsi in una minaccia mortale. I consolati USA nel mondo rilasciano sette milioni di visti all’anno (molti dei quali sono validi per più ingressi). «Il sistema dei controlli è di una inefficienza preoccupante» ha denunciato il deputato George Gekas che presiede la commissione sull’immigrazione. È riformabile senza soffocare un’economia aperta? Segno dei tempi: una leader della sinistra democratica come la senatrice Dianne Feinstein di San Francisco ha proposto di congelare per sei mesi i visti agli studenti stranieri. Risponde il capo dell’Immigration Service Doris Meissner: «Oltre un certo livello i controlli impediscono viaggi e commerci legittimi, che sono la nostra linfa vitale». «Usa Today» sbatte in prima pagina le biografie di tutti gli imprenditori di origine araba – tra cui l’amministratore delegato della Ford, Jacques Nasser – che hanno fatto fortuna in America … e hanno fatto la fortuna dell’America. Se si alza il ponte levatoio, che ne sarà della Silicon Valley, la culla della leadership tecnologica americana nel mondo, dove un terzo degli imprenditori sono stranieri? L’America che non vuole credere agli scenari più catastrofici oggi studia il caso-Israele: ecco come può diventare la vita quotidiana alle prese col terrorismo in casa. Uno scenario allucinante per 275 milioni di americani … e al tempo stesso rassicurante perché in Israele la vita continua, l’economia è ricca e tecnologicamente avanzata. Può l’America vivere «a compartimenti stagni»: da una parte l’angoscia degli attentati, dall’altra consumi e divertimenti, investimenti e affari che riprendono come prima? Nello scenario ottimista l’aumento delle spese per la sicurezza potrebbe accelerare la ripresa. L’economia di guerra, statalizzata e con alti deficit, ci salverebbe dalla recessione. Per l’economista Paul Krugman è sperabile e perfino possibile. Ma lui stesso non esclude un altro scenario, a cavallo tra il 1929 e l’interminabile crisi giapponese degli anni Novanta. «Il mio incubo? – dice – È che ci svegliamo nel 2009 e siamo ancora qui, esattamente nella situazione di oggi». Sotto le macerie delle Twin Towers forse è finito anche uno stile di vita? Un modello di sviluppo fatto di consumismo estremo, ostentazione della ricchezza? Lo teme la classe dirigente americana che contro Bin Laden combatte molte guerre: una, sul fronte interno, si svolge nelle trincee dei supermercati e dei concessionari d’auto. Dopo gli appelli di George Bush e Rudolph Giuliani («spendete, andate al ristorante e al cinema, tornate a divertirvi»), uno dopo l’altro i governatori degli Stati USA si sono fatti riprendere dalle TV mentre facevano la spesa nel centro commerciale delle loro città, da Macy’s o da WalMart. L’allarme è comprensibile. Se si rompe la grande macchina del consumismo USA, l’accoppiata terrorismo+recessione potrebbe provocare danni ancora più profondi e durevoli.

Comincia a farsi strada l’idea che lo shock per la strage terroristica possa combinarsi con altri ingredienti: il disagio per l’ostilità che gli americani sentono di suscitare in altre parti del mondo; la critica alla sbornia consumistica degli opulenti anni Novanta; la breccia che le tesi anti-global hanno fatto in qualche settore della società. Messe insieme, queste novità possono fare massa critica, provocare dei cambiamenti negli stili di vita e nei valori della società. «In tempi così duri – ha osservato il “Los Angeles Times” – la frugalità torna ad essere una virtù». La rivista dei manager «Fortune», che certo non ha un’ideologia anti-capitalista, emette un giudizio severo: «La storia guarderà a quei dodici anni fra il 9 novembre 1989 (il giorno in cui cadde il Muro di Berlino) e l’11 settembre 2001, come all’epoca di un’America frivola ed egocentrica». Senza dubbio qualcosa si è rotto – prima e dopo l’11 settembre – nel clima di consenso attorno al grande capitalismo americano. Già mesi fa, con lo scoppio della bolla speculativa c’era stato lo scandalo delle società che crollavano in Borsa (rovinando i piccoli azionisti) ma i cui manager venivano liquidati a peso d’oro: uno strappo imbarazzante con l’etica meritocratica. Il disagio è salito dopo la strage del World Trade Center. Ricostruendo la dinamica dei quattro dirottamenti, la stampa ha denunciato una ragione dell’inefficienza dei controlli negli aeroporti: la vigilanza è subappaltata a imprese private; dequalificati e impreparati, gli addetti guadagnano meno che a servire hamburger da MacDonald. Conclusione: le compagnie aeree risparmiano sulla sicurezza, giocando con la vita dei passeggeri. Un altro colpo è stato il susseguirsi di licenziamenti immediatamente dopo gli attentati: più di 100.000 lavoratori hanno perso il posto dopo l’11 settembre. Il quotidiano «Arizona Republic» ha pubblicato con evidenza la lettera di Edward Cohen, ingegnere chimico della DuPont: «Questi licenziamenti di massa sono una vergogna nazionale e aiutano i terroristi a vincere la guerra. I dirigenti di molte aziende dimostrano che per loro i dollari contano più del patriottismo». Perfino George Bush si è appellato alle aziende affinché non mettano i dipendenti sulla strada proprio ora. Un presidente repubblicano, erede ideologico  di Ronald Reagan? Davvero questo paese non è più lo stesso. Sbanda l’America alla ricerca di un nuovo baricentro, di un punto di equilibrio. Molte percezioni sono cambiate quell’11 settembre e non riguardano solo l’invulnerabilità territoriale, il senso di potenza, la sicurezza nazionale, gli equilibri strategici mondiali. Qualcosa è cambiato dentro, nelle scelte della vita quotidiana. È presto per dire come sarà l’epoca che ha inizio, quale sarà l’America dei prossimi dieci anni. Ma nessuno sottovaluti quel che comporterebbe un ripiegamento americano sull’Europa e sul mondo intero. L’OCSE, autorevole organismo economico internazionale alieno dai facili allarmismi, ha emesso una prima parte della diagnosi. «La fiducia dei consumatori e delle imprese continuerà a cadere negli Stati Uniti e di conseguenza nel resto del mondo. La sfiducia creata dal terrorismo è ulteriormente alimentata dalla caduta delle Borse e dall’aumento della disoccupazione». «Guardate quello che stiamo facendo noi: sgravi fiscali e taglio dei tassi d’interesse» ha lanciato il ministro del Tesoro americano Paul O’Neill ai suoi colleghi europei al primo vertice del G7 riunito a Washington dopo gli attentati, il 29 settembre. Stesso messaggio dal Fondo monetario internazionale, il direttore generale Horst Köhler ha chiamato tutti i paesi industrializzati a una «risposta coordinata» per combattere la recessione: che già incombeva un mese fa, ma ora assume una gravità nuova nell’emergenza mondiale antiterrorismo. Anche industriali e banchieri stringono d’assedio i governi europei, implorandoli di fare qualcosa, di imitare la manovra economica di rilancio in cantiere a Washington. Con un gesto inusuale, il presidente della Deutsche Bank Rolf Breuer ha portato al cancelliere Schröder una richiesta pressante di tutto il capitalismo tedesco: occorre un aumento immediato di spesa pubblica, almeno 10 miliardi di Euro, per salvare la Germania dalla crisi.

Lo shock dell’11 settembre dilaga con un effetto domino su tutte le economie del mondo e colpisce l’Europa in una fase particolarmente delicata. La velocità di trasmissione del disastro americano è fulminea, implacabile. Vanno in crisi le compagnie USA, e subito dopo tocca a Swissair, Alitalia. Calano le vendite di Ford e General Motors; a ruota seguono la FIAT e la Renault. Daimler, Siemens, Alcatel: le più grandi multinazionali tedesche e francesi che negli ultimi anni avevano fatto investimenti massicci oltreoceano, portano a casa il contagio del morbo americano. Per la prima volta dalla crisi petrolifera del 1974, tutte le nazioni industrializzate piombano nella crisi simultaneamente e questo ingigantisce i problemi: perché stavolta nessuno può sperare di salvarsi esportando di più sui mercati altrui. Ma la reazione europea non sembra affatto all’altezza del pericolo. Suona quasi sprezzante, o incosciente, la dichiarazione del ministro tedesco dell’Economia Hans Eichel al G7: «Gli attacchi terroristici hanno colpito gli Stati Uniti in maniera diversa dal resto del mondo. Non c’è alcun bisogno di un pacchetto concertato di misure di rilancio dell’economia. In Europa, una manovra del genere non è all’ordine del giorno». Com’è possibile che i governi europei non vedano i segnali di brutale peggioramento della congiuntura in casa propria? Dietro l’inerzia, apparentemente inspiegabile, c’è una fragilità particolare: la crisi in Europa è arrivata quando la maggior parte dei paesi di Eurolandia – in particolare i tre grandi Italia, Germania e Francia – non avevano completato l’aggiustamento dei conti pubblici. Gli Stati Uniti hanno approfittato del boom degli anni Novanta per ottenere addirittura bilanci federali in forte attivo, ora hanno ampie munizioni da sparare contro la recessione. La cura keynesiana che Bush sta somministrando all’economia americana è resa possibile dalle riserve accumulate nel periodo delle vacche grasse. Eurolandia, con l’Italia in testa, ha ancora alti deficit e altissimi debiti pubblici. Per rimettersi a spendere ora, bisogna decretare la sospensione temporanea delle regole del Patto di stabilità: cioè quel rigore finanziario che la Germania nel 1996 impose come condizione per rinunciare al marco e per accettare nell’unione monetaria un paese «a rischio» come l’Italia. Oggi sembrano lontani quei tempi e quei timori: il pericolo che incombe non è più l’inflazione, né la svalutazione. Anche un momentaneo abbandono della disciplina nei conti pubblici può sembrare un male minore, rispetto ai danni economici e sociali della recessione che dilaga. Ma ai governi francese e tedesco fa paura l’altolà della Banca centrale europea. Da Francoforte, i governatori dell’Euro tengono il fucile spianato contro ogni tentativo di ritoccare il Patto di stabilità. Il loro argomento forte: si avvicina il Big Bang dell’Euro, la circolazione della nuova moneta, la grande operazione di conversione delle vecchie valute nazionali. È un appuntamento troppo delicato. Guai ad affrontarlo in una situazione di sfiducia dei mercati. E l’abbandono del rigore nella spesa pubblica potrebbe condurre proprio a questo: un improvviso allarme dei mercati, una fuga di capitali, che funesterebbe la nascita dell’Euro.

Duecentomila disoccupati in più negli Stati Uniti solo a settembre: le durezze della crisi americana giungono attenuate in Europa da un Welfare più generoso, sindacati più forti, rigidità normative che frenano i licenziamenti di massa. Ma c’è il rovescio della medaglia. L’Europa senza flessibilità non ha mai conosciuto il pieno impiego all’americana, entra in crisi partendo da un tasso di disoccupazione del 9%: il doppio rispetto agli USA. Il capo economista dell’OCSE, Ignazio Visco, avvisa: «Qui se tutto va bene la crescita riprenderà solo nel 2003». Si direbbe quasi che la gravità dei pericoli che incombono sull’economia mondiale sia stata capita meglio da Russia e Cina. L’improvvisa armonia con Washington nella mobilitazione antiterrorismo è certo il frutto di calcoli da realpolitik, Mosca e Pechino già incassano crediti che spenderanno contro i ceceni e i dissidenti. Ma c’è anche una motivazione aggiuntiva. L’offensiva terroristica ha oscurato l’altro fatto storico concomitante, l’ingresso della Cina nel WTO, la sua partecipazione piena alla liberalizzazione degli scambi. Anche la Russia vuole essere ammessa nell’Organizzazione del commercio mondiale. Entrambe temono una battuta d’arresto della globalizzazione: se l’America impaurita dal terrorismo si ripiega su se stessa, se alza il ponte levatoio per proteggersi dalle aggressioni esterne, va in fumo la speranza di paesi emergenti che vogliono trovare nei mercati ricchi il traino del loro decollo economico. L’Asia già riceve in pieno i contraccolpi delle difficoltà americane: Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Malaysia vedono crollare dal 20 al 40% le loro esportazioni. Il Giappone che vive in eterna simbiosi con gli Stati Uniti subisce l’ennesima ricaduta in una recessione che lo perseguita ormai da un decennio. Nella vasta e inedita coalizione che si è raccolta attorno all’America per isolare Bin Laden, ognuno dei partecipanti porta interessi particolari, calcoli e astuzie. Ma c’è anche una vera paura che unisce e cementa. È la paura che la globalizzazione possa sul serio arrestarsi e fare marcia indietro. E che quello che verrà dopo finisca col rivelarsi un mondo peggiore.