Il Jobs Act: una cura inefficace per una diagnosi errata

Di Michele Raitano Giovedì 23 Marzo 2017 10:53 Stampa

La mobilità del mercato del lavoro in Italia è davvero così limitata? L’evidenza empirica smentisce l’idea che prima della riforma del Jobs Act il mercato del lavoro italiano fosse rigido e porta a dubitare che il suo principale problema fosse la segmentazione fra iper-tutelati e non garantiti. A un’attenta lettura dei dati esso appariva “liquido” piuttosto che rigido o segmentato. Per questo motivo gli obiettivi di limitare la varietà contrattuale per ridurre le diseguaglianze e migliorare le condizioni di chi lavora con contratti flessibili sarebbero dovuti essere raggiunti partendo dal basso, cioè eliminando le forme contrattuali maggiormente penalizzanti e meno protette, invece che dall’alto, cioè indebolendo il contratto a tempo indeterminato, come si è invece fatto nel Jobs Act.

 

Il Jobs Act – che, come noto, si è concretato principalmente in una deregolamentazione delle possibilità di licenziamento e con l’intro­duzione del contratto a tutele crescenti (che sarebbe più corretto de­finire “a indennizzo monetario lievemente crescente”, dato che nes­suna tutela reale cresce con l’anzianità di servizio) – è stato ispirato dall’assunto che una maggiore flessibilità delle relazioni contrattuali fosse necessaria per rendere più dinamico il mercato del lavoro italia­no e, dunque, favorire l’occupazione e la crescita economica.

Molti commentatori ed esponenti politici di spicco ritenevano, in­fatti, che il “troppo rigido” mercato del lavoro “pre Jobs Act” fosse caratterizzato da eccessive tutele per i lavoratori con contratti a tem­po indeterminato e, di conseguenza, da un vero e proprio apartheid a discapito degli occupati con contratti atipici (in primis i più giovani). Senza fare la fatica di presentare – al di là di evidenza aneddotica – dati che confermassero la loro convinzione, si dava, pertanto, per scontato che, da un lato, i lavoratori “standard” fossero “iper-garan­titi” e godessero di un posto di lavoro per sempre “fisso”, e, dall’altro, chi si trovava a lavorare con un contratto atipi­co (da dipendente a termine o con le molteplici forme parasubordinate) riscontrava enormi dif­ficoltà a pervenire a quella stabilizzazione della relazione contrattuale che lo avrebbe poi reso invulnerabile.

Per valutare l’efficacia della nuova dose di dere­golamentazione inserita con il Jobs Act (e con il precedente “decreto Poletti” sui contratti a ter­mine del marzo 2014) nel migliorare le prospet­tive occupazionali di giovani e meno giovani, bisogna allora ragionare su quanto fossero fon­dati gli assunti su cui si basava l’idea ispiratrice della riforma del lavoro di Renzi. In altri termi­ni, appare necessario provare a rispondere a una domanda cruciale la cui risposta viene solitamente considerata scontata: la mobilità del mercato del lavoro italiana è davvero così limitata?

LE TRAIETTORIE LAVORATIVE A INIZIO CARRIERA

Facendo uso di un campione costruito incrociando i dati ammini­strativi sulle carriere dei lavoratori italiani registrati dall’Inps con i dati campionari raccolti dall’Istat nell’indagine It-Silc, proviamo, pertanto, a verificare se, effettivamente, il mercato del lavoro pre Jobs Act fosse caratterizzato da limitata flessibilità, sia ascendente (le possibilità di stabilizzazione per i precari) che discendente (i rischi di precarizzazione o disoccupazione per i lavoratori standard).1

Nello specifico, limitando l’analisi ai soli cittadini italiani, osserviamo le traiettorie di carriera seguite nei primi sei anni di attività da chi ha iniziato a lavorare fra il 2004 e il 2006,2 fornendo, dapprima, eviden­za sulla condizione contrattuale all’entrata e al termine del periodo di osservazione3 e, successivamente, analizzando con quale frequenza questi lavoratori hanno sperimentato cambiamenti della condizione contrattuale/occupazionale durante la prima fase della carriera. In questo modo si fornisce evidenza descrittiva utile per ragionare sul grado di garanzia effettiva fornita dalle relazioni a tempo indetermi­nato e sui rischi di intrappolamento connessi ai contratti atipici.

In media, circa 3/4 dei lavoratori entra in attività con un contratto da dipendente, ma solo il 22% ottiene da subito un “tempo indetermi­nato” (Figura 1). La quota di individui che inizia a lavorare median­te una forma parasubordinata (co.co.pro., co.co.co., “occasionale” o partita Iva) è pari all’11,5%, mentre minore è la quota di chi entra in attività come autonomo o libero professionista.4 Le forme contrat­tuali di ingresso si differenziano però per titolo di studio: come atte­so, fra i meno istruiti è più frequente essere assunti come apprendisti, mentre il lavoro parasubordinato è molto frequente unicamente fra i laureati (25,0%), fra i quali, come prevedibile, è alta anche la quota di chi inizia a lavorare da libero professionista (14,2%).

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Come primo segnale di una mobilità nel mercato del lavoro ben più ampia di quanto solitamente sostenuto, il quadro cambia quando si osserva lo stato occupazionale nel sesto anno di attività lavorativa (Figura 2). Da una parte, indicando la presenza di “mobilità ascen­dente”, cresce, soprattutto fra laureati e diplomati, la quota di lavo­ratori a tempo indeterminato e si riduce la percentuale di lavoratori a termine e parasubordinati. Dall’altra, però, emerge preoccupante l’elevata quota (connessa, ovviamente, anche al manifestarsi della crisi economica) di individui che nel sesto anno di attività lavora per meno di sei mesi (è dunque “intermittente”) o è disoccupata.5 Addirittura, fra chi ha al più un titolo di licenza media, il 42,7% dei neo-entrati risulta disoccupato o “intermittente” al sesto anno di attività, ma la quota di individui con “buchi” lavorativi è molto alta anche fra diplomati (28,9%) e laureati (17,0%).

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Una mobilità fra stati occupazionali ben più ampia di quella soli­tamente immaginata emerge evidente anche quando si osserva la matrice di transizione fra la condizione contrattuale di ingresso e lo stato occupazionale al sesto anno (Tabella 1, riferita al totale dei lavoratori). Da questa si ricavano due principali evidenze: a) il tempo indeterminato non è affatto il posto fisso iper-garantito, se è vero che a sei anni dall’ingresso poco meno della metà di chi ha iniziato a lavorare con tale forma contrattuale ha ancora un tempo indetermi­nato, mentre l’11,4% è transitato verso forme atipiche (dipendente a termine, apprendista o parasubordinato) e il 35,3% è disoccupato o ha ampi buchi lavorativi; b) le forme atipiche non sono sempre una trappola – anche se la quota di chi sperimenta mobilità ascen­dente è comunque minoritaria – dato che, rispettivamente, il 44,2% dei dipendenti a termine, il 38,0% degli apprendisti e il 35,4% dei parasubordinati lavora con un contratto a tempo indeterminato al termine del periodo di osservazione.

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Tuttavia, la fotografia a sei anni di distanza non fornisce l’effettivo quadro delle dinamiche seguite dai lavoratori nel corso del periodo sotto osservazione, dato che le transizioni fra stati più o meno van­taggiosi sono talora molto frequenti e di breve durata. Per meglio sintetizzare la frequenza degli upgrade (passaggio da dipendente a termine a tempo indeterminato o da parasubordinato a dipendente) e dei downgrade (passaggio dal tempo indeterminato a una forma contrattuale a termine, parasubordinata o in disoccupazione, totale

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o parziale) è allora interessante misurare la quota di lavoratori che nel quinquennio successivo all’ingresso in attività ha sperimentato, almeno una volta, un episodio di peggioramento o miglioramento della tipologia contrattuale (Tabella 2).

Da questo esercizio, il quadro di mobilità risulta ancora più accen­tuato. A questo proposito basti citare che 2/3 di chi ha iniziato a la­vorare con un contratto a tempo indeterminato ha subito nei cinque anni successivi all’ingresso in attività, almeno un episodio negativo. Al contrario, circa il 55% dei dipendenti a termine si stabilizza nel quinquennio in esame. Il problema è che molte di queste stabiliz­zazioni – anche fra i laureati – non rappresentano affatto un punto di arrivo sicuro, ma sono di breve durata, come confermano, del resto, i dati del ministero del Lavoro, che segnala come il 41,6% dei contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato nel 2013 sia cessato entro i tre anni (il 12,8% entro il primo anno, il 17,6% entro il secondo e l’11,5% entro il terzo anno).6 Il contratto standard non è quindi sempre indicativo di un’effettiva stabilizza­zione, ma rappresenta sovente una semplice tappa di vite lavorative complesse e intermittenti.

Come atteso, a conferma del valore dell’istruzione – pur in un conte­sto, come quello italiano, in cui il premio per l’investimento in istru­zione appare in riduzione7 – la frequenza degli episodi di mobilità ascendente (discendente) è maggiore (minore) per i più istruiti, rispet­to ai meno istruiti, ma i rischi di scivolamento da un contratto stabile o intrappolamento in una forma atipica sono elevati anche fra i laureati. Inoltre, i dati non confermano affatto l’idea che le prospettive dei dipendenti siano legate esclusivamente alla dimensione d’impresa e, dunque, alla tutela che era offerta, o meno, dall’articolo 18 dello Sta­tuto dei lavoratori. Se la soglia dei 15 dipendenti avesse effettivamen­te rappresentato un vincolo insuperabile alle scelte delle imprese, ci si sarebbe aspettato un bassissimo rischio di downgrade dal tempo indeterminato per gli addetti di imprese con più di 15 dipendenti e, al contrario, una minore probabilità di stabilizzazione all’interno di queste. Al contrario, la quota di lavoratori che perde il tempo in­determinato o si stabilizza in un tempo indeterminato non varia in misura sostanziale quando si confrontano lavoratori tutelati o meno dall’articolo 18 (Tabella 3).

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UN MERCATO DEL LAVORO RIGIDO, SEGMENTATO O LIQUIDO?

L’evidenza empirica smentisce l’idea che prima della riforma il mer­cato del lavoro italiano fosse rigido e porta a dubitare che il suo prin­cipale problema fosse la segmentazione fra iper-tutelati e non ga­rantiti. A un’attenta lettura dei dati esso appariva, infatti, “liquido”, piuttosto che rigido o segmentato: molti lavoratori – soprattutto i più giovani, ma non solo8 – fluttuavano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità o disoccupazione di lunga durata o intermittenza occupazionale.

La generica contrapposizione tra rigidità e flessibilità non appare, dunque, di grande aiuto per individuare gli interventi più efficaci da adottare. Di certo, limitare la varietà contrattuale appare indi­spensabile per ridurre le diseguaglianze e migliorare le condizioni di chi lavora con contratti flessibili. Ma questi obiettivi sarebbero dovuti essere raggiunti partendo dal basso, cioè eliminando le forme contrattuali maggiormente penalizzanti e meno protette, invece che dall’alto, cioè indebolendo il contratto a tempo indeterminato, come si è invece fatto nel Jobs Act, dal momento che, come mostrato, il contratto a tempo indeterminato non costituiva un ostacolo alla mobilità dei lavoratori.

Va inoltre sottolineato come l’evidenza di traiettorie di carriera mol­teplici e complesse, anziché di semplici dinamiche di carriera che vanno dall’atipicità contrattuale alla stabilità o rimangono sempre intrappolate nell’atipicità, complichi considerevolmente gli stru­menti di analisi necessari per la comprensione delle dinamiche di mercato – la semplice lettu­ra in termini di “tempi di stabilizzazione” non appare sufficiente –, oltre a rendere molto più difficile la ricerca di policies che facciano fronte a tali criticità.

Pensare che basti incentivare (con ingenti risorse pubbliche e senza porre alcuna condizione alle imprese per ricevere gli esoneri contributivi) la stipula di un contratto a tutele crescenti senza riflettere sul fatto che buona parte delle stabi­lizzazioni non rappresentasse affatto un posto di lavoro stabile già da prima del Jobs Act (e la successiva deregolamentazione certo non ha attenuato il problema), appare, dunque, una strategia miope, che non è in grado di vede­re come l’insicurezza occupazionale, anziché discendere da presunti vincoli normativi sulle forme contrattuali modificabili con un tratto di penna, dipenda da caratteristiche strutturali del sistema produtti­vo italiano.

La possibilità di lavorare presuppone l’incontro fra l’offerta di la­voro, condizionata dalle caratteristiche dei lavoratori e dalle forme contrattuali, e la domanda da parte delle imprese. La visione che ha ispirato i provvedimenti in materia di lavoro del governo Renzi si è concentrata, quasi esclusivamente, sul lato dell’offerta, ritenendo che le modifiche contrattuali e gli sgravi contributivi temporanei rappre­ sentassero una condizione necessaria e sufficiente per far ripartire il processo di crescita occupazionale. Molta meno attenzione è stata, invece, dedicata a interventi che, seguendo una strategia più com­plessa da adottare e di minor impatto mediatico, ma sicuramente più efficace nel lungo periodo, provassero a modificare le condizioni del­la domanda di lavoro, attraverso, ad esempio, un coraggioso piano di investimenti pubblici e misure di politica industriale e creditizia che forniscano agli imprenditori incentivi e opportunità per spostare la produzione verso segmenti più innovativi. Al contrario, politiche economiche che si focalizzino su un solo lato di un solo mercato, e siano prive di visione strategica, rischiano di essere inefficaci o dan­nose, soprattutto se, come visto in precedenza, queste si basano su un’errata diagnosi dei mali di un sistema economico, fondata su falsi miti anziché su un’evidenza empirica incontrovertibile.

 


 

[1] Si ringrazia la Fondazione Giacomo Brodolini per aver concesso l’utilizzo del dataset Ad-Silc per condurre le analisi presentate in questo lavoro.

[2] Chi è entrato in attività nel 2004, 2005 e 2006 è seguito, rispettivamente, fino al 2009, 2010 e 2011.

[3] Con l’eccezione dell’anno di ingresso in attività, lo status occupazionale è identificato dal tipo di relazione contrattuale prevalente nell’anno. Se in un dato anno si lavora, ma meno di 26 settimane, si viene classificati come “intermittenti”, mentre viene considerato “disoccupato” chi non lavora per l’intero anno.

[4] Negli archivi dell’INPS si identifica come “autonomo” chi versa contributi alle gestioni di artigiani, commercianti e agricoltori autonomi. Fra i dipendenti includiamo sia gli addetti del settore pubblico che di quello privato. Coerentemente con la normativa italiana, la Cassa integrazione, anche a “zero ore”, è considerata un periodo di lavoro da dipendente.

[5] Fra chi non risulta registrato per un intero anno negli archivi dell’INPS rientra anche chi lavora sempre “in nero”.

[6] Si veda Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Rapporto annuale sulle comuni­cazioni obbligatorie. Le dinamiche del mercato del lavoro dipendente e parasubordinato, Roma 2016.

[7] Si veda P. Naticchioni, M. Raitano, C. Vittori, La Meglio Gioventù: Earnings Gaps across Generations and Skills in Italy, in “Economia Politica”, 2/2014, pp. 233-64.

[8] Per un’analisi delle traiettorie dell’intera forza lavoro anziché dei soli neo-entrati in attività si veda M. Raitano, Il falso mito della rigidità del mercato del lavoro italiano, in F. R. Pizzuti (a cura di), Rapporto sullo Stato Sociale 2015, Simone Editore, Napoli 2015.