La globalizzazione

Di Yves Mény Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno avuto almeno l’effetto positivo di dissipare alcune illusioni e di aprirci gli occhi sul mondo così com’è, ovvero spesso tragico. Nel corso dell’ultimo decennio, invece, si era progressivamente sviluppata in Occidente una sorta di nuova utopia di stile settecentesco; data l’incontestabile supremazia della coppia democrazia/mercato e la scomparsa di qualsiasi credibile alternativa all’organizzazione dominante sia in campo economico che politico, il mondo non sarebbe che potuto progredire nel senso di un mondo più prospero, più pacifico, più globale: la felicità derivante dai commerci in una società senza conflitti di rilievo. Confesso di non condividere questo ingenuo ottimismo, questa visione lineare e «progressista» che dimentica che la storia dell’umanità è fatta di gloria, di prosperità e di felicità, ma anche di profondi abissi.

 

Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno avuto almeno l’effetto positivo di dissipare alcune illusioni e di aprirci gli occhi sul mondo così com’è, ovvero spesso tragico. Nel corso dell’ultimo decennio, invece, si era progressivamente sviluppata in Occidente una sorta di nuova utopia di stile settecentesco; data l’incontestabile supremazia della coppia democrazia/mercato e la scomparsa di qualsiasi credibile alternativa all’organizzazione dominante sia in campo economico che politico, il mondo non sarebbe che potuto progredire nel senso di un mondo più prospero, più pacifico, più globale: la felicità derivante dai commerci in una società senza conflitti di rilievo. Confesso di non condividere questo ingenuo ottimismo, questa visione lineare e «progressista» che dimentica che la storia dell’umanità è fatta di gloria, di prosperità e di felicità, ma anche di profondi abissi. Tuttavia, confesso anche che davanti alle certezze quasi universalmente condivise e ai fatti quotidiani che sembravano dare ragione alle visioni più ottimiste, mi sentivo quasi in colpa a proporre punti di vista divergenti sulla questione: nella migliore delle ipotesi, avrebbero potuto criticare un’analisi erronea dei fatti; nella peggiore, supporre un pregiudizio normativo derivante dal pessimismo dell’autore.

L’Assenza di alternative al modello politico occidentale ha eliminato le minacce esterne ma rafforzato le sfide interne. Il consolidamento democratico non riguarda più soltanto le nuove democrazie, bensì tutte le democrazie. Finché il modello occidentale doveva confrontarsi con contro-modelli, sul piano politico, economico e sociale, tale situazione aveva conseguenze di due generi: il confronto svolgeva il ruolo di salutare stimolo a una competizione non solo materiale ma ideologica, e permetteva anche di giustificare o dimenticare certe pecche in nome della gerarchia dei problemi da affrontare. Meglio una democrazia, seppur imperfetta, che un regime dispotico. La principale sfida che attende al varco la democrazia nel secolo che si apre non è un modello alternativo, che deve ancora nascere ed essere concepito, ma l’indifferenza di coloro che ne rappresentano formalmente la ragion d’essere, ovvero i cittadini. La disaffezione – espressione sperimentata con esiti catastrofici tra le due guerre – nei confronti del regime democratico può trovare espressione nel rifiuto delle forme moderate del sistema democratico come lo conosciamo, a vantaggio di forme popolari radicali: populismo nella sua espressione più moderata, oppure estremismi di destra o di sinistra. La democrazia potrebbe così rimanere il regime universale di riferimento, pur essendo seriamente minacciato qui e là dall’emergere di crisi locali. La solidità dell’insieme dell’edifico democratico dipenderà allora dalla duplice capacità di isolare e ricondurre alla ragione i paesi che abbiano smarrito la strada.

Democrazia di tipo occidentale e mercato sono storicamente legati (sebbene non indissociabili) ed entrambi aspirano all’universalità. Tuttavia, le democrazie non dispongono degli strumenti per fare fronte a crisi economiche e sociali di grandi proporzioni. Una crisi, pur non essendone prevedibili occorrenza e forme, risulta nondimeno probabile, a meno di una mutazione radicale del capitalismo e della scienza economica che permetta di bandirle. Per il momento però non è così. A priori, si potrebbe sostenere che le democrazie siano da certi punti di vista in grado di affrontare meglio anche una grave crisi economica, in mancanza di alternative credibili e di teorie politiche ed economiche capaci di sostituirsi ai dogmi imperanti. L’esperienza degli anni Trenta e delle politiche keynesiane del dopoguerra è ricca d’insegnamenti da questo punto di vista. Tuttavia, in contrapposizione a questa interpretazione ottimista, si può notare che i sistemi occidentali di Welfare hanno esaurito le loro capacità e le loro risorse; sviluppati sino all’eccesso, non sono affatto in grado di dare ancora. Guardiamo la situazione senza infingimenti: davanti a una depressione economica, tanto più devastante perché oggi viviamo in una condizione di totale interdipendenza, non ci sono ancora né un «piano di salvataggio» economico e finanziario, né tanto meno rimedi politici, se non la speranza nella lungimiranza delle élite e nella saggezza o buon senso dei cittadini. Si può senza dubbio sottolineare come la scienza economica e le capacità di indirizzo dell’economia abbiano compiuto immensi progressi, ma equivarrebbe dare prova di ingenuità e ignoranza della storia pensare che anche in questi ambiti si sia giunti alla «fine della storia». Questo genere di utopie di lungo termine, che spesso non durano più a lungo della polemica sui media, non sono affatto utili per guidarci. Dal passato possiamo purtroppo trarre una lezione: le crisi prendono alla sprovvista non soltanto coloro che praticano la politica, ma anche i teorici e gli esperti. È spesso dalle crisi che nascono non soltanto le nuove condizioni economiche e sociali, ma anche i nuovi paradigmi e i nuovi strumenti intellettuali e pratici. L’impensabile e l’impensato di ieri diviene improvvisamente possibile e fattibile.

In linea di massima, il sistema democratico evolve verso l’universalità, ma le sue forme devono permettere la diversità dei modelli e offrire spazio ai particolarismi culturali. Il modello occidentale di governo è divenuto il referente quasi esclusivo, come anche la tecnologia, l’abbigliamento, gli spettacoli ecc. Questo sviluppo ispirato, auspicato, sostenuto dal mondo occidentale è spesso stato valutato in termini semplicistici. La stampa e gli uomini politici hanno spesso assegnato brevetti di democrazia basandosi sulla semplice esistenza di un minimo formale e istituzionale: in genere, l’esistenza di una costituzione, il riconoscimento dei partiti politici e l’organizzazione di elezioni. È sulla base di alcuni indici di questo genere, apparsi dopo la caduta dei dittatori, che è stata affrettatamente stabilita la nascita della democrazia. Vi sarebbe molto da dire su queste legittimazioni rapide e interessate, che portano a ridurre il regime democratico alle sue forma elementari piuttosto che alla sua sostanza. Tuttavia, l’universalizzazione della democrazia, al di là del suo carattere più o meno artificiale, pone un problema ancor più grave: quello dell’integrazione di elementi non strettamente democratici in funzione di culture, tradizioni e pratiche locali. La questione fondamentale per il XXI secolo e per i nuovi Stati che si democratizzano è quindi la seguente: come conciliare i principi democratici inventati dall’Occidente – ma mai applicati nella loro totale purezza e integrità – con elementi della cultura o della tradizione locale? Sino a che punto tale miscela può essere considerata come democratica, e dove passa la frontiera tra «democrazia imperfetta » e «non-democrazia inaccettabile»? La costruzione della democrazia è un lungo cammino, una lotta senza tregua, un continuo adeguamento a nuove aspirazioni. Sebbene i tempi recenti ci mostrino una formidabile accelerazione dei processi di cambiamento (si ricordi l’esempio di Spagna e Portogallo), il nostro passato dovrebbe insegnarci la tolleranza, la pazienza, l’ampiezza di vedute e l’immaginazione. Dobbiamo ammettere che molte regole e istituzioni possono variare da un paese all’altro, che il senso e la portata dei diritti fondamentali sono essi stessi – nonostante la loro proclamata universalità – suscettibili di variazioni, come mostrato per esempio dalle interpretazioni divergenti del diritto alla vita.

La democrazia futura dovrà essere in grado di riconciliare le contraddizioni tra il suo radicamento nello Stato-nazione e il trasferimento di poteri a favore di autorità universali ma settorializzate. Possiamo constatare che questo dilemma assume forme diverse: globalizzazione, innanzi tutto, ovvero la crescente e rapida tendenza all’universalizzazione dei problemi e delle loro soluzioni: commercio, ambiente, trasporti ecc.; regionalizzazione, in secondo luogo, che implica un’integrazione più o meno accentuata di economie, regole e anche istituzioni – l’esempio più sviluppato è rappresentato dall’UE, il cui successo porta a imitazioni in altre parti del mondo – e, infine, transnazionalismo che di fatto si esplica non solo in fenomeni antichi come la religione, ma anche nell’emigrazione, nella moltiplicazione delle ONG e di gruppi di pressione transnazionali, nella nascita di un’opinione pubblica internazionale capace di rimettere in causa le scelte e gli orientamenti di un dato paese (la foresta amazzonica in Brasile, l’apartheid in Sudafrica ecc.). La sfida più difficile, e quella su cui la riflessione è meno elaborata, consiste nello sviluppo di un duplice fenomeno: quello della globalizzazione propriamente detta (che senza essere nuovo, diviene una questione di primaria importanza a causa della sua ampiezza) e quello della segmentazione tecnica, della specializzazione settoriale degli organi di governance. Questo duplice fenomeno porta a una notevole riduzione dello spazio della politica democratica e delle forme di dibattito che l’accompagnano, e a un relativo declino delle istituzioni che ne detenevano il quasi-monopolio (partiti, parlamenti, burocrazie nazionali), mentre beneficia alcune nuove autorità che non sono sottoposte al principio democratico ma a principi come la competenza, la specializzazione, l’indipendenza. In sé il fenomeno non è nuovo né rivoluzionario: se escludiamo l’epoca di Galileo quando il papa decideva sulle questioni scientifiche oppure l’URSS di Stalin quando la scienza era al servizio dell’ideologia, è da molto tempo che si ammette che i criteri scientifici non possano dipendere dall’ideologia o dal voto popolare (un’eccezione a questa regola di buon senso si è presentata recentemente negli Stati Uniti, dove certe scuole preferiscono gli insegnamenti della Bibbia alle teorie scientifiche dell’evoluzione). Il Tribunale internazionale dell’Aia ha rappresentato un altro esempio del tentativo di risolvere i conflitti tramite il diritto invece che la guerra. Tuttavia, la nuova ampiezza delle competenze assunte dalle autorità internazionali o sovranazionali, il carattere sempre più vincolante delle loro decisioni, la pressione dell’opinione pubblica internazionale (o piuttosto, transnazionale), la mobilitazione di gruppi di pressione ad hoc, da Greenpeace ad Amnesty International o Transparency International, contribuiscono a spostare la soluzione dei problemi verso uno spazio – internazionale, sovranazionale – che non è regolato dalle norme tradizionali dei regimi democratici. Non si tratta di sfide semplici, perché se esiste senza dubbio un demos nazionale, una comunità di cittadini impegnati, niente del genere esiste per il momento a livello internazionale. L’Unione europea conosce bene il problema – senza averlo risolto –, dovendo sempre più confrontarsi con la famosa questione del «deficit democratico». Per affrontare quella che rappresenterà la sfida per eccellenza del secolo che si apre, mi sembra che si debba di nuovo distinguere tra i due pilastri che sostengono il regime democratico: quello popolare e quello costituzionalista.

Le soluzioni sono più semplici da trovare in seno a questo secondo pilastro, applicando a livello internazionale le regole e le prassi già sperimentate a livello nazionale; queste si chiamano: fairness, due process of law, rule of law, checks-and-balances, protection of rights, ecc. Molto più problematica è invece la costruzione a livello sovranazionale di una comunità di popoli e di un mezzo d’espressione di questi popoli, che sono oggetto dei regolamenti, delle decisioni e degli arbitraggi internazionali. Sebbene l’ideale o l’utopia del futuro possa essere la costruzione di una società internazionale (grazie a Internet?), sono ancora lontani i tempi in cui la comunità internazionale potrà esercitare il ruolo della comunità nazionale democratica. Tuttavia alcuni sentieri di riflessione possono essere aperti sin da ora: i sistemi democratici potrebbero essere denominati più correttamente se li si qualificasse come «pluralisti». Il loro obiettivo è di governare secondo un metodo, il principio maggioritario, ma garantendo che la maggioranza non divenga oppressiva né totalitaria, che non detenga tutti i poteri e che offra garanzie alle minoranze. Inoltre, l’organizzazione dei sistemi democratici è di carattere territoriale (locale/nazionale). Se si ammette che il ricorso al suffragio universale diretto risulta per il momento impossibile (salvo, a rigore e con i limiti che si conoscono, nell’ambito di organizzazioni regionali) per identificare i punti di vista e le opinioni della società internazionale, è dunque necessario lavorare a livello intermedio dei rappresentanti degli Stati. In mancanza di democrazia pura, dato che il popolo internazionale non esiste in quanto tale, si dovrebbe tentare di riflettere sul rafforzamento del pluralismo e della de-settorializzazione. Cioè spostarsi da una pratica da club degli happy few, a una considerazione più universalista degli interessi in gioco. La società internazionale contemporanea è ferma al suffragio censitario, con alcuni paesi in posizione dominante. Una moltitudine di «inseguitori» devono accettare le regole del gioco elaborate o imposte dai paesi leader.

Un tale squilibrio è in qualche modo nella natura delle cose e può essere corretto solo grazie ad artefatti procedurali, istituzionali o politici. Sarebbe già un progresso se il pluralismo della società internazionale fosse garantito e protetto come avviene all’interno delle società nazionali. Ciò presuppone il riconoscimento di diritti, l’elaborazione di norme e di procedure, l’accettazione di deroghe e di eccezioni a fini protettivi. La costruzione di un regime internazionale potenzialmente democratico presuppone anche che, come per la politica nazionale, i diversi problemi da affrontare non siano separati da paratie stagne. La politica democratica può svilupparsi solo se possiede una capacità di transazione e di trade-off. Per il momento questa capacità non esiste a livello internazionale, con l’eccezione dell’ambito limitato, ambiguo e spesso ipocrita del legame tra commercio e diritti umani. Il problema è che per il momento questo legame è più il prodotto della politica americana avviata dal presidente statunitense Carter, che non il risultato di uno sforzo comune, dibattuto e adottato dall’insieme delle società democratiche. L’esempio dell’Unione europea è in tal senso istruttivo e promettente. Avviata come un’iniziativa limitata all’economia, la Comunità europea era tuttavia dotata di strumenti politici embrionali che potevano, potenzialmente, trasformarsi negli strumenti di una politica democratica. La forza della Comunità, poi dell’Unione, è consistita in questa miscela di istituzioni, nello sviluppo progressivo dei due pilastri popolare e costituzionale, nella capacità di transazione del politico, nella crescente territorializzazione dei problemi settoriali e funzionali. È certo utopico pensare che si possa estendere il modello europeo all’insieme dell’universo; ma più che le «ricette», sono lo spirito e i principi direttivi che devono servire da fonte d’ispirazione per un’impresa la cui portata potrebbe ben richiedere un intero millennio. L’aspirazione kantiana a una pace universale è stata continuamente smentita, ma i progressi conseguiti da cinquant’anni a questa parte, pur non essendo decisivi né irreversibili, rendono meno illusoria e utopica la costruzione lenta ma progressiva di una società globale ma pluralista, eterogenea ma pacifica.

La globalizzazione rimette in questione un certo numero di concetti, di percezioni e di interessi plasmati dalla fusione storica tra Statonazione e spazio democratico. Una nuova definizione dei valori democratici (libertà, uguaglianza, solidarietà) è inevitabile. La  coerenza laboriosamente costruita tra spazio economico, spazio politico e spazio sociale è sempre più messa in difficoltà. Il fenomeno è già evidente nell’America del Nord e in Europa occidentale, ma si presenta ancora incompiuto perché le strutture culturali, linguistiche e politiche sono più resistenti al cambiamento, se non altro a causa della loro territorializzazione. Esiste quindi un divario crescente tra alcuni tipi di flussi, il quale può divenire esso stesso, e diviene, una posta in gioco della politica democratica. Sino ad ora, un sistema politico era caratterizzato dall’associazione e cumulo di un certo numero di proprietà, le quali sono oggi dissociate. Per forza di cose, le società politiche cambiano di natura: da chiuse divengono aperte; dall’omogeneità ricercata o attesa, passano all’eterogeneità, che sia accettata o meno. Delle due cose l’una: o questo carattere frammentario e composito trova modalità di gestione consensuali (multiculturalismo, minoranze nazionali, pluralismo liberale ecc.), oppure si rischia una grande implosione delle vecchie società nazionali a profitto di società più omogenee, o a livello territoriale, o a livello di gruppi e di comunità specifiche. Se il legame tra questi gruppi e territori è innanzi tutto di carattere politico, qualsiasi allentamento di tale legame è destinato a produrre spinte centrifughe.

Da questo punto di vista, almeno in Europa la necessaria riforma del Welfare rappresenta una sfida non solo economica e finanziaria. La vera questione riguarda le modalità di finanziamento, di gestione e di distribuzione di una politica sociale che ormai può essere rimessa in causa solo per quanto attiene alle sue modalità, ma non al suo principio di fondo. Un esempio: i governi europei, che sono giustamente preoccupati per la crescita della spesa sanitaria e per il suo finanziamento, hanno ragione a voler riformare il sistema. Tuttavia non va dimenticato che negli Stati Uniti questa spesa per abitante è più alta, nonostante che diverse decine di milioni di persone siano poco o per nulla assistiti. Gli argomenti esclusivamente finanziari o contabili rendono opaco il dibattito e impediscono ogni progresso.

Il problema in Europa, ben più che altrove, è che il Welfare è stato lo strumento dell’integrazione delle masse nelle società industriali. La concessione del suffragio universale fu spesso il primo passo verso la costruzione di una società democratica. Ma la consapevolezza che la scheda elettorale fosse insufficiente fornì maggiori attrattive alla prospettiva di una rivoluzione sociale. I regimi democratici europei si sono sviluppati alla convergenza tra diritti politici e sociali. Rimettere in questione i secondi minaccerebbe la legittimità stessa del sistema, il che tuttavia non significa che tutti i corporativismi e gli egoismi sociali abbiano diritto a perpetuarsi indefinitamente. Il dibattito sul Welfare, sebbene spesso mal impostato, è dunque il benvenuto e impone di porre le seguenti questioni fondamentali: qual è il suo ruolo, qual è la sua legittimità? Quale deve essere il «luogo» della solidarietà: locale, nazionale, internazionale, generazionale? Qual è la divisione dei compiti auspicabile tra pubblico e privato? Quale politica di redistribuzione è possibile e legittima, e a favore di chi? La questione è lungi dall’essere risolta. Sebbene la complessità e la tecnicità del problema spesso offuschino il dibattito, la questione del Welfare nei sistemi democratici rimette in causa vecchie certezze come la divisione dei compiti tra uomini e donne, la ripartizione del profitto tra capitale e lavoro, la suddivisione delle entrate tra vantaggi diretti e indiretti, l’equilibrio tra lavoro per i giovani e pensioni per gli anziani ecc. Ma solo raramente le discussioni si concentrano su questi problemi, focalizzandosi invece sui costi del Welfare e sulla necessità di operare tagli dolorosi. La posta in gioco si riduce in tal modo a un confronto tra gruppi di pressione, piuttosto che divenire una riflessione sul Welfare quale componente delle società democratiche.

Ancora più raramente si discute di implicazioni meno dirette eppur logiche del principio di solidarietà, che è all’origine del Welfare (se non lo si vuole ridurre a un semplice atto di carità). Innanzi tutto, se il principio stesso di solidarietà è rimesso in questione è il ruolo delle istituzioni democratiche quali istanze di riequilibrio che viene a crollare: la carità è una questione di buona volontà, di bontà d’animo e d’iniziativa individuale o collettiva. La solidarietà, che implica prelievi d’autorità, presuppone almeno in linea di principio un dibattito sull’opportunità e l’entità dei trasferimenti da compiere, sull’identità dei beneficiari ecc. La solidarietà implica un legame sociale: la famiglia, il villaggio, la comunità politica nel suo insieme. Da questo punto di vista non sembrerebbe affatto logico far beneficiare lo straniero della solidarietà della comunità, impedendogli al tempo stesso l’accesso a quella comunità politica, con la mancata concessione per esempio della cittadinanza e del diritto di voto. Allo stesso modo, nell’ipotesi di una comunità internazionale democratica, sarebbe logico rafforzare i legami di solidarietà all’interno di tale comunità. Per il momento, tale solidarietà è troppo spesso balbuziente o inesistente. Vi è qualche ipocrisia nell’esigere, in nome dei diritti fondamentali, il divieto di lavoro per i bambini o il boicottaggio dei prodotti che fabbricano, se non siamo in grado di offrire un aiuto effettivo, una solidarietà internazionale per contribuire alla soluzione del problema della loro sopravvivenza. In questo ambito più che in altri, la solidarietà internazionale sembra essere utopica o doversi ridurre a qualche gesto simbolico. Se ne vedono bene le difficoltà in Europa dove nessuno desidera creare un Welfare europeo, per paura di dar vita a un costoso mostro burocratico. Questo tuttavia non ha impedito la creazione di politiche di trasferimento (in particolare a carattere territoriale) che hanno permesso di aiutare i paesi o le regioni povere grazie al contributo di quelle più ricche.Occorre oggi interrogarsi sulle conseguenze che gli avvenimenti recenti possono avere sullo sviluppo dell’Europa, tanto nella sua dimensione interna (organizzazione, sviluppo) quanto in quella esterna (relazioni con il resto del mondo). A questo stadio assai prematuro bisogna accontentarsi però di aprire alcuni sentieri di riflessione preliminari, una mera lista delle «possibilità», ma anche delle sfide e dei pericoli che l’Unione europea dovrà affrontare. La situazione attuale richiede una globalizzazione più equilibrata, tanto sul piano politico quanto economico. Forzandone un po’ i tratti, potremmo caratterizzare la globalizzazione degli anni passati come un fenomeno economicamente dominato dagli Stati Uniti, in particolare per mezzo delle sue multinazionali, e politicamente contraddistinto da una preferenza americana per l’unilateralismo (in particolare, in seno al Congresso e in seno all’esecutivo dopo l’elezione di George W. Bush). Questo autismo americano ha molto contribuito a esacerbare e radicalizzare le critiche verso le forme e le conseguenze della globalizzazione. Gli attentati dell’11 settembre cambiano le carte in tavola e costringeranno gli Stati Uniti a ripensare le loro strategie sia economiche che politiche: anche la più grande potenza del mondo ha bisogno della cooperazione degli altri. Su questo terreno l’UE ha un’importante carta da giocare. I suoi punti di vista sull’organizzazione del mondo, sulla globalizzazione, sono molto più vicini ai bisogni del pianeta rispetto a quelli espressi sino a poco tempo fa dagli USA, i quali hanno però già fatto alcuni passi avanti: la costruzione di una coalizione contro il terrorismo, maggiori controlli sui flussi finanziari (quando Bush un mese prima aveva rifiutato anche le più timide proposte su questo tema), maggiore impegno nei confronti del conflitto israelo-palestinese.

L’utopia kantiana della «pace universale» rimane un programma da realizzare. La pace non è mai data una volta per tutte, ma è sempre una costruzione fragile. Ciò può apparire banale, ma lo è forse meno se si fa riferimento all’opinione pubblica europea di questi ultimi anni. Quando coloro che credono nell’Unione rammentano come la sua prima missione fosse stata quella di ristabilire la pace, in particolare tra Francesi e Tedeschi, i più sorridono ironicamente pensando di aver ascoltato troppe volte la stessa storia. L’11 settembre 2001 – come già la Jugoslavia – ribadisce con forza che la missione primaria dell’UE è vitale, nonostante cambino le forme, le origini e le modalità delle minacce di guerra. Purtroppo, non è certo che le élite europee sappiano spiegare alle loro opinioni pubbliche perché l’Europa sia più che mai necessaria. Gli attentati dell’11 settembre confermano che la globalizzazione dell’economia e degli scambi può essere duratura solo se i costi e i benefici di tale trasformazione non sono troppo inegualmente ripartiti: gli spill-over effects positivi per i paesi che sono ai margini del processo di globalizzazione sono spesso circoscritti (a certi territori o gruppi sociali), mentre su altri gruppi o classi ricadono tutti i costi e gli effetti negativi. Da sole le leggi del mercato non rendono questi processi accettabili per la maggioranza delle persone. Meccanismi complementari devono essere adottati per evitare che la globalizzazione comporti la distruzione di interi settori economici, come per esempio l’agricoltura nel Terzo mondo. L’Europa ha fatto più di molti altri, ma spesso in maniera insufficiente o inefficace. È urgente che essa nel suo insieme (e ciascuno Stato europeo in particolare) sia più attenta all’evoluzione delle società più vicine. La sfida non è solo economica. È anche politica. Estendere la democrazia richiede pazienza e umiltà: due qualità troppo spesso dimenticate dai media, dalle opinioni pubbliche e dai «dottori in virtù democratiche». Se si impostano male le premesse, il risultato non può essere che sbagliato, come mostra il dibattito sul «deficit democratico» europeo. Questa regola prudenziale vale per l’Europa stessa come anche per i partner che l’Europa vuole indirizzare sulla strada della democrazia. Un lungo sforzo pedagogico e progressi parziali devono essere preferiti alle illusioni di un grande salto costituzionale. Occorre ogni volta partire dall’esistente, assicurarsi che non si facciano passi indietro, garantire o facilitare gli sviluppi futuri.

La prima reazione alle sfide di un terrorismo globale è naturalmente di carattere militare. In campo militare, e malgrado alcuni progressi recenti in materia di difesa, l’UE è ancora ai primi balbettii e non è paragonabile agli USA. Una minaccia grave nei confronti del mondo occidentale significa necessariamente la riaffermazione del primato americano, che lo si approvi o lo si deplori, e ciò non solo per cause militari, ma perché le attuali istituzioni non forniscono la necessaria capacità politica di agire. C’è inoltre ancora molto da fare affinché una vera europeizzazione in materia di definizione dei crimini, di azione penale, di sanzioni e di prevenzione, prenda il posto del mosaico delle competenze statali. Tuttavia, ci sono meno ragioni di essere pessimisti che in materia di difesa, perché l’europeizzazione è già stata avviata e, soprattutto, la sua necessità si fa sentire con sempre più forza davanti agli ostacoli che la situazione attuale crea. Non si dovranno superare solo le numerose resistenze a questo sviluppo, ma anche dimostrare che l’europeizzazione costituisce una migliore garanzia per la sicurezza dei cittadini rispetto all’attuale frammentazione nazionale, altrimenti anche i troppo timidi progressi attuali saranno vanificati.

Per concludere: qual è il futuro dell’Europa? Si potrebbe sostenere che, in un mondo più instabile e pieno di nuovi pericoli, la cosa migliore sia di rimanere attaccati alle vecchie certezze: l’ombrello americano per la nostra difesa, e l’ombrello nazionale per le tempeste economiche, sociali o d’altro genere. Ma niente sarebbe più sbagliato di una strategia di corto respiro. L’UE ha precisamente come obiettivo di offrire a tutti gli europei più sicurezza lato sensu, più prosperità e più democrazia (creando un attore pubblico capace di meglio garantire le aspirazioni e gli interessi degli europei a livello globale). Smettiamo di considerare questo come un gioco a somma zero. In questa fase di transizione, gli USA possono rappresentare il naturale bozzolo materno che rassicura. Ma si tratterebbe di una regressione se la giovane creatura europea si dovesse ripiegare sulle sue origini per paura dell’avvenire. Oggi più che mai l’Europa ha bisogno di diventare adulta ed è nelle difficoltà che si forgia una coscienza e una personalità.